Un'amicizia pericolosa

[Voltron Legendary Defender] nsfw, mafia!AU

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    Capitolo 1

    La prima volta che Shiro incontrò Keith, lui era dall’altra parte del vetro di una sala interrogatori.
    “Quello è un pezzo grosso,” gli aveva sussurrato Matt, passandogli il fascicolo, e Iverson stesso aveva chiesto a Shiro di essere lui a interrogarlo, in quanto “trattasi di un osso duro”.
    Ma la realtà era che non c’era assolutamente niente nel fascicolo su Keith Kogane, solo tonnellate e tonnellate di illazioni che lo mettevano al centro di droga, prostituzