Akemichan's blog

Posts written by Akemichan

  1. .
    ra il compleanno di Marco, il primo da quando lui e Ace erano diventati ufficialmente una coppia.
    Naturalmente, Ace immaginava di poterlo trascorrere assieme a Marco, invece la sua missione che lo aveva tenuto lontano tutta la settimana non l'avrebbe fatto tornare per tempo. Era molto deludente. Satch gli aveva assicurato che Marco aveva promesso che sarebbe tornato entro la serata e, se Marco aveva promesso, avrebbe rispettato la parola data.
    Tuttavia, ad Ace dispiaceva avere solo la serata. Sempre che riuscissero ad avere anche quella, perché Marco era uno stakanovista e, considerando il lavoro che si era accumulato, Ace aveva il dubbio (praticamente una certezza) che si sarebbe messo a lavorare appena tornato. Marco avrebeb baciato Ace, si sarebbe scusato, ma avrebbe preferito finire il lavoro prima di passare del tempo libero con lui.
    Per questo motivo, Ace decise che avrebbe fatto tutto il lavoro al posto di Marco. Gliel'avrebbe indicato come una sorta di regalo di compleanno: dopotutto, non era giusto che Marco tornasse dopo una missione stancante e, proprio il giorno del suo compleanno, dovesse anche recuperare il lavoro perso. Era certo che Marco l'avrebbe ringraziato e poi avrebbero potuto almeno trascorrere la serata assieme.
    Così, si mise di buona lena al lavoro e si occupò di tutto, pur lamentandosene continuamente e pensando che non riusciva a capire come Marco riuscisse ad occuparsi di tutto senza impazzire. Lui, solo a farlo una volta, aveva voglia di morire.
    Dopo aver terminato tutto il lavoro, Ace si ritrovò distrutto e si chiese come Marco poteva reggere ogni giorno. Probabilmente aveva qualcosa a che fare con il suo frutto del diavolo. Era così ingiusto.
    In ogni caso, Marco non era ancora arrivato, per cui Ace pensò che, prima di prepararsi, poteva rilassarsi un attimo. Si sdraiò sul letto della camera di Marco e chiuse appena gli occhi. Un secondo dopo, dormiva nella grossa, russando con la bocca spalancata. Fu così che lo trovo Marco quando tornò dalla sua missione: completamente addormentato, la bocca spalancata e un rivolo di saliva che scendeva, russando a voce molto alta, braccia e gambe completamente spalancate sul letto.
    "Mamma mia come sei pigro, Ace!"
    Ma non lo svegliò.
  2. .
    Ho impiegato anni a decidermi a scrivere le mie memorie. Nonostante mio marito mi abbia sempre incoraggiato a farlo, sostenendo che ciò che avevo vissuto, ciò che abbiamo vissuto assieme, sarebbe stato fondamentale per creare una nuova scienza nello studio dei draghi, io ero attanagliato dai dubbi.
    Il mio primo dubbio riguardava, ovviamente, me stesso. Sapevo che nel raccontare la storia della mia vita avrei dovuto aprire il mio cuore e iniziare dall’inizio, da quel bambino malato e malinconico che ero sempre stato. Mi sarei messo a nudo veramente, per la prima volta.
    Non che voi tutti, sì, voi che adesso state leggendo questo libro, non abbiate già un’opinione abbastanza scandalosa di me. Eppure, davvero, in queste pagine potreste ritrovarvi a scoprire una parte di me che di sicuro non vi aspettate, ben diversa dall’uomo sicuro di sè, un leader come mi ha definito la regina, che avete imparato ad amare ed odiare.
    Il secondo dubbio, naturalmente, è legato al mio rapporto con mio marito. Voi lo conoscete adesso come Keith, Duca di Marmora, ma per me è sempre stato solo Keith, quell’archeologo che incontrai per la prima volta durante la mia prima spedizione alla ricerca dei draghi, quella guidata dalla Principessa Allura di Altea.
    Il mio primo ricordo di lui è sulla barca che ci stava portando alla nostra destinazione; non faceva parte del nostro gruppo, ma io lo invitai subito e, a differenza di quello che dicono le malelingue, il mio invito non fu dovuto al fatto che la sua maglietta si fosse strappata durante un incontro non particolarmente amichevole con un drago d’acqua, rivelando tutta la bellezza di quel corpo tornito al di sotto.
    Non negherò che ci fosse da subito dell’attrazione fisica fra di noi. Ma Keith non faceva nulla di tutto questo per provocarmi, era completamente inconscio del fascino che aveva su di me e sugli altri; anche per questo, non si era preoccupato troppo di cambiare la sua maglietta quando si era strappata. Per lui, che era vissuto a lungo da solo, un corpo nudo non era particolarmente scandaloso.
    Ma no, quello che più di tutti mi attirò di lui fu in assoluto la luce nei suoi occhi. Occhi bellissimi, con sfumature viola, ma venati da una malinconia che conoscevo molto bene, la malinconia che io stesso avevo vissuto da bambino prima di trovare una ragione di vita nella ricerca della conoscenza dei draghi. Io ero riuscito, in qualche maniera, a uscire dalla malinconia grazie all’aiuto di mio nonno, che mi aveva spinto con quella passione.
    Keith aveva degli obiettivi, era un archeologo, ma allo stesso tempo non aveva nessuno e sentiva che non avrebbe lasciato niente nel mondo di sé. Io avevo capito che si sbagliava e avevo fatto un punto della mia vita quello di togliergli quella malinconia dagli occhi.
    E ce l’avevo fatta, naturalmente. Non avremo ottenuto quello che abbiamo ottenuto altrimenti, e lui non sarebbe mio marito. In realtà mi rendo conto che parlare di Keith sia molto più semplice che parlare di me stesso, perché se c’è una cosa su cui non ho mai avuto dubbio è il mio amore per lui, e il suo per me. No, il mio dubbio, semmai, è nel vostro modo di vederlo.
    Ecco, non dubito che molti di voi abbiano adesso questo libro in mano nella speranza, o forse nella certezza, che sia materiale pornografico. Il bacio appassionato che io e Keith ci siamo scambiati nel bel mezzo del delirio dragonesco è ben noto a tutti voi, essendo stato immortalato in lungo e in largo, e per molti benpensanti quello è stato pornografico.
    Ma dietro i vostri salotti, io lo so, pensate e dite molto di peggio. Le signore ridono del racconto della maglietta strappata di Keith, e si immaginano che io lo abbia preso proprio lì, sulla nave, baciando la sua pelle già nuda perché non potevo resistere alla sua vista. I signori fingono disgusto, ma nel buio della loro camera si chiedono come sia fare l’amore con un mezzo drago, se il suo pene sia ricoperto di scaglie o se sia doppio come quello di alcuni draghi d’acqua.
    Ecco, adesso sto sfociando davvero nella pornografia. Ma, ecco, nulla di tutto questo ci sarà effettivamente nel mio libro. Ciò che è accaduto a livello fisico tra me e mio marito, rimarrà fra me e mio marito per il resto della nostra vita. Non è un libro pornografico e non lo sarà, ma voi siete liberi di continuare a pensare le vostre fantasie morbose su noi due. Nessuno di voi, comunque, si avvicinerà mai alla verità.
    No, questa è prima di tutto una storia di scienza, e poi una storia di riscatto. La storia di riscatto di un bambino malato e malinconico, che ha trovato uno scopo nella vita e ha inseguito i suoi sogni fino all’ultimo e che, con l’aiuto di un altro ragazzo malinconico, ha salvato il mondo. Ecco, è stato questo a farmi decidere di scrivere, finalmente, rischiando l’accusa di pornografia che non dubito mi arriverà nonostante la premessa: l’idea che altri bambini malinconici possano ritrovarsi in me e, come me, riscattarsi.
    Dunque, mi presento: mi chiamo Takashi Shirogane e sono il primo, e al momento l’unico, studioso specializzato nella cultura dei Draghi di Marmora (sì, anticipo le vostre risatine sul fatto che ne ho studiato uno da molto vicino, dato che l’ho sposato).
    Sono Giapponese, e sono il figlio secondogenito del Diplomatico Tendou Shirogane. Sì, secondogenito, perché nonostante fossimo gemelli, mio fratello Ryou era stato designato da tempo come il vero erede della famiglia. Non l’ho mai odiato per questo e, d’altro canto, Ryou mi ha sempre supportato anche nelle cose più folli. È stato lui a presentarmi la Principessa Allura, dopotutto.
    Ma è indubbio che il suo essere il preferito, quello sano, quello non malinconico, abbia avuto un peso durante la mia infanzia.
    Se c’è una cosa che mi ricordo di mio padre, è la sua poltrona imbottita di colore rosso. Era la sua personale, non tollerava che la usasse qualcun altro. Si sedeva sempre lì, la sera, a godersi un buon libro dopo una giornata di lavoro. Ricordo le cuciture perfette di quella poltrona, i riflessi che d’inverno il fuoco dava contro le sue parti di legno, la testa di mio padre che spuntava da dietro lo schienale.
    Io e Ryou, ogni sera, aspettavamo che si sedesse lì prima di andare a disturbarlo. Ci sedevano sul pavimento di fronte a lui, che torreggiava su di noi dal suo trono rosso imbottito, e aspettavamo che ci degnasse di uno sguardo, che ci raccontasse cose del lavoro, o storie della sua infanzia.
    A quel tempo, io ero già malato, i miei muscoli mi impedivano di stare seduto a terra troppo a lungo. Spesso ero costretto a lasciare mio padre e mio fratello prima del tempo, e mi allontanavo dal loro spazio pensando che non ne avrei mai fatto parte. Mai una volta mio padre si offrì di cedermi il posto su quella poltrona, che finii per odiare a un certo punto, e comunque anche quando eravamo entrambi di fronte a lui la sua attenzione era solo su Ryou.
    Una cosa divertente: adesso anche io possiedo una poltrona imbottita rossa. Non è la stessa, ovviamente, che è andata perduta durante la guerra, ma è mia. E ho deciso che la condividerò con chiunque voglia essere ospite a casa mia (e no, non vi confermerò se ci ho fatto sesso con mio marito lì sopra).
    In ogni caso, quella poltrona è, paradossalmente, l’unico ricordo felice di mio padre. Per il resto, di lui ricordo per la maggior parte solo lamentele. Una cosa che diceva spesso a mio nonno, che gli aveva ceduto l’azienda da anni ma che continuava a mettere becco in ogni sua decisione, era che ero troppo debole. Forse fisicamente, in parte era vero, ma a livello mentale fu lui stesso a contribuire alla mia malinconia.
    Se ne stava chiuso nella sua fortezza di stoffa rossa, da dove mi giudicava sulla base dei suoi parametri, e non dei miei. Non l’ho mai odiato, ma di certo non l’ho nemmeno mai ringraziato. Non ha fatto nulla per me tranne contribuire col suo seme a darmi la vita. Persino la casa e i soldi con cui mi nutriva, dopotutto, erano un’eredità di mio nonno.
    In quei primi anni della mia infanzia, mio nonno era in effetti l’unica figura a cui potessi aggrapparmi. Anche Ryou, all’epoca, era troppo piccolo per capire i miei tormenti. Mio nonno invece li comprendeva, al punto che ora mi chiedo se ne fosse stato vittima lui stesso, e cercava di appoggiarmi quando poteva.
    Quello che maggiormente mi ricordo di lui sono le passeggiate che ci facevamo nella nostra residenza estiva, al chiaro di luna, la mia piccola mano nella sua mentre camminavamo con i nostri zoccoli sul bagnasciuga. Se chiudo gli occhi, posso ancora sentire il rumore della risacca e l’acqua fresca che ci sfiorava i piedi mentre camminavamo.
    Era un nostro appuntamento fisso, e io lo adoravo. Nel buio della notte, tutti i miei problemi mi sembravano irrisori: la luna piena illuminava un mare scuro, e avrebbe continuato a farlo nei secoli a venire. L’acqua era fresca a discapito dell’aria calda estiva, e la sabbia umida che mi penetrava tra le dita dei piedi a prescindere che io indossassi i saldali oppure no.
    Altra cosa divertente: queste passeggiate le faccio ancora, solo che ora le condivido con mio marito. Lui, come me, ama il silenzio che una notte di luna piena offre, ed essendo cresciuto nel deserto ama la sensazione della sabbia bagnata sotto i piedi quando camminiamo sul bagnasciuga. Ma no, non vi rivelerò se abbiamo mai fatto sesso in quell’acqua fresca, né se l’abbia visto trasformarsi in un drago sotto la luce della luna piena, il suo corpo nudo che si trasfigurava di fronte a me.
    Vi posso dire che non sono mai riuscito a convincerlo a indossare gli zoccoli tradizionali giapponesi, che io ancora porto in onore di mio nonno e di quei ricordi di quella notte. Lui preferisce dei comodi sandali all’occidentale, che sono noiosi, e battibecchiamo spesso a questo riguardo. Ma per me potrebbe indossare (o non indossare, come all’epoca della maglietta bagnata) qualsiasi cosa e sarebbe perfetto lo stesso, esattamente come una passeggiata sul bagnasciuga in una notte di luna piena.
    E per inciso, nemmeno i sandali riescono a nascondere che abbia dei piedi perfetti, perfetti come il resto di lui. Piccoli, delicati, all’egiziana, e forse odio i sandali perché vorrei che camminasse sul bagnasciuga scalzo e lasciasse le impronte di quei piedi perfetti sulla sabbia. Ma sto divagando. Torniamo alle passeggiate con mio nonno, che invece portava e mi faceva portare gli zoccoli, e per il quale non ho mai ovviamente provato attrazione fisica.
    Avendo ascoltato ciò, non dovrebbe sorprendervi che la mia passione per i draghi sia nata proprio durante una di queste passeggiate. Alla sola luce della luna piena, individuai una figura sdraiata sul bagnasciuga. Il suo aspetto è diventato fumoso nella mia memoria, ma ricordo la sensazione dell’acqua fresca quando lentamente lo presi in braccio, temendo che annegasse. Le mie mani tremavano per il freddo, il mio corpo per l’eccitazione.
    Pensavo fosse un’iguana: al buio ne aveva tutto l’aspetto, e anche la dimensione. Era leggero e stava in braccio a me comodamente. Era sveglio, e si aggrappò a me come se fossi la sua ancora di salvezza. Nel momento in cui guardai mio nonno, lui capì immediatamente: mi sarei preso cura di quella creatura, che era malata proprio come lo ero io.
    Ovviamente, non sapevo che si trattasse di una specie di drago d’acqua, ferito durante la sua migrazione. I draghi si studiavano molto poco e anche quelli piccoli come quello che avevo trovato io. Alcune specie si cacciavano per divertimento, e in alcuni paesi alcune razze venivano allevate, ma la maggior parte era sconosciuta, considerando che c’erano ancora molte superstizioni a loro riguardo.
    Insomma, quando mi accorsi che il mio paziente era a tutti gli effetti un piccolo drago d’acqua, non avevo niente a cui appigliarmi, neppure il locale veterinario, che a parte darmi qualche consiglio e qualche medicina per medicargli una ferita all’ala, volle stare alla larga.
    Procedetti per tentativi, e in parte continuai a considerarla niente di troppo diverso da un’iguana: tentai di dargli da bere con una siringa, con una ciotola, con un biberon, prima di capire che preferiva essere immerso nell’acqua e bere mentre aveva la testa al di sotto della superficie. Anche con il cibo feci diversi tentativi, fino a capire che amava divorare piccoli pesci interi a partire dalla testa.
    Il drago, che avevo soprannominato Calipso, capiva le mie buone intenzioni e sopportava i miei errori e con una pazienza stoica, cercando di farmi capire quale fosse la direzione giusta da prendere. Fu così che mi resi conto che probabilmente i draghi erano molto più intelligenti di quello che si pensava e delle superstizioni che li vedevano come creature barbare votate alla distruzione.
    Mio padre accettò di buon grado questa mia nuova fissazione, in realtà come la maggior parte delle cose che facevo. Continuava a chiamare il drago d’acqua iguana, come pensavamo tutti fosse all’inizio, e a me andava bene così, perché temevo che se si fosse accorto che si trattava di un drago me l’avrebbe tolto. A distanza di anni mi chiedo se non lo sapesse e semplicemente considerasse un drago esattamente al pari di un’iguana, una creatura a cui non dare due occhiate perché ridicola, orribile, poco nobile.
    La convalescenza di Calipso fu uno dei periodi più agitati della mia infanzia, ma anche uno di quelli più eccitanti, in cui mi dimenticai della mia malinconia e della mia malattia. Non avevo un momento di tregua, ma non mi importava. Dormivo pochissimo, temendo che Calipso avesse bisogno di me. Quando non mi occupavo di lei (si, avevo scoperto di trattasse di una lei) leggevo qualsiasi libro che potevo trovare sull’argomento.
    Anche da adulto, avrei affrontato simili momenti in cui non davo tregua al mio corpo o alla mia mente; per fortuna, ora ho Keith a fianco che si rende conto di quando mi sto spingendo troppo al limite. Senza di lui penso che prima o poi uno di questi momenti mi avrebbe ucciso.
    E poi, com’era entrata nella mia vita, Calipso se ne andò. Lo fece una notte, quando la stanchezza di quei giorni frenetici aveva infine avuto la meglio su di me. Ancora oggi credo che temesse che un addio faccia a faccia sarebbe stato troppo sofferente per entrambi, o forse voleva che finalmente mi prendessi una tregua dall’essere la sua crocerossina. In ogni caso, non fu per mancanza di gratitudine.
    Questo lo so perché, sulla finestra, la mattina dopo la partenza di Calipso, trovai un paio di lacci di scarpe, lisi e consunti e sporchi, come se fossero stati scavati da qualche parte. Nei giorni precedenti mi ero rotto il laccio dei miei zoccoli e, non avendo tempo perché mi occupavo di Calipso, non li avevo ancora riparati. Non ho idea di dove Calipso li avesse trovati, ma ebbi un’ondata di gioia al pensiero che lei avesse scavato, cercato un regalo per me.
    I giorni dopo la sua partenza furono terribili. Non avevo più uno scopo nella vita e, dopo aver avuto così tanto di cui occuparmi, la mia vita mi sembrava vuota. La malinconia tornò, ancora più forte di prima, e perfino mio fratello, che mi aveva preso in giro sul mio rapporto con Calipso, si pentì e cercò di tirarmi su il morale catturando qualche piccolo drago del miele per me.
    Fu di nuovo mio nonno a tirarmi su di morale. Si sentì, infatti, con qualche suo amico oltreoceano e si fece mandare una serie di libri sui draghi scritti da autori stranieri. Non erano facili da leggere, e ci misi una vita, ma mi tennero la mente occupata. Prendevo più tregue rispetto al periodo con Calipso ma mi aiutò a rendermi conto che avevo bisogno di fare qualcosa. Avevo bisogno di stare “senza tregua”.
    In una di queste spedizioni, un amico di mio nonno spedì anche un cristallo di rocca in cui era incastonata un’ala di drago di colore viola; a quanto pare era un ricordo di una visita nel lontano paese di Daibazaal, ma a lui non interessava particolarmente così me la regalò. Era stupenda e io cercai in tutti i libri un riferimento, ma quell’ala particolare non si trovava da nessuna parte e io sognai a lungo di essere il mio a trovare il drago che la possedesse.
    Come sapete, fu una missione riuscita.
    Quello che forse non sapete, è che conservo ancora quel cristallo di rocca, così come conservo i lacci delle scarpe di Calipso; anzi, questi ultimi li ho usati come braccialetti per anni, appesi al mio braccio debole nella speranza che funzionassero come un talismano. Ovviamente, col senno di poi, fui felice di non averli con me durante l’incidente.
    Adesso sono entrambi sulla mia mensola delle meraviglie, nel mio ufficio. La gente guarda sempre con sospetto i lacci delle scarpe, ma non hanno mai avuto il coraggio di chiedermi la storia. Ve l’ho offerta così, liberamente. Del cristallo di rocca, invece, tutti chiedono; per anni mi sono chiesto se la cosa disturbasse Keith, considerando che si tratta di un’ala di un suo parente, ma lui non si è mai fatto troppi problemi.
    Dopotutto, non smette mai di ripetermi, è grazie a quel cristallo che ho deciso di studiare i draghi e specificatamente quelli di Daibazaal, cosa che mi ha portato ai draghi di Marmora, e a lui.
    Questo è l’inizio della mia storia come studioso di draghi: una creatura che sembrava un’iguana, una passeggiata sotto la luna piena, dei lacci delle scarpe per riparare degli zoccoli, un cristallo di rocca. Ancora non sapevo che mi avrebbero portato nella più grande avventura della mia vita.
  3. .
    Altean’s showers are terrible.
    Not terrible as their swimming pools, as Keith had time to discover, but bad enough: the water comes off from everywhere, at different, casual moments. Controlling the temperature is impossible, so it happens many times that Keith’s back or neck is hit with a cold jet.
    Yet, Keith is tired, and done with everything, so even a bad Altean shower is better than anything to take a breath and relax, away from everyone.
    Their war against Zarkon was bad enough before they found out about Keith’s part galra heritage, now it’s been draining. He may not have nightmares about Zarkon luring them out because of him, but being half-galra isn’t any better.
    Hunk accepted it in the end, and even tried to defend Keith against Allura, but her glare didn’t change a little bit. Keith is grateful Lance hasn’t commented anything about it, and so did Pidge, yet the tension in the air is there, and Keith can’t help but think that their thoughts aren’t different from Allura’s one. Coran is altean too, so it must be difficult to him too.
    And Shiro… Shiro is a different matter.
    Despite Shiro’s reassurance that Keith is still the same and that his heritage doesn’t matter, Keith is still way of his presence. Galra took him prisoner. They tortured him. Cut off his arm. And even if Keith looks human, how can Shiro look at him and not thinking about what happened to him?
    Their missions put them apart for some time, and Keith is grateful for it. Give Shiro time to cope. Give him time to cope.
    A jest of warm water hit sweetly Keith’s back and he shivers, remembering the way Shiro embraced him right the day after the Trial of Marmora. Shiro’s arm against his back, as he hid the face on Shiro’s neck… funny, Keith remembers how his relationship with Shiro has changed and improved since they became Paladins. The year of captivity changed Shiro in some way, Keith is sure of it, yet there is a particular way… the way Shiro touches him, looks at him… Not that Keith hopes for something more than Shiro’s friendship, but they have it strong… and Keith fears him being Galra ruined everything.
    Keith turns off the shower and goes back to his room. He’s still naked when someone knocks at his door: he considers for a second to wait, instead he opens it after covering himself a little with a towel, another in his wet hair.
    It’s Shiro. He looks flustered after he gives a brief look to Keith’s attire. “Oh, hey… sorry for the bad timing.”
    “It’s okay,” Keith shrugs. “Problems?”
    “No, not at all. Not any I’m aware off.” There is still a little blush on his face. “I heard you came later from your last mission…”
    Keith nods. “Yeah. I report to Allura. You were still in Black for your bonding exercise, so…”
    “I’m afraid Zarkon may still have some connection, and I don’t want to lose control on our decisive battle.”
    “I know.”
    Shiro looks even more flustered. “Anyway… Since you haven’t eaten yet, and I haven’t too… I wondered if you’d like company. The others are done, so…” He smiles. “Like the old time.”
    “Uh. Sure.” Keith didn’t plan to eat, to be honest, and the food goo didn’t make for a very good dinner, but he understands Shiro is trying to cheer him up – they used to eat together at Garrison every time Shiro felt Keith was a little upset. And otherwise, of course. Refuse would be rude from his part. “Just give me a second?”
    “O-of course,” Shiro stammers. “Twenty minutes?”
    Keith nods just a little and Shiro smiles again, before waving a little with his protestic and leaving. Keith watches as Shiro’s back disappeared on the hallway, then he closes the door and, in a hurry, he dries his hair and dresses back.
    Twenty minutes later, he finds himself in the dining room: the light are low, except for the part the table is arranged for a meal, in a very curate manner, not usual for their altean, fast meal. Shiro is near the stove, and the smell in the air doesn’t match with the strange, green altean food.
    “You’re here,” Shiro notices him and smiles. “Please, take a seat, I’m dishing up right now.”
    “You’re cooking?” Keith comments surprised, but he sits down. His surprise doesn’t come because Shiro isn’t good (a couple of times he finds out Shiro asking Hunk advices), but he doesn’t understand what food can be done with goo.
    “Yeah,” Shiro answers as he places a big bowl in front of Keith. “I want to make something special for today.”
    Keith’s surprise increase as he notices what exactly Shiro made. “You did Ramen? How… How it is possible?”
    The grin on Shiro’s face makes clear he’s satisfied of his little surprise. “It’s not real Ramen, just something similar… We had to go to the space market for our mission and there is a small shop for cooking. Hunk wanted to take a look and I noticed there were some ingredients that reminded me of Earth and so…”
    It’s natural Shiro misses Earth and Japan. He was missed from more than a year, and when he returned, he had to leave again without any choice on the matter. He may loves being a Paladin, Keith is sure of it, but he still has a family on Earth and a life there.
    Something Keith can’t share with him.
    To avoid answering, he takes a sip of the ramen brood. “It’s good,” he says with a little smile. “It’s very good,” he adds after a second spoon. It’s ramen… a sort of space ramen that only Shiro can make.
    “I’m glad.” Shiro takes a relieved breath. “I would have been very upset to ruin out evening.”
    “You could never,” Keith hurries to say, and he’s happy to see Shiro smiles softly, before lowering his head to his own ramen.
    For a while, they eat in silence. It’s a little different from their dinner on Earth, when Shiro talked a lot about everything, trying to put Keith out of his misery. Shiro had changed in some way, and it’s only natural, yet Keith loves him even more. There is a sense of familiarity in the way they stay together even without speaking that Keith appreciates.
    “How’s the shoulder?” Shiro asks, when Keith sips the last of his ramen.
    Without noticing, Keith lifts it a little. “It’s fine. Altean pod are great, it’s not stiff anymore.”
    “It left a scar,” Shiro points out.
    Of course he saw it, he found Keith almost naked just half an hour earlier.
    Keith shrugs. A scar was nothing – especially after he saw Shiro’s own scars. And he was his choice to face the Trials. He didn’t like much the results, but he had to know, so he got what he wanted.
    Shiro’s hand moves and he places it on Keith’s own. “Keith…” he murmurs softly. “I know that was hard for you. It’s okay to be upset.”
    A knock is in Keith’s throat. How can Shiro being real? He says it, “how can you being fine with it? Me being Galra-”
    “I told you already.” Shiro shakes his head. “You’re still you. Nothing has change. The other will understand that too.”
    In that moment, Keith finds out he doesn’t care. Sure, he wants Allura back, and he’s upset she’s upset, but every time Shiro is with him Keith feels he can face everything. Just like during the trial.
    “You saw my trial?” he asks.
    “I did.” Shiro nods solemnly. “And I want to tell you this: I’m not going to leave. Ever.”
    There’s nothing else Keith can answer, so he just nods. I don’t deserve you, he thinks. “I’m not going to leave you too,” he says. If he survived so long on Earth it’s because he was trying to find a way to have Shiro back.
    “So, now the big surprise.” Shiro stands up and opens the fridge.
    “Another?”
    Shiro laughs. “Do you know which day is today on Earth?”
    “Do you take notice of the days on Earth?” Keith answers back.
    He didn’t notice what Shiro takes off from the fridge, as he explains, “in space, I always have the habit to take noticed of the time passing on Earth. It was a way to keep me grounded, you know? To remind me I have a place to turn back if space get too overwhelming.” He rummages on the kitchen, his back blocks Keith’s vision on the dish. “During my captivity, I lost the sense of time. I tried to count the days, but it was impossible, since…” His voice disappears in a whispers. “And then, when I was freed, my memory was pretty foggy. Still is, in a way. So I tried to anchor me back to Earth and asked Pidge to calculate the day for me. Now I’m keeping notice.”
    When he turns back to Keith, he has something that looks like macha tiramisu on a tray in his right hand and a big grin on his face.
    “Okay,” Keith laughs a little. “Which day it is? Your birthday?”
    “Almost.” Shiro places the dish on the table, in front of Keith. “It’s Saint Valentine’s day.”
    Not a holyday Keith considered much. He hasn’t a relationship yet, so no one to be with back on Earth. And, Keith has to admit, he starts to consider his feeling for Earth and his traditions. He never felt Earth has a place for him and considering his discovery about his heritage, maybe it makes sense. But galra aren’t his family too, so he hasn’t a place to return back. And he isn’t so eager to be happy for a day he doesn’t feel anything for.
    Yet Shiro seems so happy he ends up smile and looks at the dish he placed in front of Keith.
    It is a macha tiramisu. On top of it, in the middle on the green tea dust, there was a writing made with chocolate. Keith blinks two time, to be sure he reads it right.
    It says: would you marry me?
    He looks at Shiro with his mouth opened.
    “I know, I know,” Shiro says as he sits down again. “We haven’t talk about it, like never, and I haven’t been able to find a ring here in space, so you don’t have to take it too seriously. I’m going to make a real proposal once the war is over.” His smile is sad now. “But in a week we’re going to face Zarkon, and If anything will happen to me, well, I want you to know this.”
    “Nothing will happen to you!” Keith jumps and stands. “Nothing.”
    The sad smile is still there, but softens. “I know. That’s why I love you.”
    Keith sits down. No, sitting down isn’t right. His legs give up and he slumps back. Maybe this is a dream. Maybe he’s still in the Trial of Marmora and he haven’t realized yet. His brain can’t process what he just saw and heard. He can’t speak.
    “If I think back at our relationship on Earth, I’m surprised we arrive at this point, and yet I am not,” Shiro says then, to not stretch the silence anymore. “We’ve always been similar. We got along. My time with you was one of the best before Kerberos. And when you found me back… I guess I have no choice, right?” He laughs a little. “Our relationship isn’t a conventional one, but it’s one of the best thing that happen to me and I’m glad we have it while we had to face Zarkon and his evil empire.”
    “Our relationship?” Keith manages to exhale.
    “Yeah, I mean… We haven’t the chance to date conventionally, going out, looking a movie… well, if you didn’t consider us stranding in that desert planet a date. I had appreciated the fire, though.” He laughs. “But I’d like to have a normal date in the future, one when I won’t be on verge of death.”
    “Date…”
    “And we haven’t kissing yet, so I’m really, really rushing thing here but… I’m not ready yet. I’m sorry.” The smile is sad again. “But at least we have this… intimacy, you know. I’m not exactly subtle with my touch, I’m afraid the others will get embarrassed soon or later.”
    Keith isn’t able to whisper anymore, and just sits here, trying to elaborate the fact that Shiro thought they were dating for all this time, and Keith.
    Just.
    Didn’t.
    Know.
    “Listen, you don’t have to say yes if you not ready,” Shiro says in the end. His voice tries to be cheerful, but Keith doesn’t miss the note of urgency and distress. “It’s a big deal. I just want you to know. And to eat this strange space macha tiramisu.”
    Shiro isn’t going to be sad and afraid. Not in Keith’s watch. “It’s not that,” he says at last, embracing all his courage. “It’s just… I didn’t realize we were…a thing. I didn’t realize you saw us like that. It’s…” He stops, as he sees Shiro’s expression, his mouth opened and his eyes wide.
    Then, he lowers his head and drowns it in his hands. “I can’t believe I just ask you to marry me before we date for real.”
    “It’s not your fault…” Keith tries to point out.
    “I’ve been always told I’m pretty bad a romance, even with Adam… but this is a new low,” Shiro murmurs on himself. This is so embarrassing…” He jumps and rushes for the tiramisu. “Just forget it.”
    Keith stops Shiro before he manages to take back the cake and destroy it. Keith looks at him right in the eyes, and Shiro blushes and looks like a puppy.
    “Yes.”
    “Yes… what?”
    “Yes, I want to marry you.”
    It’s time to Shiro to slump back on his chair. “You just told me you didn’t know we were dating.”
    “So?”
    “So… Keith… You don’t marry someone you haven’t date yet!”
    “I don’t need to date you.” Keith shakes his head and smiles. “I love you. I’ve loved you for such a long time… I loved you back when you were with Adam. I felt I loved you since you jumped off that cliff with the hoverbike. Of course I’m going to answer yes at the question if I want to spend my life with you.”
    “Oh. Oh.” Shiro blinks. “You’re… telling me that you love me, so I didn’t take your behavior… well, yes, I did, but not as wrong as it seems.”
    “I didn’t act as we were dating,” Keith says. “But I was acting like that because I love you.”
    “Okay. It’s a little less embarrassing in this way. Just a little.” He looks at Keith. “Please, tell me we’re not going to tell this to our wedding.”
    “You promised me to give me a proper proposal after we defeat Zarkon, remember?”
    “Oh, right. Well, I’ll be sure we have a proper date before it. A date I’ll be sure it’ll be a disaster, but at least one you’ll be aware of.”
    Keith sits back and smiles. “You don’t have to take all the blame. I’m the one who haven’t notice we were dating all this time.”
    “I’m the one who think the fire on the stranded planet was a romantic gesture.”
    “I’m the one who didn’t notice the sexual tension in your shoulder blade.”
    “I’m the one that proposed without being sure of your feelings.”
    “I’m the one that accepted.”
    “Okay, we’re both bad at this.” Shiro laughs. “But it’s too late for you now, you accepted.”
    “And I’m not going to regret it,” Keith affirms. “We’re going to eat your cake now?”
    “Of course! We have to destroy all the proofs!”
    Keith looks in awe as Shiro cut of the tiramisu and places it in the plates.
    They’re engaged. They’re going to get married. Not even in his craziest dreams Keith imagined it.
    It has never been happier.
    And, in that moment, he realizes the biggest truth of his life. Earth doesn’t have to me his home, or a place to return. He’ll be back there if Shiro will, because his home is where Shiro is.
    The tiramisu is great too, but it’s only the second best thing of the evening.
    “Now that I think about it, do you think we should put some Galra traditions in our wedding or…?”
    “Don’t.”
    But Keith is smiling about his heritage now.
  4. .
    Burnas terminò di salire i gradini della torre, che gli sembravano aumentare di numero ogni sera, spalancando la botola per accedere al tetto. “Perdonate il ritardo.”
    Gli altri quattro saggi erano tutti al loro posto: ai lati di un pentagono immaginario inscritto dentro la terrazza circolare, in modo da aver una visuale completa sia della terra, sia del cielo. Il più anziano di loro, colui che aveva il diritto di posizionarsi sulla punta che mirava al centro della città, voltò leggermente la testa verso di lui.
    “Che stai facendo?” gli sussurrò invece Ishme, cercando di non farsi notare dagli altri a fornire suggerimenti. Egli stava all’opposto del pentagono, alla sua sinistra. “Sbrigati a sistemarti!”
    Burnas annuì, fece un leggero inchino e prese posizione, quindi alzò gli occhi per fissare la volta celeste, luminosissima come al solito.
    Quel lavoro lo annoiava veramente. Alla fine, vagabondare di giorno per la città poteva risultare divertente: Babilonia, con la sua mescolanza di popoli ed etnie, offriva sempre degli stimoli interessanti. Peccato solo che, dopo una notte intera ad osservare il cielo, sempre nello stesso punto, per di più in piedi, non fosse mai abbastanza sveglio per cogliere tutte le sfumature.
    Anzi, non era sveglio per nulla! Passava il pomeriggio a dormire e, per questo motivo, non riusciva mai a presentarsi alla torre puntuale, al crepuscolo. In effetti, si chiedeva sempre come potessero riuscirci i tre vecchi bacucchi che occupavano i bracci e la punta della stella: per quanto ne sapeva Burnas, gli anziani si stancavano più facilmente dei giovani.
    Abbassò lo sguardo e scoccò delle occhiate furtive intorno a sé: i tre matusa se ne stavano bene con il naso all’insù, senza badare minimamente a ciò che capitava attorno. Effettivamente, era quello per cui il tempio di Marduk li pagava e che teoricamente avrebbe dovuto compiere anche lui.
    Con circospezione, si allontanò dalla sua postazione per avvicinarsi a quella di Ishme. Il suo coetaneo era decisamente più diligente di lui, ma poiché era anche un suo amico, si lasciava coinvolgere facilmente. Finirono per sedersi entrambi sul muretto esterno della torre, esattamente dal lato opposto della punta, in maniera che gli altri tre non li notassero. Le gambe a penzoloni sovrastavano una delle vie principali di Babilonia, a quell’ora buia e silenziosa.
    “Ti sei di nuovo addormentato di giorno, eh?” mormorò Ishme. “Vuoi farti cacciare?”
    “No, naturalmente…” sbuffò Burnas.
    Egli non aveva un rango altolocato, ma la sua famiglia possedeva da lungo tempo un’etimologia cassita; chiunque poteva pensare che risalissero a quella nobiltà che aveva avuto tanto peso nelle vicende politiche della seconda dinastia di Babilonia e che era stata poi cacciata da Tiglarpirese, re d’Assiria.
    Per questo motivo, suo padre, discendente di un persiano arrivato a Babilonia con Ciro il Grande, era riuscito ad introdurlo negli ambienti alti della casta sacerdotale. Era stato notato dal sacerdote supremo di Marduk per il suo spirito d’osservazione ed assegnato così al più grande incarico a cui un chierico potesse aspirare: sacerdote addetto agli “omina” sulla torre di Babele.
    Farsi cacciare avrebbe significato non solo bruciare tutti i rotoli di papiro della biblioteca di Assurbanipal (cosa che, per quanto ricordasse, qualche sciocco aveva fatto), ma anche deludere le aspettative della sua famiglia, che già si vedeva riportata ai fasti che le spettavano un millennio prima.
    “Allora cerca di impegnarti un po’ di più!”
    “Ci provo!” esclamò seccato Burnas, cercando di mantenere tuttavia un tono basso di voce. “È che proprio non mi reggono le palpebre… Ho chiesto persino di gettarmi dell’acqua fredda addosso, ma niente!” Ed indicò i corti capelli neri, asciutti solo sulle punte.
    L’amico scosse la testa, divertito. “Forse non sei portato per questo lavoro.”
    Al contrario di lui, Ishme era di famiglia nobiliare non decaduta, risalente all’invasione di Nabopolassar, cioè alla terza dinastia di Babilonia; inoltre, erano molto considerati presso i re discendenti di Ciro il Grande, per la loro politica nettamente filopersiana. I sacerdoti non l’avrebbero mai cacciato via dalla sua posizione, per paura di ripercussioni dalla capitale.
    Nonostante questo, però, Ishme si impegnava moltissimo nel suo lavoro e, alla sera, era quello che riportava maggiori informazioni sui fatti della giornata, meritandosi i complimenti di tutti. Lui, invece, riusciva a girovagare solo la mattina: generalmente non capitava mai un evento “unico” da poter raccontare ed associare ad un particolare movimento astrale.
    “In effetti, lo sai perché ho accettato l’incarico?” chiese Burnas.
    “Perché è il più importante che tu possa ottenere?”
    “No, per scoprire se un giorno mi sarei sposato.”
    Ishme scoppiò a ridere.
    “Vorrei trovare una bella moglie, con cui andare a vivere assieme” proseguì Burnas. “Poter tornare a casa per colazione e trovarla là, bella, profumata… Sono certo che non mi addormenterei nemmeno se andassi a letto!”
    L’amico continuò a ridere. “Ma non faresti comunque il tuo lavoro…”
    “Per quello ci sei tu” replicò Burnas. “A me basterebbe arrivare puntuale.” Leggermente, allargò il collo della tunica e sbirciò all’interno. “Ecco, guarda com’è bello sveglio lui!”
    “Lui chi?!”
    “L’amico del sotterraneo, il mio pene.”
    Ishme lo fissò incredulo, cercando di trattenere le risa, ma inutilmente: si premette le mani sulla bocca, gonfiando le guance per non scoppiare. “Comunque, non credo che avrai un simile responso dalle stelle” disse una volta calmatosi. “Descrivono maggiormente i grandi eventi generali, che i particolari. Anche se ci fosse un movimento astrale per un matrimonio, chi potrebbe sapere a quale persona si riferisce? Ogni giorno almeno una coppia si sposa.”
    “Hai ragione…” annuì tristemente Burnas. “A meno che non avvenga una cosa di gruppo fra tantissime persone…”
    “Non accadrà mai! Dovrebbe ordinarlo il re in persona!”
    L’altro rise. “Potresti chiederlo a Dar-” Si bloccò, con la bocca aperta verso il cielo. “Hai visto?”
    Ishme annuì vigorosamente, continuando a fissare il punto del cielo dove la cometa era apparsa e scomparsa in un secondo, giusto sotto la cintura di Orione. “Mi sembra che un caso simile sia già stato catalogato negli omina…”
    Immediatamente, i due ragazzi si precipitarono giù per le scale, raggiungendo l’ultima stanza della torre, che fungeva loro da ufficio; attorno alle pareti, erano ammassati nelle librerie centinaia di tavolette e rotoli di papiro, che contenevano tutte le predizioni dal tempo della dinastia cassita fino a quel momento. Iniziarono a prenderli dagli scaffali, esaminandoli e poi gettandoli scompostamente quelli scartati sul grande tavolo al centro.
    “Eccolo!” esclamò finalmente Burnas, che aveva trovato, in una tavoletta, la riproduzione dell’immagine che aveva visto nel cielo. Lesse la didascalia nella parte destra: “Giorno in cui l’usurpatore Nabucondonosor venne scacciato e Babilonia aprì le porte al liberatore Ciro il Grande, re dei persiani.” Fissò l’amico. “Che significa? Ci sarà un’altra conquista? E di chi?”
    “Ma certo!” Ishme illuminò il suo viso con un sorriso. “Non hai sentito le notizie? Pare che il re di Macedonia, il paese alleato con i greci, abbia varcato l’Ellesponto con l’intenzione di prendere il posto di Dario!”
    “E ci riuscirà?” Burnas sembrava scettico, perché l’impero persiano sembrava troppo vasto per le minuscole e lontane città del Peloponneso.
    “Secondo noi, sì.” Ishme sembrava fuori di sé dalla gioia. “Andiamo immediatamente ad avvertire i soldati di aprire le porte, nel caso arrivasse un esercito, perché così hanno comunicato gli dei.”
    Mentre correvano per le strade deserte di Babilonia, con le lunghe tuniche rosse che si avvolgevano fastidiose attorno alle ginocchia, Burnas chiese: “Ma tu non dovresti essere preoccupato?”
    “E perché?” rispose Ishme, che lo superava almeno di un cubito nel passo.
    “La tua famiglia è legata ai persiani…”
    “Le famiglie nobiliari restano nobili sotto qualunque sovrano, i poveri restano poveri sotto qualunque sovrano” replicò l’amico. “Generalmente, le cose che cambiano sono solo i titoli.”
    Burnas sorrise. “Credi che porterà con sé qualche bella greca?”
    “Ma tu sei fissato!”
    Giunsero ai piedi delle alte mura di Babilonia con il fiato corto, le gambe molli e le tuniche umide di sudore. I soldati che presidiavano la zona, al vederli, si radunarono loro attorno, con grande curiosità. Sapevano infatti che i sacerdoti della torre di Babele non lasciavano mai la loro postazione prima dell’alba, o avrebbero rischiato di perdere qualche importante movimento stellare. Doveva perciò trattarsi di una grande notizia.
    Non appena Ishme ebbe abbastanza fiato per parlare, spinse quanto poté le spalle indietro ed il petto in avanti, per sembrare più autorevole. “I tempi della dominazione persiana sono conclusi” declamò. “Domani l’esercito di Alessandro il Grande, re dei Macedoni, giungerà sotto le mura di Babilonia.”
    Poiché tra le file dell’esercito vi erano molti persiani, che costituivano il presidio del Gran Re nella regione, la risposta fu un mormorio arrabbiato ed incredulo. “Credete dunque che un ragazzino con un manipolo di montanari e democratici possa sconfiggere un esercito potente e preparato come il nostro, per di più sul nostro stesso territorio?”
    “Attento a quello che dici” disse Burnas. “Le stelle non mentono, perché sono segnali degli dei. Vuoi forse che Marduk s’infuri e fugga per altri trent’anni da Babilonia?”
    “Mi sembra che il ‘manipolo di montanari e democratici’ abbia già sconfitto più volte il vostro potente esercito” aggiunse Ishme. “Ricordo… Maratona, Salamina, Platea…”
    Il soldato persiano tacque, anche viste le occhiate che i babilonesi gli stavano scoccando. I sacerdoti della torre di Babele non potevano mentire; inoltre, la possibilità che Marduk s’infuriasse era per loro più pericolosa delle ripercussioni del Gran Re.
    Poi, un altro soldato, rimasto sulle mura, gridò: “È arrivato un messaggero! È arrivato un messaggero!” Questi fu fatto entrare in fretta, poiché tutti era ansiosi di verificare la veridicità della predizione, anche gli stessi Burnas ed Ishme. In effetti, era la prima volta che si trovavano a scoprire qualcosa di così importante.
    Il messaggero prese fiato. “L’esercito persiano è stato sbaragliato nella piana di Isso e a Gaugamela. Il Gran Re è stato costretto a fuggire due volte e adesso il regno è senza sovrano!”
    “Un sovrano c’è!” replicò Burnas, esultando.
    “Ve l’avevo detto.” Ishme incrociò le braccia. “Alessandro il Grande entrerà a Babilonia come Ciro il Grande. Voi gli aprirete le porte, perché così ordinano gli dei.”
    ***
    “Gli dei vi concedano una buona nottata di lavoro” disse Burnas, entrando nell’ultimo piano della torre. Poiché la stella di Ishtar non era ancora spuntata all’orizzonte, nessuno dei saggi si era ancora sistemato sulla terrazza. Anzi, i tre vecchi bacucchi non erano nemmeno presenti.
    “Sei in anticipo!” esclamò Ishme. “Oh, dei..!” E si mise a scorrere con impazienza i disegni che avevano fatto con i movimenti astrali della sera precedente.
    “Che stai facendo?”
    “Voglio trovare una stella che indichi, come previsione, il tuo arrivo puntuale” rispose l’amico. “Almeno sapremo che è qualcosa che non accadrà più.”
    “Almeno finché un altro sovrano non entrerà a Babilonia” replicò Burnas. “Con tutto il caos che c’era per le strade non sono riuscito a chiudere occhio nemmeno per un attimo, così…” Sbadigliò vigorosamente, “…eccomi qui.”
    Ishme sorrise. “Vuoi dire che tu non sei andato per le strade a festeggiare il suo ingresso? C’erano tante belle ragazze…”
    “Sì, tutte a fare gli occhi dolci a quello, manco fosse questo granché… Io sono persino più alto.” Poi sorrise. “Tutti lo chiamavano ‘il Grande’, come avevi annunciato tu.”
    “In effetti, posso prendermene con gioia il merito.”
    Il capo dei saggi entrò nella stanza, seguito dagli altri due. Vedendo Burnas si bloccò, come colpito da un fulmine, poi alzò le braccia al cielo. “Oh grande Marduk, proteggi il nostro re Alessandro, che ha compiuto il miracolo!”
    E gli altri due sacerdoti, che lo seguivano, chinarono il capo a quelle parole. Anche Ishme li imitò, con il sorriso appena accennato sulle labbra, giusto per infastidire Burnas che, tra il sonno e la rabbia, aveva un’espressione assolutamente comica.
    Poi, mentre salivano le scale per raggiungere la terrazza, giacché il sole stava tramontando velocemente, quest’ultimo chiese all’amico: “Un piccolo regno ha sconfitto un regno enorme, ergo può accadere di tutto al mondo. Riuscirò io a trovarmi una donna?”
    “Chissà… Che cosa ne pensa l’amico del sotterraneo?”
    “Oggi dorme.”


    Quando la laureanda ebbe terminato la lettura della prima pergamena, alzò lo sguardo e fissò tutti i professori, ad uno ad uno. Non sapeva veramente che cosa dire. “Quel finale… Cosa vorrebbe dirci?” commentò infine, nella maniera più stupida possibile.
    “Volutamente ambiguo” rise il Professor D. “Ma hai notato la precisione storica di questo autore? Prima nomina i “Cassiti”, il popolo nomade che invase la regione di Babilonia, inaugurando la seconda dinastia, e non la prima, quella di Hammurabi. Inoltre dice giustamente che terminò con Tiglarpirese III, perché i re assiri precedenti preferivano sostituire il re locale cassita con uno a loro fedele, che puntualmente veniva ucciso dalla nobiltà sempre cassita, che non voleva perdere la sua influenza; Tiglarpirese allora si nominò lui stesso re di Babilonia con il nome di Puru.”
    “Sembra effettivamente scritta da un professore di storia” convenne la Professoressa B. “E mette proprio tutte le etnie apposta per mostracele… Qui c’è Nabopolassar, il re dell’altra popolazione nomade, i medi, che riuscì a conquistare Babilonia nel VII secolo. L’ultimo della dinastia fu appunto Nabucondonosor, se non ricordo male.”
    “E’ un romanzo vero e proprio” aggiunse la professoressa M. “I due protagonisti sono gli addetti alla torre di Babele. Nei tetsi conservati ci viene detto che il loro compito era osservare i movimenti delle stelle di notte e, di giorno, associarli a qualche evento di cui sentivano dire o che accadeva in città. Gli “omina”, se non ricordo male, sono appunto le raccolte di profezie che essi facevano: la tavoletta veniva divisa in due parti, a sinistra l’immagine del movimento e a destra la descrizione dell’evento.”
    “Bah!” esclamò la professoressa F. “Non ha il minimo senso! È impossibile che delle persone riescano a stare sveglie ventiquattr’ore su ventiquattro per tutta la vita, e poi… La torre di Babele non è la Ziqqurat fuori città?”
    “In effetti sì” rispose il professor M.
    “E’ un gioco” disse la laureanda. “E’ come se ci volesse descrivere un evento dal punto di vista di persone che lo hanno vissuto veramente, per farci indovinare quando è capitato… Ma in questo caso è facile!” Sorrise. “Siamo nel 300 a.C.”
    “Dal punto di vista dei Muti della Storia, come direbbe ***” aggiunse la professoressa B. “Brava, è proprio così!”
    “Bah!” ripeté la Professoressa F. “Leggi la prossima, almeno ha un’ambientazione migliore.”
  5. .
    Capitolo 1

    Nella notte nera e senza luna, anticipo di uno dei giorni più nefasti di tutto il calendario egizio, due persone stavano ferme su una riva del Nilo, in silenzio, come statue contenenti il ka, il doppio dell’anima in grado di sopravvivere alla morte.
    “Così… Ci sei riuscito” disse lentamente il principe Meren, fissando l’altra sponda scura davanti a sé. “Il faraone non mi crede più, gli amici mi hanno abbandonato, la mia famiglia è dispersa… E io sono braccato dall’esercito.”
    “Io non ho fatto nulla” replicò l’altro, con voce suadente. “Tu sei il traditore, non io.”
    “Ti credi furbo, vero? Pensi di essere in salvo…” Meren fece un passo verso il Nilo. “Sbagli. Io ho fallito, ma la mia eredità non andrà persa. Gli dei non lo permetteranno.”
    “E’ tardi, ormai” Anche la figura avanzò, verso di lui. “Non c’è più nessuno disposto a raccoglierla.”
    “Vedremo.” Il principe si voltò, camminando all’indietro fino ad immergere le caviglie nelle acqua nere del fiume. “Intanto, tutte le prove trovate finora sono al sicuro. Non sono nella mia casa, non sono negli archivi di palazzo, non sono al tempio di Amon.”
    “Stai mentendo!”
    “Ah… Finalmente lo vedo…” sorrise Meren. “Un lampo di paura… Sei umano anche tu.” Estrasse dal fodero il suo pugnale decorato, lo stesso che gli era stato donato dal faraone Tuthankhamon, che adesso non aspettava altro che condannarlo ad una morte molto dolorosa, a causa del suo tradimento. “Hai ragione, è troppo tardi, ma i miei figli sono salvi.” Con un gesto rapido, tagliò il bracciale in cuoio che gli ricopriva interamente il polso. “Non c’è più bisogno di me.” Trasversalmente, la lama affondò nel suo polso, dividendo a metà il marchio a fuoco che Akhenaten, anni prima, gli aveva inflitto perché accettasse di credere unicamente in Aten, il disco solare. Con gioia, lo vide finalmente scomparire, nascosto dal sangue.
    “Sei stato uno sciocco” disse l’altro. “E adesso, sarai uno sciocco morto.”
    Meren annuì, senza che il sorriso scomparisse dal suo volto, e indietreggiò ancora nel fiume, mentre il sangue, colando sulla superficie dell’acqua, iniziava ad attirare i coccodrilli, in agguato tra le canne di papiro e gli arbusti della riva. “Uno sciocco morto, ma fiero davanti a Maat, la dea della Verità” fu l’ultima cosa che poté dire, prima che le creature di Sobek iniziassero a divorarlo.
    Così morì il potente principe Meren, figlio di Amosi, Occhi e Orecchie del faraone, nell’anno nono del regno di Tuthankhamon.

    Anno primo del regno del faraone Ramses I, Memfi

    Mahado, lentamente, terminò di tracciare sulla tavola di argilla un geroglifico a forma di animale, con la sua grafia sottile e precisa, quindi iniziò a darne la spiegazione scrupolosa del significato e del significante. Mana trasse un profondo sospiro, mentre appoggiava annoiata il mento sul palmo della mano, e faceva vagare lo sguardo verde fuori della finestra, al cielo chiaro e agli uccelli che ogni tanto lo attraversavano, liberi e leggeri. Le spiegazioni del maestro si perdevano nel sottofondo dei suoi pensieri, diventando praticamente incomprensibili.
    “Mana! Mi stai ascoltando?” Mahado batté polemicamente la punta del calamo sul tavolo, sporcandolo così di leggere gocce nere.
    La ragazza si ricompose immediatamente, raddrizzando la schiena e scoccando alcune occhiate all’ostraka, cercando di capire quale fosse l’ultimo geroglifico scritto che lui le stava spiegando. “Sì, certo!”
    Il suo maestro incrociò le braccia, poco convinto. “Allora ripetimi quello che ti ho appena detto.”
    “Dunque… Ehm…”
    Il leggero suono di una risata soffocata attrasse la loro attenzione, ed entrambi si volsero verso la porta della stanza. Sulla soglia, leggermente appoggiato allo stipite, il loro sovrano li stava osservando con un sorriso appena accennato sulle labbra carnose, ed un lampo di divertimento negli occhi scarlatti.
    “Principe Atemu!” esclamò Mana, balzando in piedi, completamente dimentica dell’etichetta e dei suoi doveri.
    “Faraone Ramses, adesso.” Mahado, alzatosi, la trattenne afferrandole la mano ancora appoggiata al tavolo. “L’importanza delle parole, ricordi?”
    Lei fissò prima la mano, poi lui, infine abbassò la testa in un’espressione seccata, più che dispiaciuta. Tutti quei formalismi la irritavano: perché avrebbe dovuto cambiare modo di chiamare uno dei suoi migliori amici, solo perché lui, in un certo senso, aveva ottenuto una promozione?
    Atemu entrò nella stanza, scoccando un’occhiata sorridente a Mana. “Ho urgenza di parlarti” disse, rivolto a Mahado. “Puoi raggiungermi nei miei appartamenti appena finita la lezione…”
    “Non c’è problema.Avevamo finito.
    Atemu si sedette e gli fece cenno di accomodarsi davanti a lui, poi gli porse, allungandoglielo sul tavolo, un papiro vecchio e polveroso.
    “Sembrano gli atti finali di un processo…” commentò il sacerdote, aprendolo ed esaminandolo. “Furto, corruzione, tentativo di rivolta… Ci sono praticamente tutti i reati possibili.” Scoccò un’occhiata al suo re da sopra i papiri, aspettando maggiori spiegazioni.
    “Vorrei che indagassi sulla famiglia dell’imputato di quel processo” disse Atemu gravemente. “Si tratta del principe Meren, Occhi e Orecchie del faraone Tuthankhamon, prima di essere accusato di ciò che vedi.” Attese per un attimo una risposta che non venne: “io credo che fosse innocente.”
    Mahado rimase in silenzio, indeciso su come replicare. “È… Improbabile” ammise infine, dando voce al suo vero pensiero. “Le prove c’erano, e lo stesso Meren si è suicidato prima del processo…”
    “Lo so, lo so!” esclamò Atemu, quasi esasperato, tanto che Mahado si sentì in colpa per non aver accettato l’incarico direttamente. “Solo che… Sono stato nella Valle dei Principi, qualche giorno fa. Inciso all’entrata della tomba del padre di Meren c’è una strana scritta. Non la trovo adatta né ad un colpevole, né ad un innocente.”
    Con quella frase, aveva attirato l’attenzione del sacerdote. “Cosa dice?”
    “Questa è l’ultima dimora di mio padre Amosi. Io sono Meren il traditore, solo e senza amici, colpevole di undici delitti contro il faraone. Il mio corpo è in balia del destino; le mie braccia stringono ancora, come raggi, le chiavi della vita; il mio cuore l’ho riposto nel buio del faraone, a me unito come marchio a fuoco” gli recitò a memoria. “Converrai che si tratta di un’epigrafe piuttosto insolita.”
    “Non ha senso, o almeno questa è l’impressione che vuole dare” annuì Mahado, riflettendo con la mano sul mento. “Da quello che dice, sembrerebbe ammettere la sua colpevolezza, ma chi mai scriverebbe una cosa del genere sulla tomba del proprio padre? Anche se si fosse pentito…”
    “C’è un’altra cosa ancora che devi sapere” disse Atemu, soddisfatto per averlo incuriosito. “Shimon mi ha raccontato che Meren e mio padre, da giovani, erano grandi amici. Avevano addirittura fatto assieme il corso per aurighi, sotto mio nonno Akhenaten.”
    Questa volta, Mahado aprì la bocca per formare un “oh” silenzioso. Solo ora comprendeva veramente cosa preoccupava il cuore del suo faraone. Horemheb, il precedente sovrano, nonché genitore di quello attuale, a quanto sembrava da quei documenti, aveva subito il tradimento di un amico fidato, una delle cose peggiori che potessero capitare.
    “Mio padre ha sempre sostenuto il valore dell’amicizia, però non ha mai accennato, neppure una volta, a questa storia” continuò Atemu. “Dall’iscrizione, sembra che Meren sia stato abbandonato da tutti, compreso lui. Perché non parlarmene? Perché nascondere un fatto così grave?”
    Mahado non aveva risposte da dargli, non ancora. “Sono passati trenta anni, sarà molto difficile ricostruire tutto da capo” disse. “Farò quanto in mio potere per capire come veramente si siano svolti i fatti.” Riavvolse il papiro fino a formare un rotolo. “Per prima cosa, cercherò negli archivi reali qualche informazione sulla famiglia di Meren. Se qualcuno è ancora vivo, potrebbe sapere qualcosa.”
    Atemu annuì. “Ti ringrazio.”
    “Non devi nemmeno dirlo, prin- maestà.”
    Il ragazzo si alzò, facendo per andarsene. Sulla soglia, si volse indietro e sorrise. “Ho idea che questa conversazione non sia stata troppo privata” disse, poi uscì.
    Il viso di Mana spuntò oltre la porta, imbarazzato. Poi, prima che il maestro potesse sgridarla, chiese: “Non dici sempre che le doti di un buon studente sono il silenzio e l’ascolto?”
    “E il buon senso di non interferire in affari che non lo riguardano” replicò Mahado, raggiungendola nel corridoio con il papiro sottomano. “Vedo che sai imparare le cose, quando ti fanno comodo.”
    Mana sorrise. “Che facciamo?”
    *°*
    *°*
    L’archivio del palazzo reale conteneva documenti che arrivavano persino fino a regno di Tuthmosis III il conquistatore, più di cento anni prima, perciò riuscire a trovare qualcosa di poco recente era un’impresa molto difficile, anche se le carte erano ben divise e disposte per anno di regno di ogni singolo faraone.
    Mahado cercò di individuare subito lo scaffale contenente i fascicoli relativi all’anno nove di Tuthankhamon, e riuscì a trovarli in fondo alla quarta stanza, semi-nascosti da uno strato di polvere che sembrava quasi essere diventata solida. Non se ne stupì: dopo Tuthankhamon, aveva regnato ben altri due faraoni, facendo assieme ventinove anni, di cui ventisette solo di Horemheb. Era ovvio che i vecchi documenti cadessero in proscrizione e fossero dimenticati, tanto che nessuno si preoccupava di mantenerli in buono stato.
    Mahado fissò Mana, che aspettava paziente che lui le desse qualche compito da eseguire. “D’accordo…” mormorò. “Prendi una tavola d’argilla, e cerca di disegnare per bene uno schema della famiglia di Meren, prendendo informazione dagli atti del processo.” Scoccò un’occhiata demoralizzata alle carte polverose. “Io intanto cerco di vedere se c’è qualcosa di utile in questo caos.”
    La ragazza annuì e, preso il suo zaino di scrittura ed il primo ostraka che le capitò sottomano, si mise alacremente al lavoro nella stanza accanto. Ogni tanto sentiva arrivare qualche colpo di tosse del maestro, che stava probabilmente facendo indigestione di pulviscolo. “Ho finito!” annunciò allegra, dopo circa un’oretta. Scoppiò a ridere nel vedere Mahado completamente coperto di polvere: il suo vestito era diventato nero e persino la sua pelle, di solito più chiara di quella degli egizi, aveva assunto un colorito che lo faceva assomigliare ad un nubiano, sebbene non avesse la loro stessa muscolatura pronunciata.
    “Sì, perfetto…” La raggiunse nella terza stanza, togliendosi il copricapo e liberando nell’aria i lunghi capelli biondi, rimasti per sua fortuna immuni dallo sporco. Spero che Sethi non entri proprio adesso! Pensò. Di sicuro il suo vecchio amico, nonché sacerdote come lui, non avrebbe perso occasione per rimarcare la questione su quanto poco fosse adatto come membro della Corte Sacra. Si sedette a terra, accanto alla sua allieva, radunando insieme i documenti che aveva trovato. “Leggimi i nomi.”
    “Dunque… Partiamo dai più anziani.” Mana fece scorrere le dita sulla tavola, stando attenta a non rovinare i geroglifici. “I genitori sono morti, giusto? Poi c’è la prozia Cheryt…”
    “E’ morta nell’anno sesto, quando ancora Meren non era stato accusato di nulla” disse Mahado. “L’hanno seppellita nella tomba di famiglia.”
    Mana tirò una riga scura sopra il nome. “La sorella, Idut, e il figlio di questa, Imset.”
    “La prima è morta di malattia, dopo il processo, anche se era stata assolta” spiegò Mahado. “Il secondo è disperso in Nubia, dove lavorava.” Viste le varie dispute che vi erano sempre in quella regione tra tribù rivali, era improbabile ritrovarlo vivo.
    “Il fratello Nakht?” chiese lei, con una titubanza speranzosa.
    “Divorato dai coccodrilli, prima del processo.” Mahado dovette disilluderla. “Aveva appena divorziato dalla moglie, probabilmente è caduto nel Nilo ubriaco…”
    “Gli zii Nebetta e Hapu.”
    Mahado prese una delle tavole. “Questi sono ancora vivi” disse, con una punta di sollievo. “Hanno perso tutte le loro proprietà, ma almeno sono facilmente rintracciabili. Vivono nei pressi di Tebe, in campagna.”
    Mana sospirò di sollievo nel non dover tracciare altre croci sui nomi dei defunti. “E i figli?” domandò. “Ne aveva quattro, tre femmine e un maschio, più un nipote, figlio di quest’ultimo.”
    “Uhm…” Mahado esaminò un altro paio di documenti. “A parte la primogenita, morta di parto nell’anno quinto, gli altri sono scomparsi totalmente prima del processo. I soldati del faraone non riuscirono a trovarli.” Alzò leggermente un sopracciglio. Non vedo proprio, quindi, come potrei riuscirci io da solo… Ma doveva provarci, perché non voleva né poteva permettersi di deludere il suo re.
    “Capisco…” Mana cancellò dalla lista il nome di Tefnut, la prima figlia, che aveva ricalcato lo stesso destino della madre. A vedere tutte le croci sulla tavola, le venne addosso una strana malinconia. Era così facile veder sparire una famiglia davanti agli occhi… “È rimasto solo il cugino Ebana” disse poi, vedendo che il suo maestro aspettava.
    “Anche su di lui non ho notizie recenti” disse Mahado. “So solo che, sotto Tuthankhamon, lavorava al tempio di Karnak a Tebe. Sicuramente i sacerdoti ne sapranno di più.” E qui sospirò, perché da sempre il clero di Amon era noto, oltre per il suo grande potere e per la sua grande ricchezza, per la sua riservatezza. Non permetteva a nessuno di interferire all’interno degli affari del tempio, a volte neppure allo stesso faraone. Il profeta, capo indiscusso della comunità, possedeva un’autorità al pari di quella del visir, primo ministro del sovrano d’Egitto. Mahado dubitava seriamente che avrebbero risposto con facilità alle sue domande, benché del tutto innocue, pur trovandosi davanti a uno dei sei membri della corte sacra e custode di un oggetto millenario.
    “Allora, andiamo a Tebe?” domandò Mana, distogliendolo dai suoi pensieri.
    Lui le scoccò un’occhiata penetrante. “Andiamo?”
    La ragazza si alzò, battendo leggermente le mani sulla gonna bianca, per pulirla dalla polvere presa a terra, quindi saltellò leggermente in avanti, tenendo stretto al petto il suo zaino e la tavoletta con lo schema della famiglia di Meren. “Lo sanno tutti quanto schivi possano essere i sacerdoti di Amon…” iniziò, in tono leggermente malizioso. “Ma, probabilmente, mio nonno potrebbe lasciarsi un po’ andare, se si trovasse davanti la sua nipotina…”
    Mahado rimase a fissarla. Dato che Mana si era ormai trasferita stabilmente a Memfi, alla corte del faraone, aveva completamente scordato i suoi legami come figlia del normaca della regione di Tebe e nipote addirittura del primo profeta di Amon, Paramisu.
    “E questa…” Lei sorrise ancora, con gli occhi verdi che le brillavano. “È l’importanza delle parentele!” E ammiccò, scappando nelle sale successive.
    “Piccola sfrontata..!” commentò Mahado, nemmeno troppo offeso. In realtà, la sua allieva non aveva tutti i torti: fingere una visita di piacere sarebbe stato molto più semplice che presentarsi direttamente come inviato del faraone. Si alzò, scoccando uno sguardo demoralizzato ai vestiti ancora sporchi. Scuotendo la testa, si accinse a seguire Mana fuori dell’archivio reale.
    Tebe li stava aspettando.
    *°*
    *°*
    Sebbene Mahado non avesse mai avuto in simpatia i sacerdoti di Amon, doveva pur ammettere che il loro tempio era il più maestoso di tutto l’Egitto, nonché uno dei più importanti, giacché si trovava vicino alla necropoli della Valle dei Re, dove riposavano gli spiriti possenti dei sovrani passati. Ma sono stati i faraoni a renderlo tanto grande si disse mentalmente. Dopotutto, lo stesso Atemu aveva dato disposizioni per ampliarlo, seguendo le orme di suo padre.
    La nave che li trasportava, la “lepre del fiume”, la più veloce ma piccola di tutta la flotta reale, attraccò sulla riva destra, giusto all’ingresso del canale del tempietto di Luxor, lo stesso che serviva all’imbarcazione sacra per portare all’esterno la statua di Amon ivi contenuta durante la cerimonia sacra dell’Opet.
    I marinai non avevano ancora finito totalmente le manovre, quando Mana saltò giù dalla nave, atterrando nell’erba bagnata, gridando: “Nonno!” Corse poi verso una figura che la stava salutando con il braccio teso, seminascosta all’ombra del porticato esterno.
    Mahado non ebbe il coraggio di fermarla, né di rammentarle che non era più una bambina e che, quindi, non avrebbe dovuto permettersi simili atteggiamenti poco consoni al suo rango; dopotutto, non vedeva i suoi parenti da tre anni ormai e, sebbene lei non accennasse mai al fatto, era certo che le mancassero. Aveva solo dieci anni, quando dovette lasciarli.
    “Benvenuto” lo salutò formalmente il primo profeta di Amon, quando Mahado raggiunse lui e Mana sotto il portico. “Grazie per averla accompagnata… Principe.” E rimase a fissarlo con i suoi occhi piccoli, dello stesso colore della nipote ma molto meno espressivi.
    “Nessun problema.” Mahado ignorò volutamente il tono ironico con cui era stato pronunciato quel titolo, che ormai nessuno usava più con riferimento a lui, e accennò leggermente con il capo. “Come procedono i lavori?”
    “Nel messaggio che mi è arrivato, annunciavi solo una visita di cortesia” commentò Paramisu, mentre accarezzava i capelli bruni di Mana, ancora abbracciata a lui. “Il faraone ti ha forse mandato a controllare che nessuno di noi rubi le ricchezze che gli appartengono?”
    Il suo disprezzo non è evidente, di più, pensò Mahado, scoccandogli una leggera occhiata. Fronte alta, viso magro, quasi scavato, e senza ombra di peluria, orecchie a sventola e mento appuntito: sembrava proprio il prototipo del sacerdote maligno ed indisponente. “Era solo per fare conversazione” rispose, con leggerezza.
    “Oh, solo per fare conversazione…” ripeté Paramisu, in tono quasi incredulo, poi decise di non degnarlo più di nessuna attenzione, rivolgendo le domande unicamente a Mana, la quale, prima di rispondere, riservava sempre uno sguardo al suo maestro, come a cercarne l’approvazione. Era venuta a Tebe per aiutarlo, in realtà, non per trovare suo nonno; dare spiegazioni alla sua famiglia sulle sue giornate non la interessava molto.
    Mahado, nonostante l’atteggiamento di Paramisu significasse un evidente “lasciaci soli”, non si mosse: primo, perché Mana era l’allieva affidata a lui, e, a prescindere dal fatto che si trovasse in compagnia di un suo parente, aveva il dovere di tenerla d’occhio; secondo, perché aspettava l’occasione giusta per informarsi su Ebana, il cugino di Meren.
    “Come va la situazione al confine?” domandò il profeta, ad un certo punto, vedendo che i tentativi di allontanarlo erano stati inutili.
    Mahado lo fissò per un istante, sorpreso. “Tutto tranquillo, non ci sono state più rivolte dopo le spedizioni punitive di Horemheb…” Non si sarebbe mai aspettato che gli rivolgesse la parola volontariamente.
    “Siamo sicuri?” chiese ancora Paramisu, con un lampo maligno negli occhi. “Nemmeno i re di Amurru stanno progettando qualcosa?” Sorrise ironico. “Pare quindi che tengano ai propri figli…”
    “Queste sono informazioni riservate.” Mahado trasformò il suo volto in una maschera d’imperturbabilità, poiché non voleva dargli alcuna soddisfazione. Da qualche tempo ormai si era abituato a ricevere insulti per essere il nipote di Aziru di Amurru, il traditore che si era alleato con gli Ittiti approfittando della debolezza dell’Egitto, di cui era stato vassallo, appropriandosi di terre che non gli appartenevano. Non poteva farci nulla: non aveva deciso di chi essere parente, né aveva chiesto a suo padre di mandarlo in Egitto da bambino come prova di fedeltà dei nuovi governanti di Amurru. Da lungo tempo le offese avevano smesso di essere tali.
    Visto che Paramisu era rimasto ammutolito perché la sua provocazione non aveva sortito l’effetto sperato, Mahado ne approfittò. “Invece, qui al tempio?” chiese, cercando di usare il tono più neutro possibile. “Tutto tranquillo?”
    “Si, certamente!” Al contrario, il profeta non seppe contenere il proprio sdegno per quelle strane insinuazioni. “Non esistono traditori a Karnak.”
    “Davvero?” Mahado si finse impressionato. “Quindi, anche Ebana fu assolto?”
    “Ebana?”
    “Il cugino del principe Meren.” Mahado incrociò le braccia, cercando di mostrarsi indifferente. Sarebbe stato molto più semplice chiedere direttamente le informazioni, ma con i sacerdoti di Amon ci voleva una pazienza più che infinita. “Lavorava qui, vero?”
    “Ebana… Ebana…” rifletté Paramisu, concentrato. Evidentemente, la voglia di dimostrare quanto onesto fosse il suo clero superava la solita riservatezza. “Ah, ma certo! Io ero ancora un semplice puro, sotto Tuthankhamon, quando lui faceva il sacerdote lettore.” Sorrise dolcemente. “Si, era il cugino del traditore Meren… Ma si sarebbe detto più suo fratello gemello.”
    “Perché?” domandarono contemporaneamente Mana e Mahado.
    Visto che la domanda era stata posta anche dalla sua nipotina, Paramisu non si risparmiò nel rispondere. “Gli somigliava in una maniera impressionante. Erano entrambi alti, muscolosi, di bell’aspetto, con profondi occhi neri e un viso che ricordava le statue del re Khafre” raccontò. “Ebana somigliava sempre più ad un auriga che ad un sacerdote, ma sapeva fare bene il suo lavoro. L’unica cosa che li distingueva era la cicatrice che Ebana si era procurato sotto Akhenaten, e che gli aveva sfigurato il volto. Nonostante quella, però, non perse mai il suo fascino. Proprio come il cugino, dopotutto.”
    Mahado doveva ora porre la domanda più importante, ma era restio a pronunciarla. Sarebbe potuta sembrare davvero troppo invadente e, dalla strana espressione di Paramisu, aveva capito che questi si era già esposto anche troppo. Abbassò lo sguardo su Mana.
    “Mi piacerebbe vederlo!” esclamò lei, rivolta a suo nonno.
    “Temo sia impossibile.” Lui fece un sorriso imbarazzato. “Dopo lo scandalo di Meren, il profeta di allora fu costretto a cacciarlo via. Non poteva rischiare di avere un traditore del faraone nel tempio…” Scoccò un’occhiata eloquente a Mahado, soddisfatto di questa, a suo parere, ennesima prova di fedeltà. “Per qualche tempo, ha girovagato come mago per il paese, poi è morto per una grave infezione… Credo all’incirca durante il secondo anno di regno di Ay.”
    Mahado si astenne dal commentare su quanto fossero informati anche su persone che, teoricamente, non avrebbero dovuto più interessare loro. Era chiaro che Ebana aveva continuato a lavorare per Amon, pur sotto una certa copertura, per evitare problemi con il re. Tuttavia, la questione non gli interessava: aveva scoperto ciò che gli occorreva, anche se, vista la conclusione, le indagini non avevano avuto nessun avanzamento. “Io vado” disse allora. “Approfitto di questa visita per controllare lo stato della sorveglianza nella Valle dei Re…” Fece un leggero inchino, più per etichetta che per devozione. “Gli dei proteggano il tuo volto.”
    “Vengo anche io.” Mana, che fino a quel momento era rimasta abbracciata al petto del nonno, si staccò di scatto per affiancarsi al maestro. Rivolse al profeta un leggero saluto. “Ci vediamo presto.”
    Mahado non aggiunse nulla: era solo felice di non lasciarla da sola tra i sacerdoti di Amon, che potevano avere solo delle cattive influenze. Semplicemente, si voltò e si diresse nuovamente verso la “lepre del fiume”, ancora ormeggiata sulla riva, ma con i marinai già pronti per la partenza. Mana lo seguì, saltellando leggermente, come al solito, senza aspettare la risposta del nonno.
    “Sei stata bravissima” dovette ammettere poi Mahado, una volta che furono saliti a bordo, e che la barca si fu allontanata dalla sponda.
    La ragazza si sedette sul bordo della prua, dondolando le gambe, e sorrise, arrossendo leggermente. Ricevere i complimenti del suo maestro, di solito così severo, era la soddisfazione migliore che potesse avere.
    “Dedicassi così tanto impegno anche agli studi…” aggiunse lui, scuotendo leggermente la testa.
    “Le indagini sono più interessanti” gli rispose Mana, sistemandosi meglio il copricapo tra i capelli castani. “Dove andiamo, adesso?” Non ebbe bisogno di chiederlo come favore per l’aiuto dato con Paramisu, perché lui aveva già deciso di ricompensarla permettendole di seguirlo ancora.
    “Dagli zii di Meren, che abitano da queste parti” rispose Mahado. “Non vuoi passare dai tuoi genitori?” le domandò però, un poco sorpreso dal fatto che non li avesse nemmeno nominati.
    Mana scosse immediatamente la testa. “La cosa più importante è obbedire agli ordini del principe, cioè, del faraone” Poi saltò giù dal bordo e si allontanò verso la poppa, fingendo di voler dare un ultimo sguardo al tempio di Karnak, mentre Mahado, sbattendo leggermente le palpebre, la seguiva con lo sguardo. Di certo, lei non poteva confessargli di non voler vedere i suoi genitori per essere uguale a lui che, mandato in Egitto da bambino come prigioniero, non era potuto tornare da loro neanche volendo.

    La fattoria dove abitavano gli zii di Meren si trovava nelle campagne attorno a Tebe e, nonostante non fosse certo magnificente come doveva essere per una famiglia così importante, era lo stesso piuttosto grande e ben curata, ben differente dalle semplici capanne in fango e argilla che usavano i contadini. I muri di pietra erano decorati, seppur superficialmente, e nel giardino intorno, accanto ad una piccola piscina, crescevano fiori multicolori tipici dei giardini dei nobili di città.
    Al centro del vialetto che portava fino alla porta d’ingresso, Mahado notò un uomo anziano, tutto intento a litigare con quello che pareva uno scriba, per questioni del tutto irrilevanti, come il diverso modo di scrivere la lista dei raccolti: a quanto sembrava, l’uomo si stava lamentando perché desiderava i documenti scritti da destra verso sinistra, mentre lo scriba era solito farli dall’alto verso il basso. Entrambi, comunque, si interruppero immediatamente quando Mahado, con Mana al fianco, ed una piccola scorta di uomini dietro, si avvicinò loro.
    “Cerco Hapu e Nebetta, gli zii del principe Meren” disse gentilmente. “Dove posso trovarli?”
    “Quel traditore!” esclamò l’uomo. “Mia moglie ed io non abbiamo niente a che fare con lui! Anzi, lo abbiamo sempre odiato. Ha ucciso mio figlio!” Senza aspettare risposta, si voltò, lasciando perdere la discussione con lo scriba, e fece per ritornare in casa.
    “Cosa succede?” La porta si aprì, e spuntò una donna, anche lei avanti con gli anni, attirata dalle urla del marito.
    Hapu la trascinò di nuovo all’interno. “Niente di particolare.”
    “Ma…” protestò leggermente Nebetta, scoccando un’occhiata interessata a Mahado e, soprattutto, all’anello millenario che lui portava al collo. Nonostante ratamente i membri della corte sacra si facessero vedere in giro, se non durante feste e celebrazioni, tutti conoscevano i poteri che derivavano loro dagli oggetti millenari, perciò non era difficile riconoscerli. Il marito chiuse inesorabilmente la porta dietro di lei.
    Mahado sospirò. Credeva che, dopo i sacerdoti di Amon, il resto sarebbe stato facile. Evidentemente, ciò che era successo sotto Tuthankhamon era ben più complesso di quanto non ci fosse scritto sul papiro del processo.
    “Signore, vuole che sfondiamo la porta?” chiese uno dei soldati.
    “No.” Mahado scosse la testa. “Faccio io.” Si avvicinò alla porta, e vi poggiò sopra l’indice e il medio, quindi gli ordinò di aprirsi. “Up-i” Con lentezza, come se fosse spinto dal vento del dio Shu, l’uscio si spalancò, lasciandolo entrare. “Accusare una persona di omicidio, anche se morta, è un fatto grave” disse poi, all’espressione di Hapu che se lo era ritrovato davanti. “Avete intenzione di aiutarmi, oppure devo tornare a Memfi e dire al faraone che gli zii di Meren si rifiutano di collaborare con uno dei suoi sacerdoti?”
    Come aveva immaginato, la paura di essere bollati a vita come traditori al pari del nipote e subire la stessa sorte degli altri parenti ebbe il sopravvento sul disgusto a parlare di Meren. Hapu fece comunque in modo da rimanere in una sorta di posizione di vantaggio, trattenendo la moglie dietro di lui, senza invitare Mahado ad accomodarsi. “Cosa desideri sapere?”
    Poiché i due coniugi gli avevano suscitato un’antipatia a pelle, lui non si fermò a preoccuparsi dell’etichetta. “Hai detto che Meren ha ucciso tuo figlio…”
    “Si… Djed…” Hapu abbassò lo sguardo, borbottando qualcosa sottovoce. Si era pentito di essersi fatto sfuggire di bocca quella frase nello scatto d’ira. “Non è che l’abbia proprio ucciso…”
    “Ah, no?” Le punte dell’anello millenario si agitarono leggermente.
    “Si è ucciso” intervenne Nebetta, che, evidentemente, aveva il terrore dei membri della corte sacra. “Amava Meren, ma aveva capito che non sarebbe mai potuto essere ricambiato, e così…” Hapu le riservò un’occhiata di fuoco.
    “Capisco…” Mahado decise di non insistere sull’argomento, onde evitare problemi. Questo Meren sembrava essere amato da tutti rifletté. Com’è possibile che, dopo, tutti lo abbiano davvero creduto colpevole? E l’unica risposta possibile che gli venne in mente fu probabilmente doveva esserlo. “Comunque, voi sapete qualcosa dei figli di Meren? Sono i vostri pronipoti.”
    “No, nulla” disse Nebetta.
    “E non ci interessa neppure!” esclamò Hapu.
    “Dopo il suicidio di Meren, siamo andati a Bath da sua sorella Idut” spiegò la donna, cercando di ignorare il marito. “Ma nemmeno lei sapeva nulla. Erano scomparsi tutti e tre, più il nipote, poco prima dell’arresto di Meren. Naturalmente, furono subito fatti cercare, ma con la fuga di Meren e il suo suicidio, alla fine nessuno badò veramente a ritrovarli.” Scoccò, per un attimo, una coraggiosa occhiata a Mahado. “Da noi non sono mai venuti.”
    Hapu stava per aggiungere qualcosa, ma Mahado lo bloccò alzando una mano. “Va bene, grazie.” Si voltò e, senza nemmeno salutare, uscì dalla casa. Un altro fallimento, come aveva immaginato. Sapeva già, ancora prima di iniziare, che cercarli era inutile, visto quanto erano vaste le terre dove potevano essersi nascosti. Sempre che fossero ancora vivi.
    “Niente?” chiese Mana, osservando la sua espressione delusa.
    “Niente” rispose Mahado. Eppure… Eppure ci dev’essere qualcosa! Protestò mentalmente. Meren si è ucciso apposta per rendere inutile il processo, proteggendo i figli… Ma se questi fossero scappati all’estero, non ci sarebbe certo stata la necessità di un’azione simile. Devono essere in Egitto. E, come dice il principe, la storia di Meren deve nascondere molto di più, o l’epigrafe non avrebbe senso… “Mana… Per caso ricordi l’ultima parte dell’iscrizione?”
    “Certo!” rispose la ragazza, che, essendo una maga, anche se apprendista, aveva una buona memoria. Iniziò a recitarla: “Il mio corpo è in balia del destino, le mie braccia stringono ancora, come raggi, le chiavi della vita. Il mio cuore l’ho riposto nell’eternità del faraone, a me unito come marchio a fuoco.”
    Mahado rifletté, stropicciandosi le mani. Il corpo deve indicare che fu divorato dai coccodrilli… Ma il resto non ha senso… Le braccia come raggi… L’eternità del faraone… Si ritrovò a toccarsi il polso destro, e allora capì. Ritornò immediatamente davanti alla casa di Hapu e Nebetta e bussò alla porta.
    “Che c’è ancora?!” protestò il vecchio, aprendo. Il disprezzo per il nipote superava la paura e la riverenza per chiunque, a quanto sembrava.
    “Meren aveva la cicatrice sul polso?” chiese velocemente Mahado, senza curarsi del suo sdegno. “Intendo il marchio di Aten, il cerchio solare con i raggi che terminavano con le chiavi della vita…”
    “Certo che ce l’aveva!” esclamò Hapu, per la prima volta soddisfatto della domanda, perché poteva infamare il nipote con quelle informazioni. “Pur di sopravvivere, non ci aveva pensato due volte a lodare Aten e Akhenaten, rinnegando gli altri dei. Non aveva un briciolo d’onore! E poi, dopo, la teneva sempre nascosta… Si vergognava, il rinn-”
    “Basta così, grazie” Mahado, senza tante cerimonie, chiuse loro la porta in faccia da fuori.
    Mana guardò tutta la scena sbattendo le palpebre. “Scoperto qualcosa?”
    “Forse sì” le rispose lui, vago. “Dobbiamo andare in un posto.”
  6. .
    Era Shiro, ma allo stesso tempo non era Shiro. Era lo Shiro del futuro, più grande, più grosso, con i capelli bianchi e una spettacolare arma metallica al posto del braccio. Era uno Shiro ancora più posato, meno sbarazzino, eppure con la maturità non aveva perso il suo fascino.
    Peccato che Keith fosse sempre lo stesso, il ragazzino che Shiro guardava come un fratellino, che amava e proteggeva, ma con cui non avrebbe mai fatto cose (nudi). Insomma, capiva benissimo il se stesso del futuro che aveva semplicemente deciso di prenderselo quando era adulto.
    “Ma tornerà?” chiese Keith.
    “Ovviamente tornerà,” disse lo Shiro vecchio. “A quanto sembra, in questo modo non distruggeremo la linea temporale, perché il passaggio sarà solo per breve tempo, ma alla fine della fiera, se io restassi qui, sarebbe un grosso problema. Anche perché niente di quello che mi ha portato a essere me accadrebbe, capisci? Probabilmente finiremo per distruggere l’intera realtà.
    No, in realtà Keith non capiva. Già l’idea del viaggio del tempo era una cosa che gli era estranea, decisamente più simile alla trama di un film che a un vero accadimento. Per di più, non era un viaggio nel tempo come nei film o nei libri che Shiro gli aveva fatto vedere o leggere, no, era un viaggio nel tempo magico creato da una principessa spaziale al solo scopo di fare un regalo di compleanno al Keith del futuro, che aveva espresso il desiderio di fare sesso con il Shiro del passato.
    Era tutto così assurdo! Anzi, forse di quell’intera storia, quello che Keith capiva di più era il comportamento del suo futuro: forse erano gli ormoni dei suoi diciassette anni, ma anche lui avrebbe volentieri affrontato un viaggio nel tempo pur di fare sesso con Shiro.
    “È anche la ragione per cui non posso raccontarti niente del futuro,” continuò Shiro. “Una volta che sarò andato via da qui, probabilmente tu lo ricorderai come un sogno, non ti renderai conto che era successo davvero finché non lo rivivrai con nel futuro, e lo stesso naturalmente vale per me. Lo ricorderò solo adesso che lo sto vivendo nel futuro.”
    Doveva aspettare così tanto pur di ricordarsi un avvenimento così importante della sua vita… era proprio un’ingiustizia.
    “Comunque, finché Keith non ha finito, io sono bloccato qui, e tu sei bloccato qui con me. Hai voglia di fare qualcosa? Potremo guardare un film assieme, oppure potremo andare a farci un giro con l’hoverbike, che ne dici?”
    “Non sei geloso?” disse Keith, improvvisamente. “In fondo il tuo ragazzo sta facendo sesso con un altro.”
    Anche se quell’altro era il se stesso del passato… tutto continuava ad essere molto confuso.
    “Sì, ma allo stesso tempo no?” rispose Shiro, dopo averci pensato per un po’. “Insomma, consciamente è vero che io sono qui e lui sta facendo sesso con un altro, ma in fondo sono sempre io? Sono io e non sono io, mah, su questa cosa Shakespeare ci avrebbe scritto tonnellate di storie. E invece è toccato a me. Ma comunque, no, non sono geloso, non esattamente, perché Keith non sta desiderando un altro, sta sempre desiderando me, e mi sta dimostrando che mi sta desiderando da così tanto tempo…”
    Poi si voltò e fece l’occhiolino a Keith. “Eri già innamorato di me a quest’epoca, vero?”
    Keith annuì debolmente.
    A quel punto, Shiro abbassò lo sguardo. Lo rialzò, guardò lontano. “Sai, non sono geloso, ma c’è una cosa che mi ha turbato. Io sono cambiato molto rispetto allo Shiro che conoscevi, te ne sarai accorto, e non sono sicuro di essere cambiato in meglio, a volte. Certo non sono più malato, e ho sempre pensato che sarei stato un peso per chi mi avrebbe sopportato una volta raggiunta la malattia… ma la realtà è che a volte mi sento un peso anche adesso. E sì, mi sto chiedendo se Keith a volte non mi avrebbe preferito come ero una volta.”
    “Ma ti ha scelto nel futuro, anzi, ha continuato a volerti nel futuro, no? Quindi direi che ha continuato a volerti nonostante tutto.”
    “Ah, questo sì… vedi, non è che io dubiti del suo amore, assolutamente no, è solo che questo suo desiderio mi ha colto alla sprovvista, e mi ha fatto riflettere.”
    “Io non lo so come sono le cose da voi nel futuro,” disse allora Keith, “ma non mi sono mai ritenuto così superficiale da pensare che ti lascerei perdere. Io credo che il Keith del futuro ti abbia solo desiderato per così tanto tempo che, alla fine, ha deciso di prendersi anche il tempo in cui non ha potuto averti. Io la penso così.”
    “Forse hai ragione. Be’, di sicuro parlare con te mi ha fatto bene, di sicuro c’è la possibilità che quello che tu dica è vero, dopotutto tu sei Keith, no? Se c’è qualcuno che può sapere com’è fatto Keith sei tu.”
    “Credo di sì.”
    “Allora, che cosa vuoi fare?” Shiro gli passò il braccio meccanico attorno alla vita e lo attirò ancora di più a sé. Keith si nascose con la testa contro il suo petto, era enorme, e Keith ci poteva affondare dentro.
    Voleva fare sesso con lui, voleva perdere la verginità con lui, apprezzare il calore che quel corpo gli dava e sentirlo dentro di sé. Ma non ebbe mai il coraggio di dirlo, per non sentirsi rifiutare. Quello Shiro era anche più adulto del suo, non poteva vedere il Keith di adesso come molto diverso da un ragazzino, anche se stava col Keith del futuro.
    Perciò, anche se era anche il suo compleanno, anche se era quello che desiderava veramente, non lo disse, si limitò a stare abbracciato a lui.
    “Possiamo semplicemente stare un po’ qui così?” gli disse. “Non c’è niente di particolare che voglio fare, e vorrei aspettare che il mio Shiro tornasse.”
    Così magari l’avrebbe visto, con la giacca della divisa un po’ aperta, i capelli scarmigliati, gli occhi lucidi e le guance leggermente rosse, e avrebbe visto com’era Shiro dopo il sesso.
    “Ma certo.”
  7. .
    “Se dovessi desiderare una cosa assurda per il tuo compleanno,” aveva chiesto Lance una volta, “che cosa desidereresti?”
    Keith ci aveva pensato molto a lungo, non c’era veramente una cosa che volesse, a lui piacevano molte cose ma la maggior parte le aveva ottenute, e le altre non erano abbastanza importanti. Quindi non disse nulla, ma poi, quasi a scherzo, disse, “mi piacerebbe incontrare lo Shiro del passato e farci sesso.”
    Shiro aveva tossito, imbarazzato, e Keith aveva riso, aggiungendo, “non sai quante volte in passato ho desiderato farlo.”
    Ovviamente, non aveva idea che una cosa del genere fosse possibile. Per lui, che pure aveva affrontato i viaggi dimensionali, il viaggio del tempo comunque non si poteva affrontare per una questione di misteri della linea spazio temporale per cui sicuramente non voleva che Pidge gli raccontasse roba a riguardo.
    Invece, a quanto pareva, Allura poteva farlo. Era una cosa da magia alteana spazio dimensionale e astrale di cui Keith non ci capiva molto, ma che per evitare di distruggere completamente la linea temporale, pretendeva che i due Shiro si cambiassero di posto. E Shiro aveva acconsentito a farlo, pur di realizzare uno dei più profondi desideri di Keith.
    E così adesso Keith si ritrovava davanti a uno Shiro ventitreenne, bellissimo come se lo ricordava, con la divisa e un viso da ragazzino, i capelli ancora completamente neri, che lo guardava con uno sguardo perplesso e incantato allo stesso tempo.
    “E quindi tu sei il Keith del futuro,” disse alla fine. “Sei così grande… adulto. Incredibile.”
    “È passato un po’ di tempo.”
    “Questo è sicuro… e quindi sarei io il tuo regalo di compleanno?” Shiro rise. “Sono onorato, ma questo vuol dire che non sarò più qui nel futuro?”
    “In teoria non potrei dirtelo, ma se Shiro non fosse stato qui, tu non avresti potuto essere qui. Voglio dire, ti sei scambiato con lo Shiro di questo tempo, che tra l’altro è il mio ragazzo.”
    “Oh.” Shiro arrossì. “Allora non capisco, perché sono qua.”
    “Perché ho degli amici cretini, e magici, e una volta ho detto per scherzo che mi sarebbe piaciuto fare sesso con te, cioè, con lo Shiro del passato.”
    “Oh,” Shiro arrossì maggiormente. Poi disse, “quindi non lo vuoi fare.”
    “No, sì, cioè, non se tu non vuoi.”
    “No, no, io voglio, cioè, finché siamo qui… Altrimenti sono venuto per niente, no? E non vorrei mai rovinare il tuo compleanno così.”
    “Okay.”
    “Okay.”
    Per un lungo istante si guardarono, Shiro ancora seduto sul limite del letto, Keith in piedi davanti a lui. Poi Keith pensò che era inutile farsi delle paranoie, quello era Shiro, e lui nel futuro aveva già fatto sesso diverse volte, quindi sapeva che cosa gli piaceva e cosa aspettarsi. Era inutile pensare troppo, e poi questo era lo Shiro post separazione da Adam, quindi non era proprio di primo pelo.
    Si chinò di fronte a lui, gli stacciò la cintura e aprì la patta dei pantaloni. Shiro trattenne il fiato, ma aveva già il pene eretto a metà, non c’era molto altro che potesse fare che lasciarsi accarezzare da Keith.
    Keith gli prese il pene il bocca, e succhiò forte, strappandogli un gemito di piacere. Ecco, pensò Keith, è proprio così che me lo ero sempre immaginato da ragazzino, con la testa leggermente alzata all’insu e le guance rosse mentre gli facevo un pompino. Le mani di Shiro si serrarono ancora di più sul lenzuolo del letto, e senza nemmeno accorgersene incoraggiò Keith spostando leggermente il bacino.
    “Woaw,” commentò Shiro alla fine, tra un respiro profondo e l’altro, una volta che gli fu venuto direttamente in bocca.
    “Woaw per il pompino o perché ho inghiottito tutto?”
    “Entrambi.”
    “Ho imparato grazie a te,” gli fece presente Keith, “vedo che le dimensioni del tuo pene sono sempre state notevoli.”
    “È perché ho anche un naso grande,” scherzò Shiro, e poi trattenne in gola un respiro quando Keith gli passò una mano sotto il sedere e premette un dito contro il suo ano. Si sdraiò contro il letto, e cercò di muovere disperatamente le gambe mentre tentava di tirarsi giù i pantaloni. Keith gli diede una mano fino a sfilarglieli del tutto.
    “Come faccio dopo questo a guardare ancora in faccia il mio Keith?”
    “Sfortunatamente, pare che non ricorderai molto di tutto ciò,” commentò Keith mentre continuava a prepararlo muovendo le dita dentro di lui. “È per non distruggere la linea temporale.”
    “Ma io voglio ricordarmelo…”
    Anche Keith avrebbe voluto che se lo ricordasse, pensò mentre lo penetrava e gli strappava un lungo e alto gemito. Forse non avrebbe sofferto di quell’astinenza che lo aveva sempre caratterizzato da ragazzino, dell’idea che Shiro fosse quell’ideale irraggiungibile come le foto sui giornali che i ragazzi usavano per masturbarsi.
    Ricordava la prima volta che avevano fatto sesso, Shiro aveva cercato di essere delicato, ma Keith aveva aspettato per troppo tempo. Era stato rapido, quasi aggressivo, e Shiro aveva riso e lo aveva stretto a sé a lungo, finché Keith non era venuto di nuovo, ed era stato ancora più bello.
    Anche questa volta Keith era troppo rapido e aggressivo, ma sentiva che era la soddisfazione del se stesso ragazzino che stava prendendo il sopravvento su di lui. Spinse ancora più forte, e i gemiti di Shiro aumentarono di intensità e numero.
    “Forse, te lo ricorderai,” disse allora.
    “Impegnati perché io lo faccia,” rispose Shiro a fatica, un braccio appoggiato sugli occhi, quasi imbarazzato, “anche se poi non potrò mai più guardare allo stesso modo il mio Keith.”
    “Invece dovresti farlo,” gli disse, “sarà lì ad aspettarti, e credimi che ti sta desiderando tanto quanto me.”
    Certo, il Keith del passato non era così esperto. Non sapeva di certo fare i pompini, e a maggior ragione non avrebbe potuto ingoiare tutto, probabilmente si sarebbe mezzo soffocato. Non sarebbe stato capace di spingere così bene dentro, sarebbe stato imbarazzato, forse avrebbe preferito che fosse Shiro a guidarlo, a mostrargli la via. Ma Keith sapeva che sarebbe stato entusiasto quanto lui.
    “Magari lo farò.”
  8. .
    Aver salvato la Terra era solo il primo passo per la sua effettiva ricostruzione.
    Dopo la sconfitta di Sendak e dello strano mecha arrivato conseguentemente, Keith aveva passato la maggior parte del tempo in ospedale, più di quanto l’avessero fatto gli altri Paladini perché avevano riportato ferite meno gravi delle sue. Poiché sia a Kolivan sia a Krolia era stato permesso di assisterlo e perché nessuno gli aveva detto nulla, Keith era tranquillo che non stesse succedendo niente di particolare.
    Lance, Hunk, Pidge passavano per raccontargli del fatto che stavano usando i Leoni per dare una mano alla costruzione, come quasi a voler chiedere la sua autorizzazione (come se per Keith essere il Leader di Voltron conferisse poi qualche particolare potere a riguardo), e Shiro non riusciva a passare quasi mai, mandava dei messaggi per indicare che stava bene, che aveva da fare, e di solito arrivava la sera tardi che anche se Keith cercava con tutte le sue forze di rimanere sveglio, alla fine crollava miseramente.
    Solo Allura venne un giorno, e sembrava stanca, svogliata, quasi amareggiata da tutta la situazione.
    Inizialmente, Keith pensò che fosse perché l’essere sulla Terra le ricordava Altea, e come all’epoca lei non fosse riuscita a salvarla. Invece, si trattava della sua presenza come aliena non solo sulla Terra, ma anche come membro della squadra Voltron.
    “E allora cosa dovrebbero dire di me?” disse Keith onestamente. “Io che sono mezzo Galra.”
    Allura non rispose, ma si morse il labbro appena, quello che bastava a Keith per fargli capire che c’era effettivamente qualcosa che non andava.
    “Lo stanno dicendo anche di me,” concluse.
    “È una cosa un po’ complicata.”
    “Spiegamela.”
    “Va bene,” Allura annuì. “Ma prometti di lasciare l’ospedale solo quando i medici te lo diranno, e non adesso.”
    “Prometto,” disse Keith, con un sospiro. Ormai Allura lo conosceva troppo bene.
    “La venuta di Sendak ha completamente distrutto il sistema di Governo terrestre,” iniziò Allura. “La ricerca e il salvataggio dei prigionieri, la conta dei sopravvissuti, sono tutte cose che stanno richiedendo tempo, e non c’è quindi il tempo di ricreare il governo com’era in precedenza, considerando la morte di molti leader.”
    “Purtroppo noi non abbiamo una principessa spaziale.”
    “Già, be’, probabilmente sarebbe stata la prima a morire e la situazione non sarebbe stata diversa,” rispose Allura con un breve sospiro. “In ogni caso, l’unica struttura che è in parte sopravvissuta con la propria gerarchia sulla Terra e la Garrison USA. So che stanno cercando di recuperare alcuni ufficiali dagli altri continenti, ma la centrale operativa è da noi, considerando anche la presenza dell’Atlas e di Voltron.”
    “Mi pare ragionevole. Shiro fa parte di questa gerarchia, tra l’altro.”
    “Già, ma la morte dell’Ammiraglio Sanda ha fatto nascere alcune correnti interne,” disse Allura. “Una parte, vorrebbe nominare Shiro come nuovo ammiraglio, Sam e Iverson sono da questa parte. L’altra è capitanata dal Comandante Dos Santos, che era il secondo in commando dopo Sanda, e che vorrebbe essere nominato al suo posto.”
    “Non ha fatto nulla durante la guerra a parte voler consegnare i Leoni a Sendak,” fece una smorfia Keith.
    “Sono d’accordo, ma molta gente si schiera con lui perché ha paura.”
    “E di cosa?”
    “Del troppo potere che l’Atlas e Voltron portano con sé.” Si sistemò un po’ meglio sulla sedia. “Shiro aveva proposto di costruire, con i progetti che abbiamo, la macchina per il portale in modo da poter contattare Matt e gli altri pianeti: dobbiamo aiutarli, e allo stesso modo loro potrebbero aiutare la Terra a ricostruirsi più in fretta, ma molti non vogliono. Sono uscita proprio adesso da una riunione in cui ne abbiamo discusso senza risolvere nulla.”
    “Non si fidano di te.”
    “Non si fidano di nessuno, né di me né di te, né di Shiro,” replicò Allura. “Vogliono semplicemente controllare tutto, e non gli piace l’idea che Voltron sia a disposizione dell’universo senza un vero padrone alle spalle.”
    “Meno male che i Leoni scelgono da sé il loro pilota,” disse Keith. “O c’era seriamente il rischio che volessero rubarseli.”
    “Già, be’, non so se non ci vogliano provare comunque. Questa è la situazione, in ogni caso.”
    Keith le strinse la mano. “Sono sicuro che sistemeremo tutto quando uscirò di qui.”

    Quando finalmente Keith fu dimesso dall’ospedale, non c’era nessuno ad attenderlo. Krolia e Kolivan erano con Sam a cercare di contattare la ribellione e vedere com’era la situazione e se c’erano altre Blade sopravvissute o che erano sotto attacco da parte dei druidi, gli altri Paladini erano in giro con i loro Leoni sempre per aiutare la ricostruzione, invece Shiro e Allura erano a mezzo di qualche meeting diplomatico di cui i dottori non avevano voluto dire molto.
    Così Keith si ritrovò da solo, andò alla base della Garrison e recuperò la sua armatura da, come un cadetto gli indicò, quello che era il suo quartiere privato a bordo dell’Atlas. Voleva volare un po’ con Black, dare un’occhiata alla situazione con i suoi occhi e, dopo così tanti giorni di immobilità, voleva anche riprendere il controllo sul suo corpo.
    L’Atlas era stato creato per contenere i leoni al suo interno, quindi Keith ipotizzò che fossero nel suo hangar e vi si diresse. Ma la porta era chiusa, sorvegliata da due soldati.
    “Scusate, devo prendere il mio Leone,” disse loro, “potreste aprirmi?”
    “Purtroppo no, Signore. Abbiamo ordine di non far accedere nessuno all’hangar di Voltron a meno che non sia stato autorizzato.”
    “Autorizzato da chi?”
    “Dal comando ufficiale della Garrison, Signore.”
    Keith alzò gli occhi al cielo. “Io sono il suo Paladino. Se avete combattuto durante la guerra, sapete bene che posso ordinare a Black di uscire sfondando tutto.”
    I due soldati si guardarono, a disagio. “Lo sappiamo, signore, anche il Capitano Shirogane non è d’accordo, ma è una disposizione ufficiale. Finora gli altri Paladini hanno cooperato.”
    Se gli altri si erano messi a disposizione, probabilmente era perché c’era qualche sottile ragione di diplomazia che a Keith al momento sfuggiva, ma si fidava di Hunk e di Allura più di quanto si fidasse di se stesso, quindi annuì.
    “Dove posso trovare il Comandante Dos Santos?”
    I soldati glielo indicarono e Keith, sempre con l’armatura indosso, camminò in quella direzione. Per fortuna trovò Dos Santos nel suo ufficio, con altri due ufficiali, e non si preoccupò molto di disturbare la lezione.
    “Scusate, sarò breve,” disse entrando. “Mi serve l’autorizzazione per poter recuperare Black.”
    “Ah, Kogane,” disse Dos Santos. “Venga, volevamo proprio parlare con lei. Si sente già in forma dopo il suo ricovero?”
    “Sì, per questo volevo Black.”
    “Lo avrà.” Dos Santos gli fece cenno di sedersi e Keith, pur accigliato, gli obbedì. “Ma prima avrei bisogno di farle un paio di domande. Abbiamo evitato di disturbarla in ospedale, ma adesso che è qui…”
    “Domande di che genere?”
    “Sul Capitano Shirogane. Immagino sappia che la vostra… relazione è già stata rivelata noi dallo stesso Capitano Shirogane, giusto per essere chiari. E non abbiamo intenzione di interferire a riguardo.”
    Keith alzò le spalle. Da parte sua, non aveva problemi che la gente sapesse di lui e Shiro, e dall’altra dovevano solo provarci a mettergli i bastoni fra le ruote.
    “Ma considerando proprio questa relazione, pensiamo che lei sia la persona più adatta a dirci qual è lo stato mentale del Capitano Shirogane.”
    “Lo stato mentale?”
    Dos Santos annuì. “Siamo a conoscenza del fatto che il Capitano Shirogane, negli scorsi anni, sia stato vittima di diverse sfortunate situazioni, alcune delle quali poco chiare, che potrebbero averne compromesso le normali funzioni cognitive. Un peccato, ma comprensibili.”
    “Shiro s’è messo al comando dell’Atlas e ha salvato il culo a tutti durante la guerra,” affermò Keith. “Le sue capacità cognitive mi sembrano in perfetta forma.”
    “La guerra è stata una situazione eccezionale, di cui chiaramente siamo tutti grati a voi e al Capitano Shirogane, ma in uno stato di pace non credo che l’opinione pubblica si aspetti da noi una semplice stretta di mano. I piloti sono sempre stati soggetti a controlli rigorosi, lei ovviamente non può saperlo perché è stato espulso dalla Garrison prima, ma-”
    Questa volta, Keith lo interruppe alzandosi. “Ho già risposto alla vostra domanda: Shiro sta benissimo e non c’è nessun altro meglio di lui a capitanare l’Atlas, e non ho altro da dirsi.”
    Completamente dimentico della ragione vera per cui era andato nell’ufficio all’inizio, lo lasciò alle spalle e si diresse a cercare Shiro, che trovò nell’hangar della Garrison, intento a verificare lo stato di alcune navicelle degli MFEs, che Sam aveva deciso di implementare.
    “Keith!” lo accolse con un abbraccio. “Scusami se non sono venuto a prenderti all’ospedale, ho un’agenda così fitta che devo trovare spazio anche solo per mangiare…”
    “Non preoccuparti,” gli rispose Keith. “Qualcosa mi dice anche che avevi paura che allontanandoti ti avrebbero rubato il posto da sotto il sedere.”
    Shiro lo guardò sorridendo. “Hai incontrato Dos Santos.”
    “Sì, e quello che mi ha detto non mi è piaciuto per niente.”
    “Non devi prenderla troppo sul personale,” disse Shiro. “Dos Santos sta facendo di tutto per prendere il controllo della situazione, e sa che non potrà farlo finché non avrà il controllo delle due armi più potenti a disposizione. Può provare ad attaccare voi paladini di Voltron, ma questo non cambia la realtà che i leoni vi hanno scelto. Quindi non gli rimane che attaccare me.”
    “Anche tu sei stato scelto dall’Atlas. E dal Black Lion,” ribatté Keith. “Non può semplicemente mandarti via con la scusa che sei malato di mente!”
    “Purtroppo non ha tutti i torti,” mormorò Shiro tristemente.
    “No, Shiro, non è così. Tu non sei malato di mente, soffri di un disturbo da stress-post traumatico che è perfettamente logico considerando tutto quello che hai passato, e ce l’hai ancora perché non sei riuscito a curarlo come si deve,” rispose Keith. “Ma adesso siamo sulla Terra, in un momento di calma. Potresti contattare qualche psicologo disposto-”
    “No,” disse immediatamente Shiro. “Nel momento in cui metterò piede all’interno di uno studio, il mio posto sull’Atlas mi verrebbe immediatamente revocato.”
    “Non possono farlo.”
    “Invece sì. Gli basterebbe distribuire la notizia all’opinione pubblica, e tutti sarebbero d’accordo sul fatto che un uomo che non ha il controllo sulla propria mente non possa comandare la nave più potente della flotta, perché chissà cosa potrebbe succedere.”
    “Be’, ma una volta guarito, potresti tornare,” suggerì Keith.
    “Non mi posso permettere di perdere tempo,” gli disse, “perché qui vogliono togliere i Leoni anche a voi. Devo restare prima che la situazione peggiori.”
    Poiché Shiro era testardo e Keith sapeva che non c’erano grandi alternative per convincerlo, lasciò perdere.

    Tre notti dopo, nel cuore della notte, quando Keith dormiva tranquillamente al fianco di Shiro, si svegliò sentendo dei movimenti sospetti. Era Shiro che si muoveva, spostandosi su di lui. Prima che potesse dirgli qualcosa, con la mano umana Shiro lo bloccò contro il materasso, e con la mano metallica tentò di soffocarlo, le dita rigide che si stringevano contro il suo collo.
    Keith si affannò, si agitò per liberarsi dalla presa, non aveva aria in gola e la trachea gli bloccava qualunque suono, finché non riuscì ad allungare la mano contro il muro dietro il letto e a batterci il pugno contro. Il rumore attirò il lupo, che dormiva nella sala a fianco, che si materializzò a fianco del letto. Keith gli mise la mano sulla schiena e un attimo dopo era stato teletrasportato via dalla morsa di Shiro.
    “Shiro,” lo chiamò con delicatezza, mentre Shiro stava ancora artigliando il cuscino come se fosse Keith. “Va tutto bene. Sono io. Rilassati.”
    Shiro sbatté le palpebre, inizialmente non capendo dove si trovasse, poi voltò la testa in direzione di Keith.
    “Ho avuto una crisi?”
    “Sì, ma non ti devi-”
    Non fece in tempo a finire la frase perché Shiro accese la luce e, sotto il fascio della lampada, il rossore che si stava già tramutando in lividi fu estremamente visibile sul collo di Keith. Shiro si accasciò sotto la testiera del letto.
    “Credevo non sarebbe mai più successo…” mormorò. “Ti ho quasi ucciso.”
    “Ma non l’hai fatto.”
    “Stavo per. E se ci riuscissi la prossima volta? Io non posso perderti. È chiaro che-”
    “No,” lo interruppe Keith, e si accoccolò al suo fianco. “Senti, Shiro, io lo so che sei forte e che pensi di dover essere sempre superman, ma una delle ragioni per cui mi sono innamorato di te è che sei stato capace anche di mostrarmi le tue debolezze. Se hai paura di uccidermi, allora devi curare il tuo disturbo.”
    “Abbiamo già parlato di questo.”
    “Lascia che ti aiutiamo,” continuò Keith. “Io e i paladini, e Sam, e Matt, e mia madre e Kolivan. Tu pensa solo a curarti, noi terremo l’Atlas lontano dalle loro grinfie.”
    Shiro sospirò. “Alla fine, sono sempre la debolezza di questo gruppo.”
    “Non è vero,” rispose Keith. “Io non sarei così se non fosse stato per te. Nessuno di noi lo sarebbe stato, senza di te. Tu sei sempre stato la nostra forza, quindi permettici questa volta di essere la tua.”
    “Domani sentirò Sam se conosce qualche buon psicologo per il disturbo da stress post traumatico,” acconsentì Shiro alla fine. “Ma per stanotte, dormirò in soggiorno.”

    Come Shiro aveva promesso, si fece consigliare da Sam una psicologa di fiducia, che accettò con entusiasmo di farsi carico della situazione di Shiro, essendo stata a lungo prigioniera di Sendak. Shiro andò a farsi visitare da lei due volte a settimana e si procurò le medicine per controllare le crisi, anche se continuò a dormire in soggiorno.
    Come Shiro aveva previsto, Dos Santos e i suoi presero immediatamente il polso della situazione, spingendo sul fatto che era meglio se Shiro rinunciava volontariamente al comando dell’Atlas, almeno finché non avesse terminato il suo ciclo di cure.
    “È anche per il suo bene,” dicevano, “così potrà concentrarsi sulla sua salute senza doversi preoccupare di problemi di carattere più amministrativo.”
    Sapevano tutti che erano stronzate, ma anche che non sarebbero riusciti a tenere sotto controllo la situazione ancora a lungo. I Paladini fecero una ricognizione della situazione all’interno dell’Atlas (dov’erano tutti fedeli a Shiro) e della Garrison (dove le cose erano più complesse) e infine si radunarono nel Black Lion per esaminare i fatti.
    “Non credo che possiamo impedire a Dos Santos di chiedere l’allontanamento di Shiro dall’Atlas,” affermò Hunk.
    “Non gli lasceremo portare via l’Atlas a Shiro,” protestò Keith immediatamente.
    “No, sono d’accordo, ma potremo aver bisogno di una piccola ritirata a questo riguardo,” disse Hunk. “Io e Allura abbiamo elaborato un piccolo piano a questo riguardo, in modo da ottenere tutto quello che vogliamo ma facendogli credere che non è così.”
    Keith si voltò verso Allura, e lei annuì. “La nostra idea sia di far dire a Shiro che rinuncia volontariamente al comando dell’Atlas per curarsi, che poi è quello che vuole Dos Santos. Successivamente a questo, tu Keith, in qualità di Leader di Voltron, farai presente che Voltron lascerà la Terra per andarsi a radunare alla resistenza nello Spazio.”
    “Vogliamo farlo davvero?”
    “Ovviamente no,” rispose Pidge. “Il nostro scopo è che ci permettano di costruire la tecnologia dei portali. Useremo questa scusa per forzare loro la mano, diremo che dato che si deve entrare in contatto con queste popolazioni, com’è compito di Voltron, allora dovremo spostarci noi dato che loro non vogliono.”
    “Dovrai usare la tua parte Galra, Keith,” aggiunse Hunk. “Dovrai far presente che tu appartieni a due etnie, e che quindi devi anche render conto a loro, e che ora l’Impero più che mai ha bisogno di essere controllato. Non gli piacerà, temeranno che vorrai riunire i Galra sotto Voltron, e ci chiederanno di mandare l’Atlas con noi.”
    “A quel punto accetteremo con entusiasmo,” continuò Allura, “ma, solo a condizione che chiunque sia il nuovo capitano dell’Atlas sia anche in grado di trasformarlo in un mecha, altrimenti nello spazio, se incontrassimo altri mecha come quello che abbiamo affrontato sulla Terra, rischierebbe di essere distrutto.”
    Keith sorrise, capendo finalmente dove stavano andando a parare. “E nessun altro a parte Shiro è in grado di fare una cosa del genere.”
    “Ovvio,” Lance sbuffò. “Nessuno è all’altezza di Shiro qui, è ridicolo anche solo il fatto che stiano davvero pensando di sostituirlo.”
    “In questo modo,” terminò Allura, “se vogliono farci partire, saranno costretti a reintegrare Shiro, se non vogliono farci partire saranno costretti ad accettare l’implementazione della tecnologia per i portali sull’Atlas. Per noi, in ogni caso, è un win win.”
    “Sarebbe meglio la seconda,” disse Pidge.
    “Ma così Shiro non sarebbe più il Capitano dell’Atlas,” fece presente Keith.
    “Troveremo il modo di reintegrarlo successivamente, tanto nessuno è in grado di pilotare come lui,” rispose lei. “Ma abbiamo bisogno di aiuto qui sulla Terra, adesso. Abbiamo bisogno di quel portale. E Shiro potrebbe dedicarsi unicamente a stare meglio, ha bisogno di tirare il fiato. Da dopo la sconfitta di Sendak non ha avuto un attimo di riposo.”
    Keith annuì. “Shiro lo sa? È d’accordo con questo piano?”
    “Gliel’ho accennato, e mi è sembrato d’accordo,” disse Allura, “ma prima volevamo essere sicuri che anche a te andasse bene, non solo per Shiro ma anche per tutta la questione dei Galra…”
    “No, va bene,” affermò Keith. “Facciamolo.”

    Come Allura e Hunk avevano preventivato, Dos Santos e i suoi non volevano che Voltron lasciasse la Terra senza controllo, ma d’altro canto non volevano nemmeno interrompere la loro campagna denigratoria nei confronti di Shiro e della sua malattia mentale chiedendogli di tornare immediatamente a capitanare l’Atlas, per cui chiesero a Keith e agli altri paladini di attendere il tempo di valutare dei possibili candidati per la posizione di capitano dell’Atlas, cosa che Keith finse di accettare con piacere.
    Nonostante questi colloqui fossero assolutamente confidenziali, Veronica non si fece problemi a passarli a Keith sul suo Datapad, e Keith a mostrare a Shiro scene di persone che, sul ponte di comando, gridavano ordini, facevano strani balletti o danze, o yoga, nella vana speranza di far trasformare l’Atlas.
    Fu una settimana intensa e divertente.
    Poi, Dos Santos comunicò a malavoglia che, stante l’impossibilità di trovare un candidato addestrato in breve tempo, avrebbe dato il suo appoggio alla costruzione del sistema per aprire i portali, purché il consiglio fosse sempre informato ogni volta che Allura necessitava di utilizzarlo.
    “Stiamo attenti,” disse comunque Allura al termine di un altro dei loro meeting segreti, “abbiamo vinto una battaglia, ma Dos Santos non rinuncerà all’idea di dare l’Atlas e i Leoni a qualcuno di sua fiducia.”

    Sei mesi dopo, la situazione sembrava essersi assestata.
    I portali avevano permesso il passaggio dalla Terra a ogni angolo dell’universo, in modo da ricevere aiuti come cristalli (i piloti degli MFEs avevano potuto finalmente provare l’ebbrezza di pilotare una navicella stimolata con vera potenza) e tecnologia di ricostruzione, mentre Voltron poteva andare in loro aiuto se gruppi di Galra cercavano di attaccare pianeti o la resistenza.
    Kolivan sosteneva che c’era bisogno di Voltron non più sulla Terra ma nell’universo, a recuperare tutti i gruppi di Galra che ormai non avevano più una guida, e indubbiamente questa era anche l’intenzione di Allura, fermare ogni possibile scalata di un nuovo Impero Garla. Keith esitava, Shiro faceva possibili piani per la partenza che passava a Iverson di nascosto.
    Poi, un giorno, Keith ricevette una chiamata dalla psicologa di Shiro. Preoccupato, si precipitò nel suo studio, ma Shiro non c’era.
    “No,” disse la psicologa, indicando la sedia di fronte alla sua scrivania. “L’ho chiamata perché vorrei parlare con lei.”
    “Di Shiro?” domandò lui, e si sedette un po’ stupito.
    Lei annuì. “Ovviamente non ho intenzione di rivelarle nulla di quello che il Capitano Shirogane mi ha rivelato nella confidenza del nostro rapporto professionale,” spiegò, “ma mentre la sua guarigione prosegue spedita, credo che sia importante che lei diventi una parte fondamentale di questo percorso.”
    “Sono disposto a fare tutto, per Shiro.”
    “Di questo ne sono venuta a conoscenza dettagliatamente durante queste sedute,” ridacchiò lei. “E non mi fraintenda, è positivo che il Capitano Shirogane, vista la sua situazione, abbia qualcuno su cui contare. Ma dall’altro lato questa situazione potrebbe diventare deleteria.”
    “Deleteria?”
    “Il disturbo post traumatico del Capitano involve numerosi fattori, e posso candidamente ammettere che si tratta di un caso unico nel suo genere. Probabilmente, un’altra persona con meno forza di volontà della sua sarebbe già crollata.” Poi guardò Keith fisso negli occhi, “lei lo ha salvato in diverse occasioni, è vero?”
    “Penso di sì. Lui avrebbe fatto lo stesso per me. Anzi,” si corresse immediatamente, “lo ha fatto, in passato.”
    “Quand’è l’ultima volta che il Capitano l’ha salvata?” domandò la psicologa.
    Keith ci pensò. “Penso che sia quando è riuscito a trasformare l’Atlas in un mecha per difendere Voltron dall’altro mecha che ci stava attaccando.”
    “No, parlavo di salvare lei specificatamente.”
    Keith si accigliò. “Non so esattamente questo cosa abbia a che fare…”
    “Mi risponda, prego.”
    “Non… non mi ricordo,” disse Keith. Poi si illuminò, “ah, sì, è stato quando ha fatto venire il Black Lion a prendermi quando la fabbrica dei cloni era stata distrutta. Lei sa della fabbrica dei cloni, vero?”
    “Lo so, e anche se non posso scendere nei dettagli, ho l’impressione che il capitano ricordi questo particolare salvataggio in maniera molto differente.”
    “Era nel piano astrale, forse ha la memoria un po’ confusa,” disse Keith. “Ha portato il Black Lion a prendermi, e poi mi ha aiutato anche a svilupparne i poteri in modo che potessi raggiungere gli altri non più facilità. E ha salvato se stesso, dato che avevo il corpo del clone con me.”
    “Capisco,” annuì la psicologa. “E quand’è l’ultima volta che lei ha salvato il capitano?”
    “Con Sendak, direi.”
    “E com’è andata?”
    “Be’, Shiro ci stava combattendo, li ho visti, era in difficoltà e mi sono precipitato ad aiutarlo…”
    “Non nota delle differenze nelle due situazioni?”
    “No?” E poi, sentendosi stupido, “dovrei?”
    “Probabilmente no, dato che lei non ha tutte le confidenze che ho io, e io non gliele posso rivelare,” disse la psicologa, con un sospiro. “Quello che mi ha detto potrebbe essermi utile nelle sedute successive, quindi la ringrazio. Però la pregherei di prestare davvero attenzione a quello che sa del capitano, e da come quindi potrebbe prendere alcuni determinati fatti del vostro rapporto.”
    Gli porse la mano, e Keith lo prese come segnale che la conversazione era finita. Ma continuò a rimuginarci per tutta la settimana, finché non comprese una cosa: forse Shiro aveva iniziato ad avvertire i salvataggi di Keith come un peso a cui non poteva ricambiare. Da una persona che aveva difficoltà ad ammettere le proprie debolezze, era una seria possibilità.

    “Credo di sapere che cos’ha in mente Dos Santos,” disse Pidge, e ficcò in mano a Keith un volantino informativo.
    “Che cos’è?” domandò Keith. Lo aprì: sembrava un manifesto contro i Galra, e apparentemente c’era anche il suo nome scritto da qualche parte.
    “È un gruppo mezzo organizzato di persone che sono razziste verso i Galra,” spiegò Pidge. “Hunk e Allura hanno cercato di contribuire a un’informazione corretta, tramite documentari delle imprese delle Blades e anche sulla biografia della tua storia, ma sai com’è, a volte la gente sente quello che vuole sentire.”
    “E Dos Santos con loro cosa c’entra?”
    “Ovviamente questo gruppo non è favorevole alla tua permanenza come leader di Voltron, a causa della tua discendenza Galra. Inutile dire che Dos Santos sta tentando di cavalcare questo malcontento per avere la possibilità di assegnare il Black Lion a uno dei suoi.”
    “Black non sceglierà mai qualcuno di loro,” disse Keith. “Se proprio dovesse stancarsi di me, riprenderà Shiro.”
    “Be’, Dos Santos è convinto del contrario. E penso che possa incorrere in qualche… mossa più estrema per provare il suo punto. Stai attento.”

    La mossa più estrema, a quanto pareva, era un rapimento.
    Keith si ritrovò circondato da un gruppo di persone armate e mascherate durante uno dei suoi normali controlli agli orfanotrofi della zona, compito che aveva preso su di sé ben volentieri. Quello che sembrava il capo di quegli uomini armati gli intimò di arrendersi e di seguirli a bordo di un furgone.
    L’intera situazione era surreale, perché Keith aveva cin sé sia il suo coltello, sia il suo bayard, poteva chiamare il suo lupo in qualsiasi momento e anche Black, nonostante fosse rimasto parcheggiato alla Garrison. Che queste persone pensassero davvero di rapirlo con facilità voleva dire che la persuasione di Dos Santos era più efficiente di quello che pensavano.
    Però Keith alzò le braccia. “Non vi preoccupate,” disse ai bambini, che stavano osservando la scena con gli occhi spalancati, “qualunque cosa succeda il Capitano Shirogane salverà la situazione.”
    Perché quello che a Keith importava non era fare bella figura, ma sapere che Shiro stava guarendo.
    I banditi gli legarono le mani dietro la schiena, gli misero un sacco nero sulla testa e poi lo spinsero a forza nel furgone e partirono. Dal tempo che impiegarono per raggiungere la loro base, Keith ipotizzò che la base in questione non fosse troppo distante dalla città vicina alla Garrison, anzi, probabilmente era all’interno degli edifici ancora ridotti in macerie.
    Keith fu fatto scendere dal furgone, spinto in una stanza, dove venne legato meglio a una sedia, ma gli venne tolto il sacco nero, in tempo per vedere che avevano allestito una specie di sala conferenze per la trasmissione in internet. Un altro grosso errore: Pidge li avrebbe trovati in meno di cinque minuti.
    Evidentemente non avevano paura, perché sistemarono meglio le luci e la telecamera, quindi due uomini armati e mascherati si misero al fianco di Keith, e davanti a lui fu sistemato un datapad da cui poteva leggere una dichiarazione.
    “Vogliamo che tu la legga alla telecamera.”
    “E se non volessi?” domandò Keith.
    “Penso che tu ci tenga alla tua vita.”
    “La vostra dichiarazione è stupida,” gli fece presente Keith. “Nessuno di noi può decidere chi pilota i leoni tranne i leoni stessi. Anche se dovessi dire che rinuncio, anche se tutti i paladini dovessero dirlo, non significherebbe niente. Potrebbero benissimo scegliere un altro Galra, o nessun terrestre. In passato, non c’erano terrestri a pilotare Voltron, adesso ce ne sono tre e mezzo, potete accontentarvi.”
    “Non vogliamo galra di merda o altri alieni su Voltron. Ora leggi.”
    “No.”
    L’uomo alzò la mano, come se fosse pronto a colpirlo, e Keith lo fissò negli occhi come a sfidarlo, ma il colpo non arrivò mai, perché la porta venne buttata giù con un calcio e Shiro e Lance comparvero al di fuori di essa, entrambi con la loro armatura. Da distanza, Lance colpì i due uomini armati, disarmandoli, mentre Shiro balzò in avanti e usò il suo braccio meccanico per far schiantare l’ultimo uomo contro il pavimento.
    “Stai bene?” domandò Shiro, accarezzandogli il viso per controllare che non gli fosse successo nulla.
    “Per favore, la smettiamo?” attirò la loro attenzione Lance. Con una punta di imbarazzo, Shiro slegò le corde che tenevano legato Keith.
    “Come mi avete trovato così in fretta?” domandò Keith.
    “Dall’orfanotrofio ci hanno avvertiti subito e Pidge ha fatto una ricognizione tra i sensori della tua armatura e il furgone mentre entrava in città. Questi erano degli incapaci.”
    “Bizzarro che tu ti sia fatto catturare,” commentò Lance, con una finta presa in giro.
    “Be’, capita anche ai migliori,” disse Keith, e benché non ce ne fosse bisogno lasciò che Shiro lo aiutasse ad alzarsi. “Credo che queste persone siano state spinte a farlo da Dos Santos, o da qualcuno dei suoi. Potremo avere una leva per toglierci il suo fiato dal collo per un po’.”
    “Speriamo,” disse Lance, “vado a controllare gli altri così poi possiamo trasportare tutta la banda alla base.”
    Una volta che se ne fu andato, Keith si voltò sorridendo verso Shiro e disse, “ma tu non eri in congedo?”
    “Tecnicamente ferie pagate, tutte quelle che non ho usufruito in passato,” scherzò Shiro. “Ma pretendevi che non venissi a salvarti?”
    “Se ero tranquillo era proprio perché sapevo che saresti venuto,” rispose Keith. “Ci hai solo messo molto meno di quello che avevo preventivato.”

    La sera, Keith sentì la porta della camera aprirsi, e Shiro comparve sulla soglia. Keith era a letto, il lupo accoccolato in un angolo, stava leggendo un articolo sul datapad. Era una storia dettagliata, creata su misura da Allura, su come Shiro lo avesse eroicamente salvato, dimostrando di essere in possesso di tutte le sue facoltà mentali, per quanto ne dicessero gli altri.
    “Posso dormire con te stasera?”
    “Guarda che questa è camera tua.”
    “Lo so, ma…” E agitò le braccia, per far capire a Keith che intendeva far riferimento all’incidente dell’ultima volta.
    “Quello non è mai stato un problema, per me,” disse Keith. “E poi sono passati più di sei mesi. Non hai mai più avuto un attacco da quando prendi le medicine, no?”
    “No,” confermò Shiro. “Ho smesso un paio di settimane fa, la psicologa ha detto che ero pronto. L’ho informata di quello che è successo oggi, ha detto che è stata una buona conferma che sto bene.”
    “Sono contento per te, Shiro.”
    Si scostò e gli lasciò il posto: Shiro si sdraiò al suo fianco, comunque per sicurezza spense il braccio meccanico, e poi si accoccolò contro la sua schiena, un braccio attorno alla sua vita e la testa appoggiata contro i suoi capelli. Keith allungò il braccio per spegnere la luce.
    Per un po’, nella stanza non si sentì altro rumore che i loro fiati leggeri, ma da quella vicinanza Keith poteva avvertire il battito del cuore di Shiro e il fiato caldo che gli solleticava il collo. Poi Shiro si mosse leggermente.
    “Dimmi, Keith,” sussurrò all’orecchio di Keith. “Ti sei fatto catturare apposta per farti salvare da me?”
    Keith trattenne il fiato per un secondo, non era bravo a mentire. “Sì. Volevo che sapessi che non ho mai dubitato che l’avresti fatto. Tu non hai problemi mentali, Shiro, e non se la debolezza di nessuno.”
    Shiro si accoccolò di più contro di lui. “Grazie,” disse solo, e poi crollò in un sonno profondo, il sonno di chi ha finalmente trovato un po’ di pace. Anche Keith immaginò che avrebbe dormito bene come non aveva fatto da mesi.
  9. .
    Capitolo 1

    La prima volta che Shiro incontrò Keith, lui era dall’altra parte del vetro di una sala interrogatori.
    “Quello è un pezzo grosso,” gli aveva sussurrato Matt, passandogli il fascicolo, e Iverson stesso aveva chiesto a Shiro di essere lui a interrogarlo, in quanto “trattasi di un osso duro”.
    Ma la realtà era che non c’era assolutamente niente nel fascicolo su Keith Kogane, solo tonnellate e tonnellate di illazioni che lo mettevano al centro di droga, prostituzione, omicidi e altri crimini generali compiuti dalla malavita locale che imperversava per le strade di Garrison. Ma di prove, non ce n’era nemmeno mezza, a parte la certezza che Keith appartenesse alla mafia, che purtroppo di sé non era un reato, avere dei parenti che erano stati arrestati.
    Dopotutto, lo stesso arresto di Keith era stato fatto per eccesso di velocità su una moto rossa fiammante (una moto che Shiro si era ritrovato a invidiare particolarmente) e non certo per uno qualsiasi dei reati che senza prove gli venivano attributi nel fascicolo. Sarebbe stato fuori non appena pagata la multa, a meno che non confessasse, o che riuscissero a incastrarlo in qualche modo.
    Shiro lo osservò dal vetro: indossava una camicia rossa sotto un completo nero, e in quel modo aveva un aspetto elegante ma allo stesso modo un attimino pericoloso. Era un bell’uomo, con capelli neri tenuti leggermente lunghi, e profondi occhi azzurro su un viso delicato. Eppure gli occhi erano duri, dimostrando che era un uomo che sapeva affrontare la vita dura che gli veniva messa davanti. Durante l’arresto aveva subito un leggero infortunio, e i livido rosso sulla guancia gli dava un’aria da bad boy.
    Con un ultimo sospiro, Shiro si tolse la giacca, appese alla cintura il distintivo in bella vista ed entrò: Keith Kogane non era ammanettato, ma Shiro pensava che non avrebbe tentato nulla, e difatti non si mosse nemmeno dalla sedia, semplicemente tirando a Shiro un’occhiata curiosa.
    “Sono il Detective Shirogane,” si presentò.
    “Ah,” disse Keith, e lo scrutò con attenzione. Poi un sorriso si formò sul suo volto. “Sono forse accusato di qualcosa?”
    “Per ora no, a parte per eccesso di velocità,” disse Shiro appoggiando il faldone sul tavolino. “Ma vorrei farti alcune domande, se non ti dispiace.”
    “Prego, almeno mi aiuteranno a passare il tempo.”
    Shiro estrasse tre foto: erano tre negozianti che erano stati uccisi per non aver pagato il pizzo, un colpo di pistola alla nuca, tipica esecuzione pulita. Le sistemò in fronte a Keith.
    “Hai mai visto queste persone?”
    “No.”
    “Sei sicuro? Secondo i testimoni, tu eri attorno a quella zona quando sono stati uccisi.”
    “Quando è successo?” domandò allora Keith.
    “Due settimane fa, un venerdì sera. Il quartiere di Taujeri.”
    “Vado spesso in quel quartiere, c’è il mio meccanico di fiducia. Hunk Garrett. Potete controllare.”
    “Lo faremo,” annuì Shiro. Poi estrasse un’altra fotografia: questa volta il corpo era orribilmente mutilato, la faccia era stata colpita ripetutamente con un oggetto contundente che aveva completamente alterato i tratti facciali, e le dita di entrambe le mani risultavano rotte e piegate in una maniera innaturale. Al vedere quella foto, Keith fece una smorfia di stizza, e Shiro pensò che sembrava quasi autentica.
    “Sai qualcosa di questo?”
    “Mi dispiace, non si vede nemmeno il viso di questo poveraccio. Sapete chi è?”
    “No, speravamo ce lo dicessi tu.” Estrasse un altro foglio. “Aveva questo in tasca.” Era la fotocopia di un biglietto da visita, con scritto Keith Kogane, un numero di telefono usa e getta e il simbolo di un serpente su un lato.
    “C’erano le mie impronte sopra?” domandò immediatamente Keith.
    “No. Non abbiamo identificato le impronte di nessuno.”
    Keith annuì. “Qualche tempo fa lasciavo il mio biglietto da visita in giro per i negozi, a mucchietti, a disposizione di chiunque fosse interessato. Posso provare a fare una lista, magari la vittima è passata per uno di questi posti?”
    “Che lavoro fa, signor Kogane?”
    “Sono un tuttofare,” rispose Keith con un’alzata di spalle. “A volte la gente ha bisogno di una mano… e io gliela do. Tutto qui.”
    “Dà una mano alla gente anche a commettere degli omicidi?” domandò Shiro, incalzandolo. “È un nome in codice per killer di professione?”
    “Mi pare che il mio biglietto da visita lo avesse la vittima, non l’assassino,” rispose Keith calmo.
    L’interrogatorio continuò per un po’, curiosamente Keith non chiese mai un avvocato, non perse mai la calma, si limitò a continuare a rispondere alle domande di Shiro, e allo stesso tempo ne poneva alcune, che qualche volta a Shiro sembravano sincere.
    Poi Iverson bussò alla porta della sala interrogatori, e Shiro uscì in tutta fretta per andare a vedere che cosa volesse. “Purtroppo non ho niente in mano,” gli comunicò.
    “Ho sentito,” annuì Iverson. “Fai così, spaventalo un attimo, e poi lo lasciamo andare. Proveremo a mettergli qualcuno alle calcagna quando uscirà di qui.”
    Shiro annuì e rientrò nella stanza. “Problemi?” domandò Keith, e c’era un sorriso furbo sul suo volto.
    “No,” disse Shiro spiccio. Raccolse tutte le fotografie e i fogli che aveva mostrato a Keith e li ripose nuovamente nella sua cartella. “Io non so come fai, ma so che c’entri con almeno metà di questi casi. Per questo ti dico: ti beccherò, prima o poi. Guardati alle spalle, perché io sarò dietro di te.”
    “Preferirei davanti,” disse Keith, e senza che Shiro se ne rendesse conto Keith l’aveva afferrato per la cravatta e lo aveva tirato verso il tavolino, ma non era stata un’azione malevola. Keith gli tenne la giacca il tempo necessario per baciarlo, labbra contro labbra.
    “Alla prossima, Detective,” disse alzandosi e lasciando la stanza.
    La coppia di poliziotti a cui Iverson aveva chiesto di sorvegliarlo non appena era uscito dal commissariato lo persero d’occhio due isolati dopo, e di lui si persero del tutto le tracce per diverso tempo. Ma Shiro non scordò mai quella cartella, né quell’incontro, né quel bacio.

    La seconda volta che Shiro incontrò Keith fu un puro caso. Shiro era passato nel quartiere degli Olkari a interrogare un sospettato per un caso, poi aveva chiesto a Matt di tornare in commissariato da solo, perché c’era qualcosa in testa sul caso che non riusciva a mettere a fuoco, e di solito camminare e rinfrancare un po’ il corpo invece di chiudersi e sedersi alla scrivania lo aiutava a ragionare meglio sulle questioni.
    Così, mentre camminava per il marciapiede in maniera casuale, vide Keith attraversare la strada in maniera circospetta. Non indossava più la camicia rossa che lo contraddistingueva, ma un normale completo nero, come qualsiasi businessman della city. Si guardava intorno con aria circospetta, e senza nemmeno pensarci Shiro si nascose dietro una macchina in modo che non lo vedesse.
    Lo seguì mentre sgusciava tra una sbarra e l’altra di un vecchio cancello arrugginito. Shiro attese qualche minuto, quindi procedette a seguirlo. Si ritrovò all’interno del giardino di una vecchia villa, che a parte quel cancello di ferro arrugginito, era completamente nascosta alla vista da alte mura scrostate. Il giardino era ormai ridotto a una foresta, con l’erba che arrivava quasi all’altezza della vita di Shiro.
    Anche la villa stessa sembrava abbandonata: i muri erano scoloriti, in molti punti l’intonaco era caduto rivelando dei mattoni rossi sottostanti, e la maggior parte delle finestre al piano superiore erano aperte, con i vetri completamente caduti e gli infissi di legno marci. Eppure, la porta d’ingresso, sebbene vecchia, era chiusa a chiave, e le finestre ai piani inferiori erano chiuse e con vetri perfettamente intatti, il che era sospetto.
    Shiro fece un giro attorno alla villa e individuò una finestra aperta, con il vetro che era stato spaccato apposta per entrare. Se fosse stato uno dei nascondigli segreti di Keith, avrebbe forse scassinato la finestra per entrare? Improbabile. Shiro balzò sopra e entrò nella villa: l’interno a livello estetico non era ridotto molto meglio, le pareti andavano imbiancate e avevano sicuramente visto giorni migliori. Eppure l’area era troppo pulita per una villa abbandonata, sembrava essere stata pulita di fresco.
    Raggiunse poi una sala, che aveva delle sedie e un tavolino che erano chiaramente stati portati lì da poco, per cui doveva essere il covo segreto di qualcuno. Shiro sapeva che da parte sua era illegale stare dentro, per cui decise di tornare indietro e chiamare Iverson per farsi mandare un mandato, o almeno la richiesta di sorvegliare la villa. Aveva fatto un passo al di fuori della stanza, quando si sentì tirare per un braccio e spingere dentro una saletta laterale.
    “Fermati subito-” cercò di protestare, mentre con la mano tentava di raggiungere la sua pistola, ma Keith lo sbatté contro la parete e lo tenne fermò con una mano sulla sua bocca.
    “Shh,” gli disse, “o ci scopriranno.”
    Chi ci scoprirà, avrebbe voluto chiedere Shiro, ma in quel momento sentì dei rumori provenire dall’altra parte della porta, che era rimasta socchiusa e da cui penetrava un sottile raggio di sole. Era una porta che si apriva, rumore di passi (almeno quattro persone, contò Shiro) che entravano, le sedie che venivano spostate, qualcosa che veniva sbattuto e trascinato, rumori soffocati.
    Guardò Keith interrogativo, e allora lui, che aveva sempre una mano sulla bocca di Shiro, e un’altra sulla sua, scosse appena la testa. Non era ancora il momento di muoversi.
    “Va bene, gente,” disse una voce, “non ho tempo da perdere e mi sono già rotto il cazzo.”
    “Io non so niente, lo giuro, niente!” gridò un’altra voce, supplicante e piangente.
    “E già partiamo malissimo,” rispose l’altra voce. “Avanti.”
    “No, no, no, no, per favore!” E poi le suppliche si tramutarono in un lungo grido di dolore.
    Solo in quel momento Keith levò la mano dalla bocca di Shiro e gli fece cenno di avvicinarsi alla porta, il suono del grido che coprì i loro due passi mentre cercavano di sbirciare entrambi dalla fessura della porta. Fortunatamente, dalla posizione in cui erano Shiro dubitava che gli uomini nell’altra stanza li potessero vedere, ma trattenne comunque il fiato e spostò la mano sulla pistola.
    C’erano, come aveva preventivato, quattro uomini nella stanza, due dei quali tenevano un quinto premuto con la schiena sul tavolino, le braccia davanti a lui, i piedi legati a terra. Un altro sorvegliava la porta, mentre un altro, quello che aveva parlato fino a quel momento, stava di fronte al prigioniero, il quale aveva un coltello conficcato nella mano, che gliela teneva bloccata sul tavolino.
    L’uomo piangeva, e Shiro digrignò i denti, ma sentì la presa di Keith sul suo braccio e tentò di calmarsi. Ormai era troppo tardi per chiamare i rinforzi.
    “Una mano è andata,” disse l’uomo. “Ha ancora l’altra, e tutte le dita, per ora. Ma non a lungo. Adesso rispondi alla mia domanda: dove si trova Lotor?”
    “Non lo so… non me lo ha detto…”
    “Non è una risposta accettabile.” Estrasse dalla tasca un altro coltello e senza preavviso lo ficcò nel suo dito mignolo: anche da quella posizione Shiro poté notare il dito che si staccava e il sangue che si spruzzava attorno. “Meno uno,” disse l’uomo con calma, lasciando che il prigioniero continuasse a piangere, mentre ripuliva il coltello dal sangue sulla giacca dello stesso prigioniero.
    “Non lo so dov’è Lotor, lo giuro… lui si fida solo dei suoi generali… forse i Marmora potrebbero saperlo…”
    “I Marmora, eh?” L’uomo sembrò finalmente soddisfatto. “E che cosa sai dei Marmora?”
    “Non so niente,” disse l’uomo. “So solo che Lotor doveva incontrarli, non so dove, né quando. Ne ha solo parlato. Non so nemmeno chi.”
    Il coltello affondò ancora una volta, e a saltare fu il dito indice, e un altro grido si levò per l’intera villa, risuonando nei corridoi vuoti. A quel punto, Shiro non ce la fece più: erano solo quattro uomini, per quanto armati. Gli era capitato di battersi con più persone.
    Si liberò dalla presa di Keith, nonostante questi tentasse di fermarlo, e spalancò la porta. “Fermi, polizia!”
    La sorpresa fu sufficiente a Shiro per gambizzare i due uomini che tenevano prigioniero l’uomo da torturare, i quali caddero a terra afferrandosi la gamba ferita con le mani, poi passò all’altro uomo, quello che sorvegliava la porta, che però era praticamente già scappato.
    Rimase solo l’uomo che probabilmente era il capo, mentre il prigioniero era rimasto fermo, la mano stretta nel coltello che lo teneva fermo, singhiozzando leggermente. Shiro fece qualche passo avanti, sempre tenendo sotto mira l’uomo.
    “Metti giù il coltello.”
    L’uomo non sembrò essere minimamente scalfito dalla presenza di Shiro nella zona. Guardò con un misto di disgusto i suoi uomini che si lamentavano a terra, poi riportò lo sguardo su Shiro.
    “Non mi piace essere interrotto mentre conduco un interrogatorio,” disse, “ma penso che per il Campione potrei fare un’eccezione.”
    Shiro digrignò i denti appena. Fuori dalla polizia, erano in pochissimi a conoscere i trascorsi che avevano portato Shiro a perdere un braccio e alla cicatrice sul viso, e all’esterno gli unici che potevano saperlo erano quelli che avevano contributo a procurarglieli. Naturalmente, Shiro dava loro la caccia, ma la sua PTSD gli aveva fatto perdere molti ricordi di quel periodo.
    “Deduco dalla tua espressione che tu di sia dimenticato di me,” continuò l’uomo. “Sono molto deluso, Campione.”
    Ma c’era un modo di fare nei suoi gesti, un modo di dire quel nome che fece affiorare qualche ricordo alla mente confusa di Shiro, e lui si ritrovò a paralizzarsi per un attimo, quanto fu sufficiente per l’uomo a lanciare il suo coltello. Shiro riuscì a scostarsi appena in tempo, e si ritrovò con un taglio sulla fronte che iniziò a sanguinare copiosamente.
    Il dolore lo accecò per un attimo, e l’uomo fu su di lui, artigliandogli la mano che teneva la pistola. Shiro tentò di colpirlo con un pugno, ma la faccia dell’uomo sembrava di marmo. Poi l’uomo gli tirò una testata, e Shiro perse la presa sull’arma, strisciò per recuperarla ma l’uomo fu più rapido, in un attimo era su di lui, la pistola alzata, e Shiro era tenuto a terra per le gambe, faccia a terra. Fece per scostarsi e poi sentì una serie di spari in successione.
    Il peso sparì dalle sue gambe e immediatamente Shiro si alzò per difendersi, e vide Keith che tentava di disarmare l’uomo, la pistola che era però ancora saldamente nelle sue mani. Allora Shiro si guardò intorno e ritrovò il coltello che gli era stato lanciato in precedenza. Lo prese e lo conficcò nella gamba dell’uomo, che per il dolore e per lo spavento gridò e lasciò cadere l’arma.
    Keith la prese immediatamente, ma poi afferrò Shiro e lo trascinò verso la finestra. “Dobbiamo andare, cosa credi, l’uomo che è scappato sarà andato a chiamare i rinforzi.”
    “Non vi farò scappare!” gridò l’uomo, che si era appena tolto il coltello dalla gamba e ora zampettava di nuovo verso la stanza, cercando di prendere una delle pistole dei suoi uomini. Con rabbia, Shiro seguì Keith all’esterno. Si accucciarono tra l’erba verde e alta proprio mentre nel vialetto entravano altri cinque uomini armati e proseguivano verso la villa.
    “Ora, prima che ci scoprano,” ordinò Keith, e si precipitò fuori seguito da Shiro. Si sentivano delle grida nella villa, e Shiro su stupito nel vedere che non c’erano persone attirate dalla situazione. Keith ruppe con il gomito il finestrino di un’auto parcheggiata giusto lì fuori, aprì la portiera, la attivò con i cavi.
    “Guida tu, per favore,” disse a Shiro.
    Lui stava per protestare, ma poi sentì le voci degli uomini e obbedì. Keith saltò a bordo al suo fianco e sfrecciarono via nella strada deserta. Una volta che Shiro fu abbastanza sicuro che se ne fossero andati prima che avessero potuto seguirli, disse, “chi era quella gente? Il nome di Lotor mi è familiare, ma…”
    Non ricevette risposta da Keith, quindi, appena arrivati al semaforo si voltò e vide che Keith si era accasciato sul sedile, la testa leggermente piegata di lato, e aveva fatto cadere dall’auto la pistola di Shiro che aveva portato con sé. Avrebbe potuto sembrare addormentato, se non fosse stato per la macchia rossa di sangue che gli si stava allargando sulla camicia.
    Shiro sbiancò, e parcheggiò immediatamente per dargli un’occhiata rapida: gli slacciò la camicia e verificò che i proiettili non avessero colpito punti vitali, ma stava perdendo molto sangue. Shiro si tolse la sua giacca e, con le due giacche arrotolate, cercò di fare pressione. Poi riprese a guidare con le mani insanguinate, e la sua mente prese immediatamente una strada che non era quella dell’ospedale.
    Non poteva portare Keith all’ospedale, col rischio che trovassero il modo di arrestarlo, dopo che gli aveva salvato la vita. Così, andò a casa di suo fratello Ryou.
    Abitava in un quartiere mezzo deserto e malfamato di periferia, e spesso esercitava la sua professione di medico a pagamento illegalmente, proprio per questo genere di situazioni. In quel quartiere nessuno avrebbe fatto caso a un’auto con il volante e uno dei sedili completamente insanguinati. La parcheggiò comunque a un centinaio di metri dalla casa di Ryou, poi prese Keith ancora svenuto fra le braccia e andò a suonare al campanello, con insistenza.
    “Sto arrivando!” venne la voce scocciata di Ryou dall’interno. “Si può sapere chi oh!” si bloccò, appena vide Shiro.
    Non aveva idea se la sorpresa di Ryou fosse per la sua stessa presenza o per il fatto che avesse un ragazzo svenuto fra le braccia, ma non era il momento di farsi quelle domande. “Per favore, aiutami. È stato ferito nel tentativo di difendermi.”
    Ryou era un uomo di poche parole e molti fatti: si scosto per farli entrare, poi chiuse la porta alle sue spalle. “Appoggialo lì sul divano,” ordinò, mentre andava a prendere i suoi strumenti e i guanti. Shiro osservò con attenzione, mentre Ryou toglieva la giacca a Keith e esaminava le ferite, che avevano ripreso a sanguinare copiosamente.
    “Metti su l’acqua,” ordinò di nuovo a Shiro, “e in camera da letto procurami delle pezze bianche pulite.”
    Continuarono così, con Ryou che dava ordini secchi e decisi e Shiro che gli obbediva, finché non ebbe estratto i tre proiettili dalla spalla di Keith, non ebbe cicatrizzato i fori dei proiettili con il filo e ebbe fasciato la ferita completamente.
    “Starò bene,” assicurò infine a Shiro, togliendosi i guanti e concedendosi uno stanco sospiro. “Dovrà stare a riposo parecchio per il sangue che ha perso, ma nessuna delle ferite era mortali, altrimenti non avrei potuto farci niente nemmeno io.”
    “Grazie mille, Kuro.”
    Ryou sorrise. “In che guaio ti sei cacciato questa volta, Takashi?”
    “Ci credi che non ne sono sicuro nemmeno io?” Poi guardò il viso addormentato di Keith, che sembrava più pacifico rispetto a prima. “So solo che ci sono un sacco di cose che non sappiamo sulla mafia, e che nonostante sia un mafioso Keith mi ha salvato la vita.”
    “Già, così mi hai detto.” Ryou gli toccò delicatamente il viso e lo alzò, per osservare la ferita che Shiro aveva alla fronte. “Devi disinfettare anche questa.”
    “È solo un graffio.”
    “Il medico sono io. Adesso ti disinfetti e poi vai a dormire. Non c’è altro che possiamo fare adesso.”

    Keith si svegliò un paio di giorni dopo, confuso, tornò a dormire. Il terzo giorno fu abbastanza lucido da muovere la testa, e individuare i due fratelli che lo vegliavano dalle sedie accanto al suo letto.
    Tossì. “Due Detective Shirogane?” disse. “Sto ancora sognando?”
    “Questo è mio fratello Ryou,” gli disse Shiro. “Mi ha aiutato a rimetterti in sesto.”
    Keith sorrise. “Grazie per non avermi portato in ospedale.”
    Non era la prima cosa che Shiro si aspettava da lui, ma sorrise un attimo imbarazzato. Ryou si alzò. “Voi due avete un po’ di cose da dirvi, e Keith presto avrà fame, quindi vado a preparare qualcosa.”
    Una volta che Ryou fu uscito dalla stanza, Shiro si fece più vicino con la sua sedia, e Keith provò ad alzarsi un pochino più diritto, ma Shiro lo fermò con la mano e lo costrinse a sdraiarsi di nuovo sul letto.
    “Rilassati, sei al sicuro qui,” e poi aggiunse, “grazie per avermi salvato.”
    Keith lo guardò con i grandi occhi blu. “Io penso che tu sia una brava persona, Detective. Non penso meritassi di morire, anche se quello è stato stupido. Altruista, però. Parte del tuo fascino.”
    “Non credo alla fine di essere riuscito a salvare quel poveretto,” disse Shiro.
    “No, Sendak probabilmente avrò terminato il suo interrogatorio da un’altra parte e poi l’avrà ammazzato a fatto a pezzi, quello è il suo stile.” Tacque un attimo. “Ti ricordi quella foto che mi hai mostrato, con la vittima terribilmente sfigurata e le dita rotte? Sono convinto che sia opera di Sendak anche quella. Ma, se ti può consolare,” aggiunse, “molte delle vittime di Sendak sono mafiosi, rivali suoi, ma pur sempre gente che forse non meritava di essere salvata.”
    “Tu non meritavi di essere salvato?” domandò Shiro.
    “Forse no,” disse Keith, volgendo lo sguardo dall’altra parte.
    “Che cos’è successo veramente in quella stanza, Keith? Che cosa sta succedendo?”
    “Anche se lo sapessi, non credo che cambierebbe qualcosa, Detective.”
    “Per me forse sì.”
    Keith sospirò. “C’è una faida in corso fra due gang rivali, che cercano di prendere il controllo della città. Una è comandata da Sendak, il simpatico torturatore che hai visto nella stanza, l’altro è Lotor, uno che è ammanicato con la politica e gioca sporco, almeno per i dettami della mafia. È uno che invece di ammazzarti cerca di farti arrestare.”
    “Non so perché ma tenderei ad essere più dalla parte di questo Lotor,” sorrise Shiro. “Tu invece da che parte sei?”
    “Nessuna,” disse Keith. “Io cerco di arrabattarmi e sopravvivere, e cercare di far sopravvivere anche la mia famiglia nel frattempo. Non ho scelto io questa vita, ma ci sono immerso fino al collo e non posso farci più niente ormai.”
    “Non credo sia vero,” rispose subito Shiro. “C’è sempre una via d’uscita, se non vuoi fare questa vita. Io posso aiutarti-”
    “Se parlassi, comunque mi beccherei degli anni di galera, e finirei ammazzato nelle docce alla prima occasione.”
    “Potrei farti entrare nel programma di protezione testimoni.”
    “Non voglio scappare per tutta la vita.” Keith fece una smorfia. “Io ti ringrazio, detective, per tutto, ma guarda che quel bacio non significava davvero niente.” Si voltò dall’altra parte. “Adesso voglio riposarmi. E poi voglio tornare a casa.”

    Inutile dire che Shiro non si diede pace, né per quello che era successo, né per quella conversazione. Passò il tempo sul lavoro, cercando di concentrarsi, ma odiava quella sua debolezza, e poi anche il fatto che era tornato alla villa e l’aveva trovata completamente vuota e linda gli aveva lasciato dentro di sé un senso di impotenza totale, come se il mondo girasse attorno a lui senza che lui avesse veramente una presa sugli eventi.
    Esattamente come quando era prigioniero.
    Tornò dalla psicologa.
    Doveva capire chi era Sendak e perché lo conosceva, così si affidò a una cura che aveva sempre avuto paura a fare, quella della ipnosi. Si buttò tutto in quello, e prese a rivivere molti ricordi del suo passato, del periodo della prigionia. La maggior parte delle visioni finiva nel sangue, il sangue che lui stesso aveva versato e che gli impiastricciava i capelli e le mani e i vestiti e lo faceva svegliare urlando la notte.
    E in una di queste visioni, alla fine, vide anche Sendak.
    Shiro era ancora prigioniero, legato con lunghe catene ai polsi che lo tenevano sollevato da terra qualche centimetro. Era passato un po’ di tempo dall’ultima lotta, per cui la maggior parte delle ferite di Shiro, sul suo petto nudo, si era cicatrizzata. Shiro respirava a fatica per la difficoltà a mantenere quella posizione, sentiva i muscoli delle braccia che gli dolevano e temeva che si spezzassero e staccassero dalle spalle.
    “Lo sai,” disse Sendak, mentre camminava davanti a lui e giochicchiava col suo coltello. “Io ti ammiro davvero molto, Campione. Sei così feroce nell’arena, così temibile. Saresti un socio perfetto, ma purtroppo sei un poliziotto. E purtroppo Lotor ha messo gli occhi su di te, vuole usarti per farmi crollare e cadere.”
    “Non so nemmeno chi sia Lotor.”
    “E non dovrai mai saperlo,” ribatté Sendak. “Io avrei scommesso su di te, nella battaglia di domani, ma adesso non posso più permettermelo. Devi perdere, e morire.”
    Shiro sorrise leggermente. “Non te lo posso garantire.”
    “Lo so, per questo devo farlo da solo.”
    Senza preavviso, Sendak gli ficcò il coltello nel braccio destro. Shiro urlò, e cercò di agitarsi nei suoi legacci, e di allontanare Sendak tirandogli dei calci, ma Sendak sembrava non sentirli nemmeno. Continuò ad affondare il coltello nella carne di Shiro ripetutamente, fino a strappargli la carne, il sangue che scendeva a fiotti e il dolore che si faceva sempre più intenso, l’osso che veniva scheggiato coltellata dopo coltellata.
    Poi, all’improvviso, Sendak smise e per un attimo sembrò che il mondo si fosse fermato. Poi la forza di gravità fece il resto e l’osso, già compromesso, si spezzò e Shiro si ritrovò appeso solo per uno, con un dolore diverso ma sempre intenso da ambo le parti.
    “Se sopravvivrai a questo, morirai comunque domani nell’arena.”
    Invece Shiro era sopravvissuto, in entrambe le occasioni. E adesso sapeva chi era Sendak, e che cosa gli aveva fatto.

    La prima cosa che fece dopo la seduta, fu andare a cercare la casa di Keith. Scoprì che viveva nel quartiere residenziale della città, ben lontano dalla violenza delle gang e dalle strade che la mafia controllava, in una grande villa che abitava da solo, senza nemmeno un servitore. Era una villa dei tempi antichi, con le grandi stanze, gli arazzi, gli affreschi. Al contrario di Shiro, Keith non sembrava impressionato da tutto quello sfarzo.
    Aveva accolto con sorpresa l’arrivo di Shiro, ma lo aveva fatto entrare con espressione neutra e poi lo aveva fatto accomodare in uno dei salotti, senza nemmeno offrirgli del tè o dei biscotti, come Shiro si sarebbe aspettato vista l’atmosfera da palazzo reale.
    “Che cosa posso fare per te, Detective Shirogane?” chiese Keith stancamente. Aveva addosso di nuovo la camicia rossa, per cui Shiro non poteva vedere se era ancora bendato sulla spalla.
    “Ho deciso di andare sotto copertura,” affermò Shiro. “Non è ancora definitivo, Iverson sta spingendo in questa direzione ma visti i miei… trascorsi, alcuni in comando non sono molto favorevoli. Ma io voglio farlo. Ho scoperto quello che Sendak mi ha fatto, e devo fermarlo.
    “Non mi sarei aspettato niente di diverso da te,” replicò Keith in tono neutro. “Ma perché lo stai dicendo a me?”
    “Voglio che sia tu a introdurmi nell’ambiente,” disse Shiro.
    “Assolutamente no.”
    “Perché no?”
    “Non voglio averti sulla coscienza.”
    “Sono sopravvissuto all’arena a lungo, e pure senza un braccio. Solo perché mi hai salvato una volta, non credere che io abbia bisogno della tua protezione,” gli fece presente Shiro. “la questione è questa: io lo farò in ogni caso, tu puoi decidere di darmi una mano, cosa per cui te ne sarò grato, oppure non farlo, ma io sarò lì a battermi contro Sendak comunque, e forse dovrai salvarmi il culo ancora e ancora, per cui magari vorresti farlo con un po’ più di consapevolezza.”
    Keith sorrise. “Non riuscirò a farti cambiare idea, vero?”
    “Assolutamente no.”
    “E va bene, Keith sospirò, “lo faccio. Ma a una condizione, che se ti dico che una cosa è pericolosa, tu non la farai.”
    “A meno che non sia in pericolo la vita di qualcuno.”
    “Anche se questo qualcuno è un criminale?”
    “Sì.”
    Keith scosse la testa. “Sei tremendo.” Ma poi sorrise. “io in tutto questo che ci guadagno?”
    “Non parlerò di te in alcun modo, né nelle mie testimonianze né nei miei rapporti. Mi interessa solo Sendak e, se ci dovessimo riuscire, anche Lotor.”
    “Hai detto niente.” Keith si alzò e si mosse nella stanza. “Ma non mi basta, come cosa. Sto rischiando la pelle mia e dei miei uomini, a portarti dentro.”
    “Prova a chiedermi qualcosa, se posso te la darò.”
    Keith guardò fuori dalla finestra. Poi, con passo lento, camminò verso Shiro, si posizionò dietro di lui e gli prese la cravatta, gliela slacciò lentamente. Shiro non si mosse mentre Keith gli sbottonava la camicia e introduceva le mani ad accarezzargli il petto.
    “Voglio te,” disse con voce sensuale. “Ti spacceremo per il mio amante, tanto mi hanno sempre dato del frocio fin dall’inizio, e non avevano nemmeno torto. Sarà una scusa perfetta, ma io sono un perfezionista e dovremo essere molto realistici in questo.”
    Voltò il viso di Shiro verso di lui e lo baciò, questa volta prendendosi più tempo per assaporarlo. Shiro non si sottrasse, ma non ricambiò nemmeno, aspettando che finisse.
    “E’ davvero questo che vuoi?” gli chiese alla fine. Non voleva che fosse solo un’altra scusa di Keith per cercare di tirarsi indietro dal loro accordo.
    “Sì. Voglio divertirmi un po’ prima di morire.”
    “Allora va bene, sarò il tuo amante. Non mi pare un compito così difficile, tu sei veramente un figo.”
    E per la prima volta da quando quella conversazione era iniziata, Keith arrossì e si trovò in difficoltà. Tossì appena, per riprendersi dall’imbarazzo.
    “Molto bene, allora, abbiamo un accordo.”
    Poi prese Shiro per il braccio e lo trascinò via, per le stanze di quella villa enorme e vuota, e Shiro pensò che forse Keith non voleva un amante, ma un amico, e Shiro poteva in un certo senso essere entrambi. Sentì il calore della sua mano da sotto e senza volerlo sorrise. Keith lo trascinò fino a quella che doveva essere la stanza da letto di Keith, un enorme camerone con il soffitto molto alto, e nessun altro oggetto o soprammobile che contraddistingueva la presenza di Keith all’interno. C’era solo un letto, molto ampio, più ampio di quanto Shiro avesse mai visto, con una lunga coperta blu, che il sole che penetrava dalle enormi finestrone illuminava, in modo che proiettasse ombre malevole sull’intera stanza.
    Keith si voltò verso di lui, sorrise, lo spinse schiena contro il letto, slacciò i bottoni della sua camicia, e fece per toglierla.
    “Io riscuoto il pagamento in anticipo.”
  10. .
    Era vero che Shiro considerava la sua vita noiosa, ora che aveva rinunciato al servizio attivo e che il suo lavoro alla Garrison si esauriva nell'essere un insegnante e il, più delle volte, il poster boy per il recrutamento. Ma era anche vero che essere rapito dagli alieni non era esattamente quello che aveva chiesto per liberarsi un po' dalla noia della routine.
    Non aveva nemmeno capito come potesse essere successo.
    Un momento prima si stava dirigendo alla caffetteria della Garrison per prendersi un milkshake cioccolato e panna (cosa per cui Adam lo avrebbe sgridato poi, perché non voleva che andasse in giro da solo, ma ne sarebbe valsa la pena), un momento dopo si era risvegliato all'interno di quella che pareva una cassa da morto, per quanto ipertecnologica, e per un attimo aveva temuto di aver avuto un infarto improvviso in caffetteria e di essere stato dato per morto.
    Solo la sua autodisciplina gli aveva permesso di tenere l'ansia sotto controllo e di rendersi conto che benché si trovasse in un luogo chiuso e stretto, l'aria passava senza problemi. Solo allora aveva provato a farsi sentire e a battere contro il coperchio della bara. Ma quando questo era stato aperto, Shiro si era trovato al cospetto di alieni dalla pelle viola e pelosa, che avevano sentinelle robot al loro servizio, e che lo chiamavano Paladino. Era come essere finiti in un brutto film di serie Z.
    Ora, nella cella dov'era stato rinchiuso, Shiro osservava le pareti metalliche e la soffusa luce viola, e si osservava il corpo: era sparito lo stimolatore muscolare (per fortuna il dolore al braccio era al momento sopportabile) e al posto della sua uniforme stava ora indossando una armatura con uno strano simbolo sul petto. Era anche bella, Shiro pensò, ma avrebbe voluto capire chi o perché gliel'avesse messa.
    Poi la porta della cella si aprí e una figura venne spinta all'interno. Indossava, Shiro notò subito, la sua stessa tipologia di armatura, ma di un diverso colore, il rosso, e aveva anche un elmetto in testa che ne nascondeva in parte la fisionomia. Ma quando la figura alzò la testa e Shiro poté guardarla in faccia attraverso la visiera in vetro, ebbe la seconda sorpresa della giornata.
    "Keith..."
    Improvvisamente, la sua presenza rassicurò Shiro.
    "Shiro! Stai bene-" E poi Keith si bloccò, lo guardò in viso con un'espressione sorpresa e incredula.
    "Ho qualcosa in faccia?" Chiese Shiro, con una risatina per stemperare l'attenzione.
    "No," rispose Keith, serio, che a volte mancava di senso dell'umorismo. Prese la mano destra di Shiro, coperta dal guanto dell'armatura, e la toccò e palpò con attenzione.
    "Sto bene," gli disse Shiro, quasi stupito da quella preoccupazione che era più tipica di Adam. "Di recente non ho avuto peggioramenti, posso stare qualche ora senza lo stimolatore senza avere degli spasmi."
    Keith tornò a guardarlo perplesso, ma annuí e gli lasciò il braccio.
    "Tu sai cosa sta succedendo, Keith?" Chiese Shiro allora. "L'ultimo ricordo che ho è della caffetteria della Garrison, ed era tutto normale. Siamo stati davvero attaccati dagli alieni? E gli altri? E Adam?"
    "Adam? La Garrrison?" Keith sembrò ancora più confuso, ma poi scosse la testa. "Parleremo dopo. Adesso dobbiamo uscire da qui."
    "Va bene. Qualche idea?"
    La porta della cella si aprí sibilando, e comparvero uno degli alieni viola e due sentinelle robot. Keith si frappose fra loro e Shiro, in posizione di difesa.
    "Uscite, il comandante vuole vedervi."
    Keith annuí, e fece come gli era stato ordinato. Ma quando fu sulla soglia della porta, due luci sulla sua gamba si illuminarono, e una spada comparve nella sua mano destra: perforò il petto di una delle due sentinelle, poi girò su se stesso per usare il corpo come scudo, e dopo lo lanciò contro l'alieno. Tagliò a metà la seconda sentinella, mentre uno scudo che sembrava un campo di forza gli comparve sul braccio sinistro, e con un altro calcio mise fuori combattimento definitivamente l'alieno.
    "Dove hai imparato a farlo?"
    Keith non rispose, passò lo sguardo fra le sentinelle cadute e Shiro, quindi disse, "usa questa per ora." Passò a Shiro la sua spada, che nelle sue mani si trasformò, rimanendo sempre una spada ma di forma diversa. Per sé Keith prese una delle pistole delle sentinelle. "Andiamo."
    Seguirono il corridoio, Keith sapeva evidentemente dove andare e Shiro lo seguí con circospezione, imparando che anche dalla sua armatura poteva far comparire uno scudo. Nel corso della loro fuga dovettero affrontare altri alieni, per la maggior parte se ne occupò Keith ma Shiro pensò che aveva dato il suo contributo, per quanto non sapesse bene che cosa stava facendo, ma si trovava a suo agio con quella spada in mano. E suo malgrado, sorrise, era da tanto che non aveva quell'adrenalina in corpo.
    Nell'hangar Keith non puntò a nessuna delle navicelle normali ma fece salire Shiro a bordo di quella a forma di Leone Rosso, e poi sfondò il cancello per uscire nello spazio aperto. Nonostante la situazione, Shiro rimase a bocca aperta: non solo era su una navicella con Keith, e lo vedeva finalmente pilotare, ma erano nello spazio aperto, in una zona che nemmeno Shiro, che era un appassionato di costellazioni, riconosceva.
    Contro la nave degli alieni c'erano altri tre leoni, tutti di colore diverso.
    "Keith! Accidenti a te, perché non ci hai aspettato? Ti sei fatto catturare, vero?" Si lamentò una voce.
    "Stai bene?" Disse un'altra. "Shiro è con te?"
    "È con me," confermò Keith.
    "Puoi portarlo a prendere il Leone Nero?" Chiese una terza voce.
    "No. Shiro non può combattere adesso," disse Keith. "Allura, mi senti?"
    "Ti sento," rispose una voce femminile.
    "Apri un portale, dobbiamo allontanarci da qui."
    "Va bene."
    Shiro osservò con stupore quando nello spazio si formò un cerchio, simile ai portali che aveva visto in film come Stargate. I leoni ci entrarono a uno a uno e bastò quello a far raggiungere loro una porzione di universo completamente diversa. Dopo di loro arrivò un'altra navicella super tecnologica, e poi il portale si chiuse.
    "Ci vediamo alla base," disse Keith, e i leoni, a uno a uno, entrarono all'interno della navicella.
    Shiro era davvero, davvero curioso di capire come Keith fosse diventato una specie di super agente spaziale e pilotasse un leone del genere. Forse la Garrison aveva avviato un programma spaziale segreto e lui non ne era stato informato, ma ovviamente Keith si in quanto neo diplomato all'accademia dei piloti di caccia.
    Ma quando scesero dal leone rosso, le domande si affastellarono maggiormente, perché oltre ad essere accolti da tre terresti con le armature dei colori dei loro leoni, c'erano anche altri due alieni, diversi da quelli viola, ma senza dubbio alieni, con le orecchie a punta e gli strani marchi sotto gli occhi.
    "Ehi, Shiro, ci hai fatto preoccupare!" Disse quello vestito di Blu, poi si bloccò, e Shiro si accorse che tutti lo stavano guardando sorpresi. "Che hai fatto ai capelli? E alla faccia?"
    "Io non credo che questo sia il nostro Shiro," disse Keith, e nel dirlo non stava guardando Shiro in faccia.
    "Oh. Ooooh, adesso mi ricordo," disse l'alieno maschio con i baffi arancioni. "Mi ricordo a cosa serviva quella macchina."
    "Intendi la strana bara in cui era stato rinchiuso Shiro?" Domandò blu.
    "Esattamente! Fra i nojah era molto in voga, perlomeno una decina di millenni va, la prova sui rimorsi e i rimpianti. La persona si metteva dentro il sarcofago rituale e viveva per qualche momento un'altra vita, come sarebbe stata se avesse fatto una scelta diversa."
    "Quindi questo è lo Shiro di un'altra vita?" Chiese quello vestito di giallo, passando lo sguardo da Shiro all'alieno.
    "Esattamente!" Confermò l'alieno. "Quello che i nojah comuni consideravano spirituale era in realtà provocato dalla tecnologia. Loro attivavano la macchina, e la persona all'interno si scambiava di posto con quella di un'altra dimensione. Lo scambio durava poco, il tempo per l'altra persona di capire le differenze. E ovviamente non era previsto che la macchina venisse aperta prima che la persona tornasse nella sua corretta dimensione."
    "Ma qui i nojah hanno tentato di vedere Shiro ai galra, i galra hanno aperto il sarcofago e quindi lo scambio è rimasto?" Domandò l'aliena donna. "Vuoi dire che Shiro, il nostro, è intrappolato in un'altra realtà?"
    "Oh oh, ebbene sí," poi l'alieno arancione capí di essere un po' troppo entusiasta e finse un'espressione contrita. "Un vero peccato."
    "Ma se recuperiamo la macchina e mettiamo questo Shiro dentro, non riusciamo a recuperare il nostro?" Chiese quello vestito di verde. "L'abbiamo lasciata su Nojah, no? Senza offesa, Shiro," aggiunse al suo indirizzo, "ma non possiamo sapere se le realtà collassino l'una sull'altra a causa di questi scambi, credo che sia meglio per tutti se ognuno ritorna al suo posto."
    Shiro non sapeva bene come rispondergli, aveva ascoltato tutta la loro conversazione ma aveva ricevuto cosí tante informazioni tutte assieme che non sapeva come mettere assieme bene alieni, un altro Shiro, un'altra realtà.
    "Bene," disse Blu. "Allora andiamo a recuperare la macchina da Nojah!"
    "Tutto bene?" Sussurrò allora Keith a Shiro, una mano poggiata sulla sua spalla, mentre gli altri continuavano a chiacchierare fra di loro.
    "Penso di sí? È tutto cosí confuso..." Poi fece un sospiro. "Qual è la decisione che lo Shiro di questa realtà ha voluto mettere alla prova? Lo sai?"
    Keith annuí gravemente. "Kerberos."
    Oh, certo. Ovvio che era Kerberos, quello era stato il punto di svolta della vita di Shiro, e non era strano pensare che lo fosse stato anche per lo Shiro di questa dimensione. "C'è andato?"
    "Si."
    "Raccontami tutto."
    E Keith lo fece. Mentre gli altri si organizzavano per recuperare la macchina, Keith portò Shiro nella sua stanza e gli disse tutto, di come Shiro non avesse accettato l'ultimatum di Adam e avesse deciso di partire comunque (nella sua realtà, le cose non erano arrivate a quel punto limite, Shiro si era lasciato convincere molto prima), di come ci fosse stato ugualmente lo schianto attribuito a un errore di Shiro, con conseguente espulsione di Keith dall'accademia (dove Keith invece si era diplomato, perché a morire non era stato Shiro), di come Shiro fosse tornato dopo un anno di prigionia, coi capelli in parte bianchi, la cicatrice sul naso, il braccio di metallo ma apparentemente guarito dalla malattia, di come Keith l'avesse recuperato dalla Garrison e insieme agli altri cadetti avessero trovato il leone blu e ora stessero combattendo gli stessi alieni che avevano rapito Shiro che poi erano anche della specie di conquistatori spaziali.
    "Wow. Wow."
    "Stai bene?" Gli domandò Keith.
    "A parte il fatto che sono momentaneamente bloccato in una realtà alternativa e che apparentemente ho appena scoperto di aver preso una decisione stupida che mi ha rovinato la vita e forse condannato l'universo, si, tutto bene."
    Keith lo guardò con uno sguardo dolce. "Non hai preso una decisione stupida, era quella che ti sentivi in quel momento. Non credo tu abbia mai fatto cose senza volerlo."
    "No..." Shiro abbassò lo sguardo e pensò al suo Keith, che l'aveva sempre supportato anche se gli aveva detto che perdere Kerberos per Adam poteva essere un errore. Eppure il risentimento di Keoth era sempre e solo verso Adam (al punto che Shiro cercava di mediare, lo riteneva ingiusto), e cercò di immaginarsi quel Keith che supportava il suo Shiro oltre la rottura di Adam, per la missione Kerberos, e che lo supportava ancora adesso, dopo tutto quello che Shiro aveva patito.
    Bussarono alla porta. Era Hunk. "Keith, Shiro? Abbiamo trovato la macchina e l'abbiamo rimessa a punto. Possiamo vedere se funziona."
    "Arriviamo," disse Keith, e Shiro immaginò fosse impaziente di riavere indietro il suo Shiro, non quello noioso e malato che aveva adesso.
    "Vorrei non tornare," mormorò, quasi a se stesso.
    "Shiro," Keith disse, deciso, "io sono contento che esista una versione di te che non ha dovuto subire tutto quello che ha subito il mio Shiro. Ma tu sei destinato comunque a grandi cose, lo so. Non lasciarti scoraggiare solo perché un rituale assurdo ti dice che hai sbagliato."
    Suo malgrado, Shiro sorrise. "Grazie."
    Raggiunsero uno dei laboratori che Pidge usava, Shiro salutò e ringraziando tutti aggiunse, "speriamo che funzioni almeno tutto ciò sarà stato imbarazzante," giusto prima di entrare dentro la macchina.
    "Ora la attivo," gli comunicò Pidge.
    "Sii paziente," disse invece Keith, con voce dolce, ricordandogli uno dei suoi insegnamenti.
    Shiro sorrise e si rilassò, e cosí si sentí per un attimo galleggiare, prima che la voce di Keith lo chiamasse e lui si accasciasse in qualche modo nelle sue braccia.
    "Stai bene?"
    Non era più nel sarcofago, ma in quello che sembrava la cabina di pilotaggio di uno dei leoni (non il rosso, però, non ne riconosceva la forma del pannello). Keith, con la sua divisa da ufficiale, lo stava aiutando a rialzarsi, e gli altri, Pidge, Lance e Hunk, lo stavano guardando perplessi. Aveva di nuovo indosso la sua divisa, e lo stimolatore muscolare.
    Era tornato a casa.
    "Siamo... sul leone blu?" Disse.
    "Come fai a saperlo?" Si stupí Keith, e poi capí. "Sei stato nella dimensione dell'altro Shiro?" Lui annuí.
    "Altro Shiro? Dimensioni? Qualcuno mi spiega qualcosa?" Si lamentò Lance.
    "Dopo," disse Shiro. "Adesso dobbiamo aspettare che il Leone Blu ci porti al suo castello, poi tutto sarà chiarito."
    "Non dovremo, tipo, avvisare qualcuno della Garrison?" Si domandò Hunk, ma Shiro scosse la testa, ricordandosi di come era stato trattato il suo alter ego nell'altra dimensione.
    "Non possiamo. Capirete poi."
    Keith gli era al fianco, e si avvicinò ancora. "Nemmeno Adam?"
    "Lui meno di tutti, non approverebbe quello che stiamo per fare, ma io devo farlo."
    Keith annuí. "Io sono dalla tua parte sempre, lo sai."
    "Certo."
    E lo sapeva davvero, che non importa che decisione sarebbe stata presa, in ogni universo ci sarebbe stato un Keith a supportare Shiro.
  11. .
    Poteva sentire la voce di Adam che risuonava nelle orecchie, su quanto fosse da incoscienti farsi mandare a predicare nel Mar Dei Caraibi, che sicuramente si sarebbe fatto ammazzare alla meglio e alla peggio avrebbe perso anni di vita senza portare nulla dalla sua parte, perché in quell’area giravano solo persone che Dio non solo non l’avrebbero visto mai, ma se avessero voluto farlo, sarebbe stato per sputargli addosso, perché altro non era e altro non facevano.
    Col senno di poi, Adam aveva avuto le sue ragioni a dire così, ma Shiro si era preso le sue soddisfazioni con le comunità locali, e il fatto che non fosse il solito frate arrendevole, ma che menasse come e peggio di loro sicuramente aveva aiutato. Aveva girato diverse isole, conosciuto molte realtà, e se anche non era riuscito a convertire veramente nessuno, era felice di aver potuto condividere un po’ della sua conoscenza e della sua fede con loro.
    Incontrare i pirati non faceva parte del suo obiettivo di vita: non che pensasse che non meritassero la salvezza dell’anima, ma lui era un uomo solo, per altro non un braccio non funzionante. Sapeva che non avrebbe avuto possibilità di difendersi da loro se l’avessero attaccato in gruppo, per cui era grato di poterli guardare alla distanza, portargli sollievo se stavano per essere condannati a morte, e poi vedere i loro corpi penzolanti venir mangiati dagli uccelli.
    Ovviamente, aveva messo in conto che potesse succedere, ed era grato che per un lungo periodo non fosse capitato, ma poi si era fermato troppo a lungo in una cittadina portuale. Sapeva che sul mare il rischio di incursioni piratesche era superiore, ma quello era un villaggio povero, di contadini, il cui massimo della ricchezza erano i loro animali e l’orticello che era davanti a casa.
    Ma apparentemente in quel posto sostava un anziano saggio di nome Sam Holt, che aveva delle conoscenze a cui i pirati miravano. In effetti, Shiro aveva parlato a lungo con Sam Holt, si era fatto raccontare diverse leggende di quel posto, e sebbene non credesse a nessuna di loro, le trovava affascinanti. Ma la voce si era diffusa, e fra i pirati non erano pochi quelli che credevano in quelle leggende.
    Così, una sera in cui Shiro era a cena da Sam Holt, i pirati attaccarono.
    Shiro riconobbe il jolly roger immediatamente, aveva letto sui giornali per essere informato delle notizie più recenti. Il Capitano Sendak, uno dei più temibili di quei mari, erano anni che gli Spagnoli gli davano la caccia senza successo. C’erano anche le malelingue che dicevano che le scorribande di Sendak fossero finanziate dalla regina d’Inghilterra in persona, e francamente Shiro, che aveva avuto la sfortuna di incontrarla, non ne dubitava affatto.
    Ma la regina d’Inghilterra non era lì in quel momento, c’era solo Shiro, il suo braccio che non funzionava, e la sua vecchia spada ormai consumata. Era un chiaro scontro impari, da cui però Shiro uscì tutto sommato bene, con solo un paio di graffi, e dopo essere riuscito a stendere un colpo a Sendak in persona.
    A quanto pareva, quello gli aveva fatto ottenere, invece che una rabbia cieca e una vendetta, la stima del capitano pirata, il quale aveva riso della sua professione di frate, commentando con una risata “be’, è proprio quello che manca sulla nostra nave!”
    E quella era sostanzialmente la storia di come Shiro si fosse ritrovato a bordo della nave pirata Galra comandata dal crudele e violento capitano Sendak, e passasse le sue giornate legato all’albero maestro come una sorta di seconda polena – da quanto poi aveva cantato una delle sue canzoni religiose durante una tempesta e la nave si era salvata, anche gli uomini avevano iniziato a considerarlo una specie di talismano.
    Almeno, pensò Shiro guardando in avanti, all’oceano azzurro che si estendeva senza fine di fronte a sé, aveva una vista invidiabile.

    “Frate, cantaci qualcosa!” gridava ogni tanto qualcuno dell’equipaggio.
    Paradossalmente, Shiro era ben felice di sottostare a quell’ordine. Pregare e pregare cantando lo rilassava, lo portava a pensare che c’era sempre una speranza e che Dio non l’avrebbe abbandonato, non importa quanto la situazione sembrasse senza via d’uscita.
    Dopotutto, era ancora vivo, no?”
    “Salve, Regína,Mater misericórdiae,vita, dulcédo et spes nostra, salve.Ad te clamámus,éxsules filii Evae…”
    Poi, di solito, arrivava Sendak a berciare qualche ordine ai suoi uomini, che se ne andavano via protestando a obbedire, e poi si girava verso Shiro e borbottava, “e piantala con le tue nenie, frate, o la prossima volta userò te come esca.”
    A quanto pare, Sendak era davvero convinto che in qualche maniera le parole di Shiro avessero qualche effetto sugli eventi e sugli agenti atmosferici, per quanto Shiro gli avesse detto che l’unica cosa che poteva fare lui era chiedere aiuto a Nostro Signore, ma Sendak, come la maggior parte dei pirati, era superstizioso.
    D’altronde, credeva alle leggende di Holt come se fossero pura storia.
    Quel giorno, invece, non solo Sendak non berciò nulla, ma si arrampicò anche sul tettuccio, per accomodarsi vicino all’albero dove Shiro stava legato, una bottiglia di liquore dorato in mano.
    “Be’?” gli disse, quando Shiro si interruppe per la sorpresa. “Va’ avanti, frate, finisci quello che devi dire.”
    Shiro obbedì. “Et Iesum, benedíctum fructumventris tui,nobis, post hoc exsílium, osténde.O clemens, o pia, o dulcis Virgo María!”
    “Le tue canzone fanno veramente schifo,” comment Sendak alla fine, dopo una buona sorsata di liquore. “Sono delle lagne insopportabili, mi spaventano i pesci. Dovresti imparare qualcuna delle nostre.”
    “Tipo quella degli uomini sulla cassa del morto, o quella delle donne all’osteria?” domandò Shiro, in tono annoiato. “Almeno le mie hanno un vantaggio.”
    “E quale?”
    “Che non capisci che cosa dicono.”
    Sendak rise, una risata forte, sguaiata, ma divertita. “Tu mi piace, frate. È una delle ragioni per cui ogni tanto ho dei dubbi sul fatto che tu sia davvero un frate.”
    “Mi spiace non poter dire lo stesso di te, tu sei un pirata fatto e finito.”
    “Ma proprio per questo,” Sendak lo ignorò, “domani sarò magnanimo e ti permetterò di partecipare alla battuta di caccia.”
    “Caccia?” ripeté Shiro. Fra tutte le attività che aveva imparato a fare, la caccia non era esattamente al primo posto dell’alimentazione degli isolani, anche se sapeva che ogni tanto venivano cacciate specie particolari per essere rivendute come merci preziose più che come cibo per le persone. “E che cosa cacciamo, pappagalli?”
    “Pensi che io spieghi i miei uomini per degli uccellini?”
    “E cosa, allora?”
    “Sirene.”
    Shiro sbatté le palpebre. “Le sirene non esistono.”
    Non che Sendak fosse il primo a correre dietro a qualcosa che non esisteva, anche nella madrepatria spagnola molti avevano per anni seguito strani rituali, strane credenze, e infine si erano ritrovati con un pugno di mosche in mano. Anche se, a volte, queste pazzie portavano a grandi successi, come quando Isabella di Castiglia trovò il Nuovo Mondo.
    “Oh, esistono eccome,” ribatté Sendak. “Non posso credere che uno che ritiene credibile l’esistenza di un Dio diviso in tre persone poi sia così scettico di fronte a tutto.”
    “La fede in Nostro Signore richiede, appunto, fede nel suo nome e nelle sue opere,” ribatté Shiro. “E la Bibbia è una prova sufficiente della sua esistenza. Le tue sirene che prove hanno?”
    “È pieno di leggende sulle sirene, il tuo amico Sam Holt ne conosceva diverse. Solo perché non sono scritte, non significa che siano meno importanti o meno veritiere. La scrittura è sopravvalutata.”
    La menzione di Sam Holt aveva fatto pensare Shiro a lungo. Sam Holt e la sua famiglia erano riusciti a salvarsi, forse per via della superstizione di Sendak che non riteneva auspicabile uccidere un sapiente, ma erano stati interrogati (piratesco per torturati) a lungo, finché Sam Holt non aveva raccontato a Sendak le leggende che voleva sentirsi dire. Se fossero inventate oppure no, questo Shiro non lo sapeva, ma certo era che alcune di quelle non le aveva mai sentite.
    “È per quello che ti ha detto Sam Holt che stiamo andando a cercare le sirene?”
    “Esattamente. Vuoi sapere perché?”
    “Diciamo che non mi oppongo all’idea di venirne a conoscenza.”
    “A volte parli in modo che non si capisce, frate, sarà tipico di voi predicatori,” borbottò Sendak. “Comunque, il mio obiettivo è di ottenere l’immortalità.”
    “L’immortalità è solo quella dell’anima,” gli fece presente Shiro, con un’alzata di sopracciglio, “cosa che tu difficilmente otterrai se non ti penti dei tuoi peccati.”
    “Grazie, ma no grazie. L’ho visto quello che fa la gente per la tua immortalità, e non mi interessa,” replicò Sendak con un ghigno divertito. “Preferisco questa.”
    “E in che modo delle ipotetiche sirene ti farebbero diventare immortale?”
    “C’è un rituale complesso, e uno degli ingredienti fondamentali è proprio la lacrima di una sirena.”
    “Ecco perché nessuno può diventare immortale, dato che le sirene non esistono.”
    Sendak gli rivolse un sorriso divertito. “Vuoi scommettere?”
    “Perché no?” Shiro rispose con lo stesso tipo di sorriso. “Se ho ragione io e non c’è nessuna sirena, mi lascerai andare.”
    “E se avrò ragione io?”
    “Diventerò a tutti gli effetti un membro del tuo equipaggio.”
    “Lo giuri sul tuo Dio?”
    “Io non giuro su Dio, ma sulla fede che ho in lui sì.”
    “Affare fatto, allora,” Sendak ghignò. “Vinca il migliore.”

    Il giorno dopo, arrivarono all’isola che a detta di Sendak era una delle tane delle sirene. Lasciarono ancorata la nave vicino a una delle spiagge, le corde di Shiro furono sciolte, e poi camminarono a piedi lungo la spiaggia fino a raggiungere, dall’altro capo, un’insenatura lunga e stretta, circondata da due alti promontori, con alcuni punti di acqua molto bassa e ristagnante, e rocce aguzze che spuntavano sopra la superficie del mare.
    I pirati avevano con sé armi ed esplosivo, e si misero a costruire delle gabbie artificiali, fatte di canne e legacci. Al loro interno, misero dentro alcuni dei prigionieri che avevano catturato dopo l’assalto a una nave pirata rivale, poi spinsero le gabbie all’interno dell’insenatura, in modo che l’acqua arrivasse ai polpacci dei prigionieri, i quali erano stati precedentemente feriti con dei coltelli e ora spargevano in parte il loro sangue nel mare, e si lamentavano per il bruciore che il sale procurava loro.
    “Tutto questo perché?” domandò Shiro, incuriosito e un po’ schifato da quella procedura.
    “Serve ad attirare le sirene?”
    “Verranno in soccorso di quegli uomini?”
    “Oh, no,” Sendak ghignò. “Verranno a mangiarseli.”
    Subito dopo dalla baia si levò un grido spaventoso, a metà tra il pianto di un neonato e lo stridio di un gabbiano, e Shiro fu quasi tentato di lasciar cadere la spada per proteggersi le orecchie, ma resistette. Poi, il mare, nonostante non tirasse un soffio di vento, inizio a muoversi e a ondeggiare, l’acqua e la spuma che schizzavano contro le rocce e la spiaggia dove i pirati rimanevano in attesa.
    Poi, gli uomini prigionieri iniziarono a farsi sempre più vicini, terrorizzati, cercando di stare il più possibile lontano dalle sbarre, cosa difficile visto le dimensioni della gabbia. Uno di loro urlò, e venne afferrato da qualcosa e trascinato per terra. L’acqua attorno divenne rossa. Difficile vedere che cosa fosse con tutta quell’acqua che si muoveva, i cui schizzi arrivavano fino agli occhi di Shiro, facendoglieli lacrimare e bruciare.
    “Le sirene! Sono qui! Prendetele!”
    Con un urlo disumano, i pirati estrassero le loro pistole e si gettarono nella mischia. Shiro era stato in battaglie prima di allora, prima di essere un frate era stato anche un soldato, ma quello che stava osservando in quel momento era differente da tutto. L’acqua sembrava viva, e sembrava essere lei a colpire gli uomini e a inghiottire i prigionieri, mentre i pirati tentavano di sparare alle onde o di tagliarle con le loro spade.
    Sembravano pazzi, preda di uno stupore folle, e per un attimo Shiro pensò che forse era vero, forse non c’era nessuna sirena, forse era tutto frutto di una illusione collettiva e gli uomini venivano solamente puniti per la loro avarizia, per aver creduto che davvero si potesse inseguire un’immortalità sulla terra.
    Ma Shiro era curioso per natura, uno dei suoi numerosi difetti secondo Adam, e decise che doveva vedere con i suoi occhi quelle creature, che esistessero oppure no. Così, fece un tentativo passo in avanti nell’acqua: ormai la battaglia si era per la maggior parte spostata verso le gabbie, dove l’acqua era ancora più alta, e lì sulla riva, tra gli scogli che Shiro stava esplorando cautamente, arrivavano i resti della battaglia, sangue e schiuma assieme.
    “Pater noster, qui es in cælis: sanctificétur Nomen Tuum,” recitò Shiro sottovoce, per darsi pace nel mezzo di quell’intero casino, e forse anche per scacciare la sensazione di aver a che fare con creature demoniache mandate dal Dimonio. “ne nos indúcas in tentatiónem; sed líbera nos a Malo”
    E poi lo vide, una mano solitaria, mozzata, che galleggiava trasportata verso la riva, lasciando dietro di sé una striscia di sangue. Andò a incastrarsi vicino a uno scoglio, e Shiro ne seguì il percorso con gli occhi, senza riuscire a staccarli da quella che era la debolezza umana. E poi ci fu un guizzò improvviso, e qualcosa che emerse in fretta dall’acqua afferrò quella mano e se la portò giù.
    Quello che Shiro vide sembrò solo una pinna scintillante al sole, ma fu sufficiente per gettare la spada: sentì che colpiva qualcosa di duro, qualcosa di resistente, e lo attraversava prima di conficcarsi nella sabbia del fondo marino sottostante. Sentì un grido soffocato, come un gabbiano a cui avessero chiuso il becco d’improvviso.
    La sua attenzione fu di nuovo attirata dalla battaglia: ormai i prigionieri erano tutti caduti ed era chiaro che le sirene, se davvero di quello si trattava, erano passate ad occuparsi degli uomini: già sembravano meno dell’equipaggio che era arrivato, e anche lo stesso Sendak, che come sempre combatteva come se fosse preda del Dimonio, era ferito a una gamba.
    “Stiamo perdendo, capitano,” gridò Haxus, il quartiermastro, “dobbiamo ritirarci.”
    “Non prima di averne presa almeno una,” gridò Sendak, ma poi dovette guardarsi in giro e capire che la situazione stava svolgendo al peggio. Era crudele, ma non irrazionale, questo Shiro doveva dargliene atto.
    La Galra, che aveva ordine di raggiungere l’insenatura dopo un certo orario, era appena arrivata all’orizzonte. Appena Sendak la vide, gridò ad Haxus, “dai l’ordine!”
    Haxus corse sulla spiagga, quasi incespicò o forse rischiò di essere afferrato e poi diede fuoco ad uno dei barili di esplosivo. Fu l’ordine per chi stava sulla nave: tre cannonate vennero sparate a ripetizione contro una delle due scogliere, la baia rimbombò per quei colpi, poi le rocce caddero rovinosamente in mare schiantandosi sulla superficie e creando alte onde che poi vennero a schiantarsi sulla riva.
    I pirati approfittarono di quella distrazione per correre via, raggiungere la riva e salvarsi. In quella corsa, Shiro notò che tutti erano feriti, alcuni anche gravemente, la pelle lacerata e strappata in più punti. Sendak, invece, rimase eretto e fiero in mezzo al mare, mentre le onde attorno a lui si calmavano e svanivano. La baia torno calma e silenziosa, il mare piatto.
    Le gabbie erano rimaste vuote, i cadaveri orrendamente mutilati galleggiavano ora timidamente attorno a quello, molte delle sbarre erano state divelte. Le ultime onde avevano spostato alcuni resti sulla riva, e ora la spiaggia aveva assunto una tonalità rosso sangue. Sendak sputò a terra, con una smorfia. Mentre gli uomini si lamentavano dietro di lui, lui continuava a scrutare il mare sotto di lui.
    Shiro sentì uno strano rumore al suo fianco, tra un gemito e l’altro, e abbassò lo sguardo. La sua spada era sempre conficcata nella sabbia lieve, e adesso, con l’acqua calma e la maggior parte del sangue lavato via, poteva confermare che aveva infilzato una pinna.
    Una pinna di sirena, a quanto pare, a giudicare dall’essere che stava tirando e spingendo nel tentativo di liberarsi. Shiro restò a bocca aperta a osservare la scena. A un primo controllo, sembrava molto simile a un normale ragazzo sui vent’anni, con lunghi capelli neri e il petto nudo muscoloso senza essere esagerato.
    Poi però si notavano alcuni dettagli, come le mani che si allungavano in artigli, e naturalmente l’addome che si trasformava in scaglie e poi creava la forma di una lunga coda sinuosa, di colore rosso intenso, con le scaglie che brillavano al sole e piccole pinne che si muovevano seguendo il ritmo della risacca. Anche la pelle non era umana, ma leggermente trans lucente, come quella delle meduse, e alla base del collo si aprivano tre branchie, una per ogni lato.
    La creatura dovette sentirsi osservata, perché alzò lo sguardo, rivelando a Shiro un viso dolce e due paia di grandi occhi blu. Ma poi gli soffiò, sibilò nella sua direzione e Shiro poté notare con dovizia di particolare le zanne che quella bocca piccola e carnosa nascondeva.
    E quindi, a quanto pareva, le sirene esistevano davvero.
    “Nemmeno una siamo riusciti a prenderla, nemmeno una,” borbottò Sendak dietro di lui, mentre finalmente si decideva a raggiungere la riva. “Siete una massa d’incapaci, tutti quanti,” ignorando ovviamente di aver partecipato anche lui inutilmente alla caccia.
    “Ehm, Capitano,” chiamò Shiro.
    “Che c’è, frate?” sbottò Sendak. “Non sono in vena di sentire le tue chiacchiere sulle penitenze oggi.”
    “Questo è male, ma in ogni caso no, non è questo.” E Shiro gli indicò con il braccio la sirena ai suoi piedi, che ancora si agitava per liberarsi.
    Gli occhi di Sendak si illuminarono di una gioia maligna. Un attimo dopo, si era avvicinato per esaminare meglio la creatura. “Un esemplare giovane,” dedusse alla fine, “proprio quello di cui abbiamo bisogno. E bravo il nostro frate,” aggiunse, abbracciando Shiro con una delle sue enormi braccia, e stritolandolo quasi dalla forza, “lo sapevo che non eri solo parole.”
    Lo lasciò per rivolgersi ai suoi uomini. “Vergogna, vi siete fatti battere da un frate. Almeno rendetevi utili e portate la sirena a bordo.”
    Shiro rimase a osservare mentre i pirati si davano da fare e avvolgevano la sirena in corde e reti d’acciaio, nonostante questa si dibattesse e combattesse con ferocia, e poi la chiusero in una cassa per trasportarla meglio a bordo. Shiro fu l’ultimo a salire a bordo.
    A quanto pare, era diventato un pirata.

    Per i primi giorni, non cambiò molto a bordo, per Shiro. I pirati continuavano a fare i loro lavori e lo lasciavano in pace, ogni tanto lo prendevano bonariamente in giro per le sue litanie, che però avevano iniziato a rispettare ancora di più da quando si era dimostrato l’unico capace di catturare una sirena.
    “Allora è vero che cacci i demoni, frate,” gli dicevano, di tanto in tanto.
    Ma ora non era più legato all’albero maestro, e poteva liberamente girare per la nave senza starsi troppo a preoccupare della situazione. Diede una mano con i feriti e ascoltò le ultime confessioni di quelli che avevano riportato ferite troppo gravi dopo la battaglia, dando loro poi l’estrema unzione. Paradossalmente, furono i primi atteggiamenti da frate che ebbe su quella nave pirata.
    Per diversi giorni, non vide la sirena. A quanto dicevano i pirati attorno a lui, era stata rinchiusa in una cassa di vetro piena d’acqua di mare, per non farla morire, ma nessuno aveva veramente voglia di avvicinarsi e capire che cosa stesse facendo, per cui la lasciavano in pace. Finché qualcuno non si accorse che, a lasciarla chiusa lì dentro, rischiava di morire.
    “E allora portatela fuori,” fu il commento seccato di Sendak, che era molto più concentrato a trovare la rotta per una presunta fonte dell’immortalità che a fare da balia a una sirena. “Basta che non mi secchiate. Ma se muore, ve ne prenderete la responsabilità.”
    Così gli uomini giocarono a dadi per stabilire chi era lo sfortunato che avrebbe dovuto andare a prendere la cassa per tirarla sul ponte.
    “Per favore, frate, vieni con noi,” chiesero quindi i malcapitati, una volta che furono sorteggiati. “Almeno, se la creatura proverà a farci il malocchio, tu potrai sconfiggerla di nuovo.”
    Shiro dubitava che la sirena fosse in grado di lanciare maledizioni, ma acconsentì, perché era di buon cuore e quegli uomini parevano davvero spaventati. Così scesero nella stiva e lì Shiro rivide per la prima volta la creatura, che se ne stava rannicchiata in posizione fetale all’interno di una cassa di vetro a malapena in grado di contenerla.
    “Andate via,” ordinò agli uomini.
    “Ma…” protestarono loro.
    “Ma niente, avreste dovuto trattarla come un essere umano fin dall’inizio. Pregate Iddio che sia ancora viva.”
    Ma poiché erano felici di non doversene occupare, se ne andarono di gran lena, mentre Shiro si avvicinò alla cassa a grandi passi e la aprì senza preoccuparsene troppo, lasciando che l’acqua di mare strabordasse ai lati. Appena ottenuto più spazio, con agilità felina la creatura si alzò, stendendo busto e braccia e collo. Poi si accorse di Shiro: gli soffiò ancora, e si spinse contro il muro, per proteggersi.
    Shiro alzò le mani. “Non voglio farti del male. Sono qui per aiutarti. L’avrei fatto in precedenza, ma non avevo capito quanto male ti stessero tenendo. Io sono un frate, predico l’amore per tutte le creature. E benché non sapessi della tua esistenza, è chiaro che anche tu sei una creatura di Dio, permettimi di aiutarti.”
    La sirena continuò a osservarlo in maniera truce.
    “Lo so che non hai ragione di credermi, sono stato io a catturarti… ma anche io sono stato prigioniero qui a lungo. Si può sopravvivere. Permettimi di aiutarti.”
    Ancora nessuna risposta, quindi Shiro sospirò e disse tra sé, “forse non mi capisce, forse non parla la mia lingua.”
    “Ti capisco, umano,” e Shiro ci mise un attimo a capire che era stata la sirena a parlare, con una voce bassa, soffice. “La conosciamo la vostra lingua, anche se non ci piace parlarla. E non mi piace quello che mi stai dicendo.”
    “Non lo vuoi il mio aiuto?”
    “No. Non ne ho bisogno.”
    “Va bene,” annuì allora Shiro. “Dirò agli uomini di non avvicinarsi a questa stiva, ma almeno avrai un po’ di spazio. Sei sicuro che non ti serva nulla?”
    La sirena lo guardò sospettosa, poi disse, “il sole. Siamo creature marine, ma abbiamo bisogno della luce per sopravvivere.”
    Shiro annuì di nuovo. “Posso portarti al sole. Se me lo permetti.”
    Con passo incerto, la sirena uscì totalmente dalla cassa e si striscò fino a lui. “Portami al sole.”
    Con delicatezza, Shiro la afferrò passando l’unico braccio sano sotto le sue braccia, e per fortuna era abbastanza minuta per Shiro da raggiungere la parte superiore della sua coda per poterla tirare su.
    “Come ti chiami?” le chiese, stupendola.
    “Keith.”
    “Io sono Shiro. Tieniti bene a me.”
    La sirena passò le braccia attorno al collo di Shiro e lui sistemò meglio il braccio sotto la sua coda per tenerla su con più facilità, quindi lasciò la stanza. Se l’avesse portata sul ponte avrebbe scatenato il panico di tutti, quindi la portò nella sala mensa, che si trovava in una delle stanze più alte della nave, e dalle cui finestre penetrava un caldo, accecante sole.
    “Non avevi paura che ti azzannassi?” gli chiese Keith, una volta che Shiro lo ebbe poggiato a terra proprio accanto a una delle finestre, in modo che il sole gli arrivasse addosso.
    “Be’, se l’avessi fatto, saremo stati pari, credo.” Gli sorrise. “Come va la ferita?”
    Keith alzò leggermente la pinna e sorrise. “Sta guarendo.”
    “Mi dispiace.”
    Keith alzò le spalle. “È stato un colpo fortunato.” Poi si voltò e rivolse lo sguardo al sole: Shiro rimase a guardare come incantato mentre il sole gli faceva scintillare la pelle e soprattutto le squame rosse della coda, e lui agitava i suoi lunghi capelli neri, spargendo piccole goccioline ovunque. Era una visione quasi mistica, e Shiro si sentì in colpa per averlo pensato.
    Il misticismo del momento venne interrotto da un piccolo ruggito, e fu solo il leggero rossore sulle guance di Keith che gli fece capire che era stato lui, o meglio il suo stomaco, e che era affamato. Shiro dovette sforzarsi molto per trattenersi dal ridere della scena.
    “Nessuno mi ha dato da mangiare in questi giorni,” si giustificò Keith.
    “Che cosa mangi, di solito?”
    “Pesce crudo.”
    Shiro tirò un sospiro di sollievo, e alla domanda nel viso di Keith, aggiunse, “se mi avessi detto carne umana, avremo avuto un problema.”
    “Noi non mangiamo carne umana, ci fa schifo,” fece presente Keith, con un piccolo sbuffo. “Ma è meglio che gli uomini lo credano, così ci lasciano in pace. Be’, quasi tutti.”
    “Questo mi rassicura ancora di più, visto il tuo appetito,” sorrise Shiro. “Aspettami un attimo qui.” Dalla sala mensa, raggiunse un attimo la dispensa, che era piena di barili di pesce pescato in giornata. Ne scelse uno di dimensioni ragguardevoli e ritornò su per consegnarlo a Keith.
    “Bleah, è crudo,” commentò lui, con uno sguardo un po’ schifato, ma evidentemente la fame lo vinse, perché prese il pesce e iniziò ad addentarlo con le sue zanne. Shiro si sedette a terra al suo fianco e lo guardò con ammirazione, mentre divorava il pesce fino a lasciarne a malapena la lisca centrale.
    “Grazie,” disse poi con sincerità, appoggiandosi meglio contro la finestra. “Che cos’hai fatto al braccio?” gli chiese.
    “Questo?” Shiro indicò il suo braccio destro, che ciondolava morto al suo fianco. “Paralizzato. Una malattia da bambino.”
    “E questa?” aggiunse Keith, indicando la cicatrice.
    “In guerra, quando combattevo per il mio sovrano.”
    “Lo sapevo che eri un guerriero,” disse Keith. “Ne hai l’aura.”
    Ma poi chiuse gli occhi e non aggiunse più nulla, limitandosi a godere del sole, dopo un buon pranzo. Non ci volle molto per capire che si era addormentato.

    Quei piccoli momenti diventarono di routine fra di loro. I pirati lo presero come un’altra delle stranezze del frate, che con le preghiere faceva cessare le tempeste e ammaliava le creature demoniache. Stavano sempre alla larga, ma era meglio per Shiro, che poteva occuparsi di Keith in tutta tranquillità, lo portava al sole, lo nutriva, si assicurava che non stesse male. Sendak, che era felice perché credeva di aver finalmente trovato la rotta giusta, ogni tanto lo prendeva bonariamente in giro, ma apparentemente riteneva queste piccole riunioni solo una bizzarria, e non le temeva.
    D’altronde, Shiro non aveva mai fatto cenno a voler liberare Keith, né Keith gli aveva mai chiesto di farlo.
    Fino a quel momento.
    “Lo sai perché Sendak ha voluto catturarti?” domandò Shiro a Keith, quel giorno.
    Keith scosse la testa e alzò le spalle. “Io gli uomini non li capisco.”
    “Nemmeno me?”
    “Soprattutto te.” Ma non approfondì l’argomento, per cui Shiro lasciò perdere.
    “Lui pensa che mescolando una tua lacrima a l’acqua di una fonte che stiamo andando a trovare, e dove a quanto pare approderemo domani, e bevendola su uno specifico calice d’argento che è in suo possesso, diventerà immortale.”
    Keith sbuffò, e Shiro aveva imparato a riconoscere quelle sue espressioni di incredulità davanti alla stupidità umana.
    “Quindi non è vero?”
    “Magari lo è,” rispose Keith, “ma gli esseri umani cercano solo cose stupide.”
    “L’immortalità è stupida?”
    “Sì, lo è, perché vuol dire che ti importa di più capire come vivere per sempre che capire perché sia importante vivere,” rispose Keith. “La tua filosofia,” che era il modo in cui Keith chiamava la sua religione, e a differenza dei pirati lo ascoltava sempre con volontà, “non dice la stessa cosa?”
    “Direi di sì. Ma d’altronde non sono io che voglio diventare immortale. Lo sarà la mia anima quando morirò, se Iddio vorrà.”
    Keith tornò a guardarlo curiosamente. Poi, per la prima volta, usò la sua coda per spingersi in alto, allungò la mano e aprì la finestra. Sotto di loro, Shiro sentì il rumore delle onde che si infrangevano contro la chiglia della nave, e il vento che fischiava nelle vele.
    “Hai intenzione di fermarmi?”
    “No,” affermò Shiro, quasi stupito di sé stesso.
    “Perché?”
    “Perché Sendak non è uomo che meriti l’immortalità. Nessun uomo la merita, ma di sicuro non lui.”
    Keith allungò la sua mano con gli artigli, ma che a Shiro ormai non faceva più nessuna differenza. “Vieni con me,” gli disse.
    “Dove? Negli abissi?” scherzò Shiro.
    “Perché no?” rispose Keith. “Se resti qui e mi lasci scappare, Sendak ti ucciderà, se non peggio.”
    “Questo è vero.”
    “Non ti fidi di me?”
    Di tutte le cose che Shiro pensava gli potessero succedere nei caraibi, aveva messo in conto i pirati, ma non le sirene, senza dubbio. Ma afferrò comunque la mano di Keith.
    “No, mi fido.”
    Keith gli sorrise, e poi con un gesto della coda improvviso, si spinse fuori dalla finestra e si gettò nell’oceano, trascinando Shiro con sé. Shiro non era preparato, e atterrò male, sentendo tutta la forza dell’impatto contro la superficie del mare, poi iniziò ad affondare come un sasso. Cercò di agitarsi, annaspando, per ritrovare la superficie, ma l’acqua era fredda e gli entrava nelle ossa, e pesante, e la corrente era forte.
    Poi due mani lo afferrarono, e Keith era davanti a lui, e lo baciava, e Shiro non riusciva a pensare a niente, nemmeno al peccato, mentre le branchie gli crescevano e iniziava a respirare sott’acqua. Non aveva la coda, ma poteva sopravvivere. Sentiva la pelle strana, quasi viscida, e le dita gli si erano attaccate una all’altra come quelle di una papera. La sensazione dell’acqua che gli entrava attraverso il collo assieme all’aria gli diede inizialmente una sensazione di solletico, poi divenne piacevole.
    Keith gli sorrise, lo prese per mano e lo trascinò ancora più a fondo, ai piedi dell’oceano profondo.
    “Io non so cosa sia davvero questo paradiso di cui parli,” disse Keith, “ma spero di andarci con te.”
    Dopo quello, Shiro non era sicuro che ci sarebbe più finito in paradiso. Ma d’altronde, una parte di lui non ci aveva mai creduto, era diventato frate quasi nella speranza di rimediare ai suoi peccati, che erano numerosi e gravi. E adesso si chiedeva se quello che gli stava succedendo fosse una punizione divina o un premio per qualcosa.
    Ma guardando Keith negli occhi, pensò che non aveva particolari dubbi a riguardo.
    “Ci siamo già.”
  12. .
    Era stata una giornata dura.
    La leadership di Keith era accettata dagli altri nella misura in cui non protestavano all’idea che fosse il nuovo pilota del Leone Nero, ma era chiaro che trovavano difficile seguire le sue istruzioni, che erano senza dubbio molto diverse da quelle di Shiro.
    Non è che Keith non ci provasse, a seguire quello che era l’esempio di Shiro e cercare di essere più calmo, non battersi sulle cose che riteneva importante, ritirarsi, ascoltare gli altri, ma non era facile. Lui d’altronde era quello che voleva attaccare Zarkon quando gli altri scappavano, ed era quello che non voleva andare a prendere Allura quando tutti ragionavano in maniera emotiva.
    Non poteva cambiare quello che era. Probabilmente non era tagliato per essere un leader, Shiro si era sbagliato.
    Dopo ogni singolo combattimento, in cui Keith vedeva gli sguardi di incertezza e disapprovazione degli altri, persino quando Lance provava a essere empatico e a dargli dei suggerimenti, il sonno non arrivava mai. Era un misto di delusione per aver deluso Shiro, paura di portare la squadra alla rovina, e incertezza verso se stesso e chi era.
    L’unico posto in cui riusciva a prendere un po’ di riposo era la cabina di pilotaggio del Leone Nero. Lì sentiva che Shiro era in qualche modo vicino a lui, gli parlava come se fosse presente e non chissà dove – quando Keith nemmeno aveva più tempo di andare da solo a cercarlo, se non per brevi momenti.
    Nello scuro della cabina di pilotaggio, Keith si rannicchiava nel sedile da pilota, le gambe strette nelle braccia e la testa incassata, singhiozzando leggermente finché il sonno non aveva la meglio su di lui. Di solito si svegliava tutto dolorante, e il giorno gli ricordava che Shiro se n’era andato.
    Ma nel buio, nella notte, gli sembrava quasi di vederlo, di sentirlo. Poteva avvertire ogni tanto il fantasma della sua mano sulla spalla, il suono dolce della sua voce, la presenza rassicurante al suo fianco.
    “Keith…”
    “Sono un disastro…”
    “Non è vero. Devi solo credere in te stesso. Te l’avevo detto, no? Non devi arrenderti. Io non spetterò mai di avere fiducia in te.”
    “Mi manchi,” mormorò allora Keith. “Non posso farcela senza di te.”
    “Anche tu mi manchi,” diceva allora Shiro, o forse lo spirito di quello che Keith voleva sentirsi dire. “Ma non sono andato da nessuna parte. Sono sempre stato qui, con te.”
    “Per favore, rimani con me. Almeno adesso. Almeno finché non arriva il giorno.”
    “Va bene, Keith, certo che rimango con te.”
    Quando iniziava a sonnecchiare, perdeva un attimo la prima su cos’era realtà e cos’era fantasia, e gli pareva che davvero Shiro avesse parlato, che fosse al suo fianco, che poteva sentire la sua presenza che lo avvolgeva, lo riscaldava, gli dava energia. Allora chiudeva gli occhi e poteva vederlo mentre lo stringeva al suo petto, così Keith si lasciava andare, appoggiava la testa contro di lui .
    Almeno di notte, poteva credere che Shiro fosse ancora lì con lui.
  13. .
    Si svegliò dall’incubo in un bagno di sudore.
    La camera era buia, e silenziosa. Keith individuò nell’angolo Kosmo, che dormiva nella grossa, e poco più lontano, nella branda, Krolia, anche lei appariva addormentata. Invece Shiro non si vedeva da nessuna parte. Con lentezza, i postumi dell’incubo ancora addosso, a rendergli le gambe molli, si alzò e camminò verso la plancia di comando del Leone Nero, laddove si sarebbe andato a rifugiare lui se non fosse riuscito a dormire.
    E infatti lo trovò lì, non seduto sulla postazione del pilota ma per terra, l’armatura ancora addosso (non aveva permesso a Keith di aiutarlo), ma non stava dormendo, aveva lo sguardo languido e guardava verso il vetro della cabina di pilotaggio, lo spazio fuori. Non si voltò nonostante avesse chiaramente sentito avvicinarsi Keith.
    “Stai bene?”
    “Sì.”
    Bugiardo, pensò Keith, ma non lo disse. Si sedette a terra di fronte a lui, gambe incrociate. Fu Shiro il primo a parlare. “Domani vado a stare nel Leone Verde con Pidge.”
    “Perché?”
    Finalmente Shiro si voltò a guardarlo. “Stavi gridando, prima, nel sonno. Chiamavi il mio nome, mi supplicavi di smetterla.”
    “Era solo un incubo.”
    “No, Keith, conosco i sintomi. Quelli sono i postumi di ciò che è successo con il mio clone.”
    Keith non poteva negare che fosse così, che il fantasma della battaglia che aveva affrontato lo stesse ancora tormentando di notte in notte, a ritmo continuo. Ma non poteva pensare che avrebbe sofferto molto di più, la sua paura si sarebbe materializzata in maniera ancora più forte se, nello svegliandosi, non avrebbe trovato più Shiro al suo fianco. Perché quello avrebbe rappresentato la realizzazione dell’incubo nella realtà, mentre lui preferiva scacciarlo nel mondo dei sogni.
    “Lo so che quello non sei tu,” gli disse. “Lo so che non mi faresti mai del male.”
    “Questo non è vero.”
    “Sì, invece. Il clone-”
    “Il clone non c’entra,” ribatté Shiro. “Io ti ho già fatto del male. Tutte le volte che sono morto, e che tu sei venuto a salvarmi…” Poi chiuse gli occhi e sospirò. “Anche io ho la PTSD. E mi sono svegliato nella notte pensando che mi stessero attaccando. Pensavo fosse migliorata, invece la permanenza nel piano astrale l’ha peggiorata. Sono notti che rischio di soffocarti nel sonno, Keith.”
    Keith spalancò gli occhi. “Perché non me l’hai mai detto?”
    “Perché fa male,” disse Shiro, gli occhi lucidi. “Fa male sentirti implorare e pensare che anche io sono come lui. Involontariamente, certo… ma è così. Per questo devo andare. Voglio fare i conti con me stesso, prima.”
    Lentamente, Keith si spostò, e andò a sedersi praticamente in grembo a lui, la schiena contro il suo petto.
    “Non ho paura di te,” gli disse. “Lo so che non mi faresti mai del male.”
    “Vorrei esserne sicuro anche io.” Ma non si scostò da lui, né lo cacciò..
    “Io sarò sempre qui per te, lo sai. Senza paura.”
    Shiro lo avvolse con il braccio e appoggiò la testa sulla sua spalla.
    Dormirono assieme così, quella notte.
  14. .
    Capitolo 1

    Un attimo prima, Keith stava camminando nelle strade scure e nebbiose di Luthadel, la capitale dell’Ultimo Impero. Come skaa, non avrebbe dovuto farlo, ma Keith aveva dovuto sempre essere oltre le regole per poter sopravvivere come orfano in un modo come quello.
    Un attimo dopo, si era ritrovato gli inquisitori alle spalle. Tra di loro, un inquisitore d’acciaio: troppo, per un normale ladruncolo skaa di strada. Keith sapeva che la sua fortuna, prima o poi, avrebbe attirato l’attenzione di qualcuno, ma sperava per quel momento di essersi lasciato Luthadel alle spalle.
    Sapeva di avere poche possibilità: se con i soldati e gli inquisitori normali avrebbe potuto provare a cavarsela con la sua fortuna e la sua forza, e il coltello che portava alla cinta, gli inquisitori d’acciaio erano essere sovrannaturali, nessuno sapeva come potessero essere uccisi. Ciò nonostante, Keith non sarebbe stato ucciso senza combattere.
    Poi, le nebbie vorticarono improvvisamente attorno a lui, turbinando, e scostando l’attenzione dei nemici da lui. Monete velocissime fendettero l’aria: di tutti, solo l’inquisitore d’acciaio sembrò non accusare il colpo, anzi ghignò in maniera malevola con i suoi occhi metallici vuoti. Ma dallo scuro della nebbia una mano lo colpì in pieno volto, e incassò il suo corpo dentro il muro della casa più vicina.
    Poi, prima che Keith avesse il tempo di reagire, la figura avvolta dal nebbiomanto lo tirò su. “Reggiti,” gli disse, e Keith senza nemmeno rendersene conto obbedì, agganciandosi al suo collo. L’uomo volò nel cielo, su diritto, poi lentamente si spostò e sorvolò di casa in casa. Paradossalmente, Keith non aveva paura, e si ritrovò ad ammirare la bellezza della città vista dall’alto, con la nebbia che attraversava ogni anfratto e ogni viuzza, e il palazzo di Zarkon che si ergeva minaccioso al suo centro.
    Atterrarono sulle alte mura di Luthadel, da cui Keith poté vedere per la prima volta la pianura nebbiosa che si stendeva oltre la città, perdendosi all’orizzonte. Ma la sua attenzione si rivolse immediatamente all’uomo che l’aveva salvato: anche nello scuro era impossibile non riconoscere in lui il sopravvissuto di Hathsin, Shiro, l’uomo che aveva provato a sfidare Zarkon ed era scappato dopo un anno dal suo campo di prigionia: la mancanza del braccio destro, i capelli bianchi e la cicatrice sul naso erano riconoscibili a sufficienza.
    “Perché mi hai salvato?”
    “Dev’esserci per forza una ragione?”
    “Nessuno fa niente per niente. Soprattutto a Luthadel.”
    Shiro sorrise. “In questo caso, sto cercando alleati per un progetto che voglio fare. Un altro Mistborn nella mia squadra mi farebbe comodo.”
    “Un che?”
    Sul volto di Shiro si manifestò un’espressione sorpresa. “Quindi non lo sai, e stai bruciando metallo inconsciamente.”
    “Ma di che stai parlando?” chiese ancora Keith.
    “C’è un grande potere dentro di te, uno che nemmeno la maggior parte dei nobili possiede. Io posso insegnarti a usarlo. Diventare più forte.”
    Keith era tentato, doveva ammetterlo. Aveva sempre sentito di avere un qualcosa dentro di sé, quella che lui chiamava fortuna, e che spesso gli aveva permesso di sopravvivere a situazioni senza via d’uscita, spingendo un po’ le emozioni delle persone, o diventando più forte lui stesso. Ma non l’aveva mai compreso, e ammetteva che imparare a sfruttarlo al meglio gli avrebbe permesso una sopravvivenza più probabile.
    Ma poteva fidarsi dell’uomo che aveva davanti, solo perché per molti skaa era stato simbolo di speranza?
    “E in cambio vuoi?”
    “Entra nella mia squadra.”
    “Qual è il tuo obiettivo?” chiese Keith. Era già stato in altre squadre di ladri skaa, non era una novità per lui, ma preferiva sapere prima che cosa intendevano rubare, o chi intendevano truffare. Giusto per sapere cosa aspettarsi, soprattutto a livello di tradimenti.
    Shiro sorrise, e rivolse lo sguardo alla fortezza. Con tutta la calma del mondo, con la nebbia che gli roteava attorno, disse: “Distruggere Zarkon, ovviamente.”
    E nonostante l’incredulità di quello che Shiro aveva detto, perché Zarkon era l’imperatore dell’Ultimo Impero e nessuno poteva sconfiggerlo, era immortale e regnava da millenni, Keith si scoprì a credergli.
    Forse anche Shiro stava giocando con le sue emozioni, eppure, guardando quel viso calmo e tranquillo, mentre proclamava la decisione di sconfiggere l’imperatore del mondo, Keith si ritrovò ad annuire.
    Avrebbe seguito quell’uomo fino ai confini del mondo.
  15. .
    “Sei a casa,” disse Keith, e si accorse che era un commento stupido, per cui aggiunse, “non è orario di lavoro, per te?”
    Erano al tavolo della cucina a fare colazione, Shiro stava leggendo il giornale sul suo tablet e contemporaneamente bevendo una grossa tazza di caffè, mentre le briciole del suo muffin giacevano sparse per la tavola. Keith era appena uscito dalla sua stanza, tutto vestito, pronto per andare in università.
    “Sì, ma purtroppo due giorni fa è morto un nostro collega e quindi abbiamo preso la mattina libera per poter andare al funerale. Matt viene a prendermi in macchina fra mezz’ora.”
    “Mi dispiace.” Keith aprì il frigo e si chinò per prendere il latte; di recente aveva preso a indossare pantaloni di pelle attillati che sottolineavano le sue bellissime gambe e il suo bellissimo culo. Shiro concentrò il suo sguardo sulla sua tazza. “Vuoi che venga con te?”
    “No, non è importante, non hai lezione oggi?”
    “Sì, ma non è un corso di quelli obbligatori, basta che faccia i laboratori oggi pomeriggio,” rispose Keith, mentre si versava il latte nella tazza, coprendo completamente i cereali. “Tanto è il corso che ho con Lance, posso chiedere a lui gli appunti. Magari fa strano se tuo marito non viene?”
    I colleghi di Shiro avevano sempre trovato strano che si fosse sposato di nascosto in Giappone senza dire nulla a nessuno, soprattutto Matt si era arrabbiato per non aver potuto organizzare la sua festa di addio al celibato.
    “No, non credo. Anche la ragazza di Matt non viene.”
    “Come vuoi.”
    Keith terminò la sua tazza di cereali, fece un rapido salto in bagno, prese il suo zaino e poi poggiò un leggero bacio sui capelli di Shiro prima di scappare fuori della porta.
    Shiro sentì un tremore dentro di sé.
    E sospirò, arrendendosi all’evidenza: era innamorato di suo marito.

    Shiro e Keith si erano conosciuti nel modo più tradizionale possibile, eppure, paradossalmente, anche in quello meno probabile per due persone come loro per conoscersi: durante on Omiai.
    I nonni di Shiro, unici parenti rimasti dopo la morte dei suoi genitori, non si erano mai rassegnati al fatto che il loro nipote prediletto (nonché unico) fosse gay. Non importa quanto gli avessero detto di accettarlo, di non preoccuparsi, non importava nemmeno che Shiro, in diverse occasioni, gli avesse presentato il fidanzato del momento, ultimo di questi proprio Adam. I nonni erano gentili, accoglienti, ma dentro di loro credevano sempre che sarebbe stata una fase momentanea, che Shiro un giorno “avrebbe messo la testa a posto” e si sarebbe trovato una ragazza di buona famiglia da sposare.
    E sebbene cercassero di non darlo a vedere, accoglievano ogni naufragare delle relazioni di Shiro come un segno che quelle coi ragazzo erano destinate a essere relazioni momentanee e nulla più, anche se Shiro li aveva chiamati nel cuore della notte per lamentarsi della rottura con Adam, che era addirittura venuto a trovarli in diverse occasioni.
    Ma il loro “non ti meritava, vedrai che troverai una persona migliore” suonavano sempre troppo etero alle orecchie abituate di Shiro. Voleva bene ai suoi nonni, e sapeva che erano cresciuti in un altro periodo, per cui li lasciava fare e continuava per la sua strada.
    Certo non si aspettava che, a tradimento, i suoi nonni gli organizzassero un omiai. Era tornato dal Giappone da un paio di giorni, per le solite vacanze estive, e nell’aria non c’era alcun sentore della situazione, anche se, col senno di poi, aveva sentito i nonni bisbigliare in salone, mentre lui faceva colazione in cucina e non riusciva a capire esattamente quello che si stavano dicendo.
    Poi sua nonna era scesa, portando con sé uno degli abiti migliori di Shiro, uno di quelli per le grandi occasioni. Sia lei sia il nonno erano già vestiti di tutto punto, lei con un kimono che Shiro non ricordava di averle mai visto addosso.
    “Dobbiamo andare in un posto, Takashi,” le aveva detto sua nonna. “Per favore, metti questo.”
    “È un funerale?” aveva chiesto Shiro, quasi scherzando, ma la nonna era rimasta quasi scandalizzata.
    “No, no, è una cosa bella, vedrai.”
    Di nuovo, Shiro avrebbe dovuto sospettare della situazione, ma amava troppo i suoi nonni. Indossò il vestito buono, e seguì i nonni dovunque dovessero andare. Il nonni guidò fino a una villa ai confini della città, e Shiro la riconobbe perché era abbastanza popolare tra i ragazzi del quartiere.
    “Questa è villa Kogane,” disse suo nonno, mentre scendevano dall’auto. “Hanno una nipote che ha perso i genitori come te. Ha quattro o cinque anni meno di te, ed è una bellissima ragazza.”
    “Oh, no,” disse Shiro, finalmente capendo. “Non avrete.” Ma poi li fissò e capì che sì, avevano. “Io torno a casa.”
    Fece per tornare nell’auto, ma sua nonna lo bloccò per un braccio. “Per favore, Takashi, che figura ci fai fare se te ne vai adesso? Almeno incontrala. Potrebbe piacerti.”
    Shiro sospirò: era veramente inutile discutere a quel riguardo, c’era poco da fare. A sua nonna non entrava in testa che il problema erano le donne in generale e non il non aver trovato la donna giusta. Ma amava i suoi nonni e alla fine acconsentì.
    “Shirogane-san, prego.”
    Dopo le presentazioni di rito, Shiro fu accompagnato nella sala dell’incontro: Kumiku Kogane era già seduta ad aspettarlo, con un lungo kimono rosso che le copriva totalmente le gambe. Era, come aveva detto suo nonno, una donna bellissima, con lunghi capelli neri e un viso delicato da bambola, accentuato dalla acconciatura tradizionale e dal trucco leggero. Accolse Shiro con un breve inchino.
    Ma quando furono finalmente soli, Shiro seduto davanti a lei e al tavolino dov’era stato servito il tè, Kumiku alzò il viso e lo fissò con i suoi grandi occhi azzurri, decisi, pieni di fiamme.
    “Ho accettato questo omiai perché i miei zii hanno insistito, sono tradizionalisti, ma io non ho intenzione di sposarmi,” disse. “O per lo meno, sposarmi in quanto donna. Sono transessuale, e sono un uomo. I miei zii non sono ancora riusciti ad accettarlo, ma credimi quando ti dico che non sono la moglie che fa per te. Sono sicura che sia pieno di donne giapponesi là fuori interessate a sposarti.”
    “Oh,” disse solo Shiro, sbattendo le palpebre. La giornata stava diventando sempre più strana.
    “Ti ho detto tutto quello che dovevo dirti, quindi è meglio che la finiamo qui.”
    “Sono gay,” disse Shiro, perché tutta quella situazione lo aveva lasciato un attimo confuso.
    “Oh,” fu il turno di Kumiku di stupirsi. “Bene, cioè… perché hai organizzato questo omiai allora?”
    “Non sono stato io, sono stati i miei nonni, sono ancora convinti che io non abbia trovato la donna giusta,” sospirò stancamente Shiro. “Hanno organizzato tutto a tradimento, fosse stato per me non sarei nemmeno mai venuto.”
    Kumiku, che aveva fatto per alzarsi, si risedette. “A quanto pare, pur in errore, hanno trovato qualcosa in comune fra di noi.”
    “Già. Qual è il tuo nome?” domandò Shiro, “il tuo vero nome,” e finalmente un sorriso si aprì sul volto di Kumiku.
    “Keith.”
    Chiacchierarono per tutto il pomeriggio, e poi si scambiarono i numeri di telefono. Shiro tornò a casa con i nonni estremamente soddisfatti, e per il resto della sua permanenza non venne più disturbato.

    “Ti posso chiedere un favore?”
    Era sera tardi, Shiro era già nel suo letto, e l’unica ragione per cui era ancora sveglio era che stava terminando il primo libro di una saga che lo aveva preso particolarmente e che avrebbe sicuramente consigliato a Keith non appena l’avesse finita, con una delle sue recensioni mega-entusiaste.
    Keith era sulla soglia, il suo computer portatile in equilibrio sul braccio destro e aveva socchiuso leggermente la porta, quel tanto che bastava a farsi vedere, ma non abbastanza da vedere Shiro all’nterno, per ragioni di privacy.
    “Certo, vieni,” rispose Shiro immediatamente, mentre metteva in stand-by l’e-reader e lo appoggiava sulla comodina.
    Pensava che Keith dovesse chiedergli qualcosa sulle lezioni universitarie, invece Keith disse, “ti dispiace fare una videochiamata ai miei zii assieme a me? Chiedono sempre di te e non vorrei si stessero insospettendo. Io dico sempre che hai molto lavoro da fare, ma sai…”
    “Oh, ma certo,” disse immediatamente Shiro. “Non c’è nessun problema.”
    In effetti, avrebbero dovuto pensarci e rendere l’intera questione un attimino meno palese: dormivano separati, ovviamente, ma questo non era ciò che gli zii si sarebbero aspettati.
    “Vogliamo andare in salotto o in cucina?” propose Shiro.
    “No, qui va benissimo,” rispose Keith.
    Era rimasto sulla soglia, ma a quelle parole si avvicinò al letto. Shiro gli fece segno di accomodarsi, mentre si spostava lateralmente (aveva un letto matrimoniale, si stava comodi in due), ma Keith, invece di accomodarsi sulla parte libera del letto, si mise esattamente dov’era Shiro, spingendo le sue gambe dai due lati e sedendovisi in mezzo.
    “Così è più credibile,” disse, come a giustificarsi della situazione.
    “Ah, sì?” fece Shiro, scherzando, e gli avvolse le braccia attorno al corpo, e poi appoggiargli il viso sulla spalla. Keith si paralizzò giusto in attimo, a volte aveva ancora difficoltà con il contatto, ma poi si rilassò e sorrise.
    “Perfetto,” disse.
    Il pc venne appoggiato sul letto, lo schermo leggermente piegato, e Keith avviò la chiamata con i suoi zii, che apparvero contemporaneamente nello schermo.
    “Oh, Takashi-san, non pensavamo ci saresti stato anche tu,” disse uno di loro, con un lieve imbarazzo. “Non avremo voluto disturbarti.”
    “Ma come,” si accigliò Keith, “mi avete sfinito un sacco per chiedermi come stava.”
    “Sì, ma…”
    “Non c’è problema,” disse Shiro, mentre stringeva più strettamente le sue braccia attorno al busto di Keith, e gli poggiava un leggero bacio sulla guancia, facendolo ridere. “È solo giusto che sappiate che mi sto prendendo grande cura di Keith.”
    Ancora imbarazzati da quella palese manifestazione d’affetto, gli zii passarono immediatamente a discutere dell’università con Keith, ragione per cui Shiro fu certo che per un po’ non avrebbero più chiesto di fare chiamate unificate. A Shiro fecero qualche domanda di cortesia sul suo lavoro, e gli chiesero di confermare che Keith si stesse comportando bene, manco fosse un bambino.
    “Vi assicuro che si sta prendendo grande cura di me.”
    “È che sembra così sciatta… Non trovi che stesse meglio con i capelli lunghi, Takashi-san? E quei vestiti…”
    Shiro avvertì chiaramente la tensione in Keith sotto il suo abbraccio, quindi divenne serio e disse, “a me Keith piace proprio così com’è, e se a lui piace questo stile, allora piace anche a me.”
    “Grazie,” gli disse Keith, una volta che la chiamata fu terminata. “Pensavo si fossero rassegnati ormai…”
    “Ci mancherebbe, Keith. Il nostro matrimonio potrà essere una farsa, ma non lo è la nostra amicizia.”
    Keith sorrise. “Ti dispiace se dormo qui? È tardi e non ho voglia di tornare in camera mia.”
    “E’ solo dall’altra parte del corridoio, che pigro che sei,” rise Shiro, ma si limitò a spostare il pc sul tavolino e a fargli posto sotto le coperte. Keith si accoccolò al suo fianco, premendo contro di lui.
    Shiro si svegliò prima di lui la mattina successiva, al suono della sua stessa sveglia, e rimase quasi incantato mentre lo vedeva dormire, la testa mollemente adagiata sul cuscino e i capelli neri sparsi attorno. Poi Keith sbatté le palpebre, aprì gli occhi azzurri e sorrise a Shiro con uno sguardo languido.
    Con il corpo completamente attraversato da brividi, Shiro fuggì in bagno.

    Nei mesi successivi al loro combinato e bizzarro incontro, Shiro e Keith chiacchierarono a lungo, via skype, via telefono, via messaggi. In comune non avevano solamente i parenti, ma anche molti hobby e molti gusti. Shiro faceva l’ingegnere aerospaziale in una delle sedi dell’Ensa in Europa, mentre Keith mirava a studiare fisica astronomica. Erano entrambi dei nerd, soprattutto di serie di fantascienza, e non passava giorno in cui non trovassero una nuova discussione per ravvivare l’atmosfera (Picard vs Kirk, Enterprise vs Millennium Falcon).
    Shiro aveva imparato ad apprezzare i momenti della giornata che dedicava a Keith, anche quando non era in Giappone e quindi non potevano vedersi, ma anche solo sentire la sua voce gli faceva piacere. E così iniziarono anche a confessarsi le rispettive problematiche, soprattutto in riguardo alla loro sessualità.
    Un giorno Keith lo chiamò a un orario insolito, aveva avuto un episodio con sua zia che gli aveva causato un mezzo attacco di panico a causa della sua disforia, e non sapeva con chi parlarne. Shiro fece di tutto per calmarlo.
    “Lo sai,” disse Keith a un certo punto, “io ho un fondo fiduciario, l’avevano messo da parte i miei genitori nel caso fosse successo qualcosa, come infatti è avvenuto.” Erano entrambi morti in periodi diversi, a causa dei lavori pericolosi che facevano. “Mi piacerebbe usarli per pagarmi finalmente una psicologa e le operazioni che mi servono, e gli ormoni… ma non posso farlo finché sto a casa dei miei zii. Dovrei andarmene, lasciarli e cercarmi un lavoro da qualche altra parte, ma gli voglio bene, e mi vogliono bene, e non so cosa fare…”
    “Sposiamoci,” propose Shiro improvvisamente. Era un’idea cretina che gli era venuta in mente sul momento, ma ora che l’aveva formulata poteva funzionare.
    “Che cosa?” disse Keith incredulo.
    “Se ci sposiamo, potresti venire a vivere qui da me in Europa,” disse Shiro, “lasceresti casa dei tuoi zii senza che questi si preoccupino della tua condizione, e potrai continuare a frequentarli. E in Europa, se vorrai, potrai iniziare il tuo percorso di transizione. Saremo separati in casa, e potremo divorziare una volta che i tuoi zii avranno capito che è una cosa seria.”
    Keith rimase in silenzio a lungo. Poi disse, “ma per te? Non vuoi sposarti con qualcuno che ami?”
    “Certo che lo vorrei, ma purtroppo le miei relazioni sono fino a questo momento naufragante miseramente e non ho tanta voglia di mettermi in gioco di nuovo,” mormorò Shiro con un sospiro. “Tu non saresti male come coinquilino, sono sicuro.”
    “Che ne sai, magari sono uno di quelli che non lava mai i piatti,” scherzò Keith, con una risata. “Ma seriamente, non capisco come faccia la gente a mollarti così. Se un ottimo partito.”
    Shiro sorrise. “Allora mi sposi?”
    “Fammici pensare.”
    Lo chiamò un paio di giorni dopo, si era informato delle cliniche in Europa, dell’università, delle possibilità che aveva trasferendosi e sposandosi. “Facciamolo,” gli disse.

    “Posso farti vedere una cosa?” disse Keith, mentre Shiro era seduto sul divano a mangiare patatine e a guardare un documentario sul National Geographic. Keith era appena tornato a casa e aveva delle borse, chiaramente da vestiti di abbigliamento, in mano.
    “Certo.”
    “Solo se prometti di non ridere.”
    “Prometto solennemente di avere cattive intenzioni, aspetta, no, non era così.”
    Keith rise. “Sei proprio un nerd.”
    “È nella mia natura.” Poi sorrise. “Scherzi a parte, lo sai che puoi farmi vedere quello che vuoi e non ti giudicherò.”
    Keith annuì. “Be’, ti ricordi il lavoretto che ho trovato, temporaneo? Quello al bar dell’università.”
    “Certo che mi ricordo.”
    “Mi hanno pagato la prima mensilità, non è che siano così tanti soldi, ma quando li ho visti arrivare non ho resistito e….”
    Shiro scoppiò a ridere. “Fammi indovinare, li hai già spesi tutti.”
    “Avevi detto che non avresti riso!”
    “Scusa, scusa,” Shiro alzò le braccia, arrendevole, mentre Keith cercava di tirargli addosso i sacchetti che aveva in mano. “Ma l’ho fatto anche io, al primo stipendio, ho preso, sono andato alla fumetteria e ho preso tutta l’opera omnia di Tolkien, edizione speciale, comprensiva di un’action figure di Gandalf, solo trecento copie. Almeno tu hai comprato vestiti, quindi plaudo al tuo self control.”
    Fu il turno di Keith di ridere. “Va bene, perdonato solo perché mi sento meglio.”
    “Ma me li fai vedere allora sì o no?”
    “Aspetta un attimo.” Keith si precipitò nella sua stanza, si sentì da fuori un rimestare di scatole e carta, e cose leggere che venivano gettate sul pavimento, finché Keith non riemerse da dietro la porta, e Shiro si pentì di averglielo chiesto. Perché con quei vestiti, i jeans neri attillati con un leggero strappo sui lati, la maglia nera larga stretta con una cintura argentata, stivali neri che arrivavano alla coscia, e sopra una giacca di pelle rosso fiammante, be’, era davvero bellissimo.
    “Come sto?” Keith fece un giro su se stesso, in modo che Shiro potesse anche ammirare la curva del sedere sottolineata da quei pantaloni.
    “Hai buon gusto,” commentò Shiro, il cui corpo era completamente attraversato da un brivido.


    Si sposarono nella maniera più tradizionale possibile, per accontentare i loro parenti, i quali invitarono quante più gente possibile per dimostrare finalmente al mondo che i loro figli erano assolutamente normali e avevano fatto un matrimonio perfetto.
    Keith era bellissimo con il kimono bianco tradizionale, ma Shiro non glielo disse, perché sapeva che si trovava a disagio con tutta quella gente che ancora lo chiamava al femminile. Lo portò via dalla cerimonia il prima possibile, senza curarsi troppo dei festeggiamenti.
    Non fecero nemmeno il viaggio di nozze, con la scusa che Shiro aveva un progetto importante da ultimare e Keith doveva subito adattarsi al nuovo paese e iniziare al più presto l’università. Avevano deciso di comune accordo che non aveva senso fare il viaggio di nozze, essendo sposati per finta, ma avrebbero magari fatto più avanti un piccolo viaggio, come amici.

    “Vieni, ti faccio vedere una cosa!”
    Keith si precipitò in stanza, rise solo un attimo di Shiro che stava ammirando la sua (quasi inesistente) abbronzatura allo specchio, poi lo prese per un braccio e lo trascinò fuori dall’albergo.
    “Ti prego,” disse Shiro, a metà tra la supplica e la risata, “non un’altra serata alcolica, non credo di poterla reggere ancora. Ho ormai più alcool corpo che sangue.”
    “Che vecchio che sei,” ribatté Keith, prendendolo in giro.
    Ma non lasciò il suo polso, e continuò a trascinarlo finché non si lasciarono l’albergo prima e il villaggio poi alle spalle. Quindi Keith prese una viuzza laterale che, dalla discenza, probabilmente portava a una delle spiagge.
    Mikonos era stata la scelta più ovvia per la loro vacanza. In realtà sia Shiro sia Keith preferivano la montagna al mare, ma la ritrovata libertà di Keith li aveva spinti a provare a sentirsi come nel musical Mamma Mia! (un preferito di Shiro, con grande divertimento di Keith).
    E dopo cinque giorni di relax assoluto in spiaggia e di grandi bevute di cocktail la sera, e la quantità di gente che alternativamente cercava di provarci con Keith o con Shiro (e a volte anche con entrambi), Shiro ammise che non era stata una cattiva idea per niente, ma doveva anche ammettere di essere stanco e di desiderare di tornare alla normalità del lavoro.
    Però era curioso di capire che cosa Keith avesse in serbo per lui, quindi lo seguì pedissequamente finché non raggiunsero una piccola insenatura, che aveva a malapena lo spazio per una piccolissima spiaggia, e poi era composta di sole rocce. Era ormai sera, e così lontano dalle luci della città la zona era scura.
    In quel modo, era molto più facile vedere le stelle e la luna piena che brillavano nel cielo blu sopra di loro, e che si riflettevano nell’appena increspato mare quasi nero al di sotto, facendo credere a Shiro, per un momento, di essere immerso davvero nello spazio.
    “Questo posto me l’ha consigliato una signora all’albergo quando ha saputo che eravamo appassionati di astronomia,” spiegò Keith. “Mi ha detto che questo è un ottimo posto per osservare il cielo.”
    “Aveva ragione,” commentò Shiro, gli occhi alzati verso il cielo e la bocca spalancata. Fece un tentativo passo in avanti, temendo di scivolare perché non si vedeva bene il terreno scivoloso.
    “Sembra proprio di essere nello spazio,” disse Keith, dando voce agli stessi pensieri di Shiro.
    Si era seduto su una roccia proprio all’estremità dell’insenatura, i piedi a ciondoloni sull’acqua scura sotto di lui. Si teneva con le mani appoggiate, e aveva lo sguardo leggermente rivolto verso l’alto, fisso nella luminosa luna al di sopra. Questa e le stelle si riflettevano nei suoi occhi blu come facevano sul mare, e quella luce soffusa gli illuminava i capelli neri in modo da farli quasi luccicare.
    In un impeto di improvvisa dolcezza, Shiro pensò che di tutte le stelle, la più luminosa era proprio Keith, che lui aveva visto sorgere piano piano al suo fianco.
    “E’ davvero bellissimo.”
    “Già, bellissimo…” esalò Shiro.
    “E lo sai qual è un’altra cosa bella?” aggiunse Keith. “A quest’ora l’acqua è caldissima. Potremo farci il bagno immersi nella luce delle stelle.”
    “Ah, non ho portato il costume da bagno.”
    “E che problema c’è? Nemmeno io!”
    Un secondo dopo, Keith si era praticamente buttato in acqua, e Shiro ringraziò improvvisamente perché, per un attimo, aveva temuto che si sarebbe spogliato completamente e sarebbe entrato in acqua nudo come una vera ninfa dell’acqua.
    “Dai, vecchietto, l’acqua è bellissima!” lo chiamò Keith, che ormai si era allontanato e stava nuotando esattamente sotto la luce della luna. Quando Shiro lo raggiunse, non era sicuro se il brivido che provava fosse per il freddo, con i vestiti zuppi che gli si appiccicavano alla pelle, o per qualcos’altro.

    I primi tempi furono difficili per Keith, che di lingue conosceva solo il giapponese e qualche appunto di inglese, e non aveva amici al di fuori di Shiro. Ma si impegnò molto, prese diverse lezioni e finalmente iniziò a farsi strada da solo, senza più contare sull’aiuto di Shiro.
    Iniziò a farsi degli amici, trovò un lavoro temporaneo per poter contribuire alle spese di casa, l’università gli piaceva e andava bene. Era diventato ancora più bello di quanto non fosse in Giappone.
    Subito dopo l’arrivo in casa di Shiro, si era tagliato i capelli in un corto caschetto e aveva iniziato a indossare unicamente abiti che nascondevano la sua femminilità completamente. Poi Shiro gli aveva dato una mano a cercare un terapista e aveva iniziato a prendere degli ormoni. Si vedeva che aveva iniziato a essere a suo agio in quel nuovo corpo, e che ai suoi amici ci era presentato come Keith Kogane e ad alcuni di loro aveva anche raccontato del suo percorso di transizione. Stava anche iniziando a preparare il percorso per le operazioni da fare.
    I suoi zii, dopo il primo momento di smarrimento, parevano aver accettato la cosa, finché a Shiro andava bene, ed erano grati che nonostante tutto fossero riusciti ad accasare quello strano nipote a un buon partito.
    A Shiro faceva piacere semplicemente averlo in casa, parlare con qualcuno a colazione e a cena che non fosse solo Atlas, il suo gatto nero, anche se avevano ognuno la propria stanza e facevano degli orari molto diversi che spesso li portava a non vedersi per un paio di giorni, a cui rimediavano magari passando il sabato o la domenica assieme quanto possibile.

    “Che cosa sta succedendo?”
    Shiro si era svegliato nel cuore della notte sentendo degli strani rumori provenienti dal bagno, e per un attimo temette che fosse lo scarico intasato, o la lavatrice che stava dando i numeri. Di certo non si aspettava, sbirciando dalla porta spalancata, di trovare una ragazza bionda che vomitava rumorosamente nel suo cesso, con Keith che le teneva delicatamente la testa e le accarezzava i capelli.
    Keith ebbe almeno il buon gusto di sentirsi per un attimo imbarazzato. Non che dovesse qualcosa a Shiro, era adulto e maggiorenne e Shiro di certo non gli metteva il coprifuoco nelle sue serate.
    “Scusami, non volevo svegliarti,” disse. “Romelle ha lasciato il fidanzato ed era un po’ depressa, così ha bevuto un po’ troppo… non volevo farla andare a casa da sola in queste condizioni.”
    “Mi dispiace,” disse Shiro onestamente. Non si era di certo mai ubriacato così tanto, ma aveva subito delle rotture con precedenti fidanzati ed empatizzava con lo stato mentale successivo. Aprì lo sportello dei medicinali ed estrasse una scatoletta. “Falle mangiare qualcosa e poi dalle questo con qualcosa di caldo, è un toccasana.”
    “Grazie. Torni a dormire?”
    “Ci provo,” disse sorridendo. In tutta quella discussione, Romelle non sembrava aver fatto cenno di aver sentito l’arrivo di Shiro, e probabilmente era meglio così perché non era in una condizione in cui probabilmente avrebbe apprezzato farsi vedere. Mentre lasciava il bagno, sentì Keith le rivolgeva dolcemente delle parole di incoraggiamento a Romelle e si sentì involontariamente geloso.
    Riaddormentarsi non fu facile, finì a rigirarsi nel letto e a percepire le chiacchiere basse di Keith e Romelle dalla cucina, finché anche loro non si ritirarono in camera di Keith. La mattina dopo, quando finalmente aveva iniziato a sonnecchiare, venne svegliato di nuovo, questa volta da dei colpi molto forti che provenivano dalla porta dell’appartamento, e dal campanello che suonava incessantemente.
    “Aprite questa cazzo di porta o la sfondo!” gridò una voce maschile al di fuori. “Romelle! Aprimi e vieni a parlarmi, lo so che sei qui!”
    “Qualcosa mi dice che il tuo ex non ha preso molto bene la vostra rottura,” commentò Shiro gentilmente all’indirizzo di Romelle che, con indosso uno dei pigiami di Keith, non appariva particolarmente entusiasta, e ancora non particolarmente sobria, e stava attaccata al braccio di Keith come una bambina.
    “Che stronzo,” commentò Keith.
    “Immagino tu non voglia parlargli,” chiese Shiro gentilmente. Romelle scosse violentemente la testa, per cui Shiro aggiunse, “bene, chiamiamo la polizia, così gli passa la voglia.”
    “Non serve,” disse Keith.
    Si staccò Romelle dal braccio, camminò sicuro verso la porta e la aprì, rilevando un uomo grosso quanto Shiro, ma molto più basso, col pugno stupidamente alzato e la faccia rossa.
    “Romelle non ti vuole più vedere,” affermò Keith. “Vattene.”
    “Questo me lo deve dire lei! Romelle!” gridò l’uomo. Di risposta, Romelle gridò indietro, “vattene, non ti voglio più vedere!” e corse a nascondersi in bagno.
    “Romelle! Torna subito qui!” L’uomo fece per entrare, ma Keith lo bloccò con una mano sul suo petto.
    “L’hai sentita.”
    “Ma levati dal cazzo, puttana.”
    Avvenne tutto in un attimo: Keith lo afferrò per un braccio e, con una mossa di karate studiata, lo abbatté a terra e poi lo spinse fuori dalla porta. “Se ti fai rivedere ti spacco la faccia.” E poi sbatté la porta.
    “Che figo,” commentò Romelle, che si era affacciata alla porta del bagno e Shiro, sentendo un brivido dentro di sé, non poté far altro che annuire.

    Dopo più di un anno, la loro amicizia era diventata più forte che mai. Shiro temeva, inconsciamente, il giorno in cui Keith sarebbe arrivato a casa chiedendo il divorzio perché aveva finalmente incontrato una persona di cui si era innamorato e voleva vivere la sua storia senza sotterfugi.
    Non lo disse mai a Keith, ovviamente, per quello era parte dell’accordo ed era chiaramente stupido che Shiro se ne tirasse fuori in quel momento, millantando un improvviso amore che non era assolutamente previsto. Quindi taceva, per amor proprio e di Keith, e si limitava ad appoggiarlo durante il suo passaggio e ad essergli vicino come si supponeva che un buon amico avrebbe dovuto fare.
    E poi avvenne la quarantena.

    “Basta, non ne posso più!”
    Shiro esalò un sospiro amareggiato e si appoggiò allo schienale del sofa. Keith, che era seduto al suo fianco e sgranocchiava patatine mentre ascoltava un podcast col suo cellulare, si voltò in maniera sorpresa. Si tolse le cuffie.
    “Che succede?”
    “Non ne posso più di questa quarantena. Mi sto sciogliendo. Mannaggia a me quando ho pensato che non mi servisse una casa con un giardino.” Sospirò ancora. “E poi sto lavorando come un matto, tutti hanno preso questa cosa del telelavoro come una sfida a chi manda le mail più tardi, credo che per ora sia in vantaggio Matt che l’ha mandata alle sei del mattino, ma dopo essere stato sveglio tutta la notte.”
    Con un terzo sospiro, affondò la testa nelle mani. Keith alzò i piedi dal tavolinetto basso dove li aveva appoggiati, e li usò per abbassare lo schermo del pc che Shiro aveva sulle ginocchia, quindi glielo tolse e lo appoggiò a terra, ma continuando a tenere le gambe su quelle di Shiro.
    “Perché non ti prendi un giorno di riposo?” gli propose allora. “Possiamo fare qualcosa noi?”
    “Tipo?”
    “Non lo so, guardare un film, fare una partita a scacchi 3D, baciarci, provare un corso di cucina on-line…”
    “Baciarci?” fu l’unica cosa che percepì Shiro.
    Keith fece una risatina nervosa. “Sono solo idee. Pare che il sesso sia un ottimo modo per smaltire calorie.”
    Probabilmente era la quarantena che lo spinse a parlare. “Sei così bello, Keith, e io non ce la faccio più ad averti attorno così tanto. Ti guardo continuamente e vorrei baciarti continuamente, ogni parte di te. Non era previsto dal nostro accordo, ti chiedo scusa, ma non l’ho fatto apposta a innamorarmi di te. E almeno prima potevo evitarti, sperare che mi passasse, ma adesso…”
    Keith sbatté le palpebre. “Sei innamorato di me?”
    “Da tempo, ormai. E te l’ho detto nel momento peggiore, vero, quando sei obbligato a stare in casa con me… adesso mi chiudo in camera con la mia vergogna e non mi vedrai più fino alla fine della quarantena.”
    “Shiro,” disse Keith seriamente. “Sono mesi che sto cercando di flirtare con te. Pensavo che non ti interessassi.”
    “Tu… cosa…” E improvvisamente tante delle situazioni che erano capitate negli scorsi mesi apparvero sotto una luce completamente diversa, a cui Shiro non aveva mai pensato. “Potrei aver frainteso alcune situazioni a nostro riguardo.”
    “Okay,” disse Keith, spostandosi per mettersi direttamente in faccia a Keith. “Sono innamorato di te, e voglio che mi baci, adesso, e che spendiamo il resto della quarantena a fare sesso per impegnare il tempo. Pensi che si possa fare?”
    “Sì? Credo di sì.”
    E poi lo baciò, e riavvertì di nuovo quel brivido che aveva costellato le sue interazioni con Keith da quella famosa vacanza a Mikonos, e fu come se ogni cosa fosse finalmente arrivata al punto giusto, e la cosa migliore era che avevano già bruciato tutte le tappe e quell’uomo meraviglioso era già suo marito. Lo afferrò e lo prese in braccio per portarlo in camera da letto, a consumare la prima notte di nozze.
    “Iniziamo a passare il tempo da adesso.”
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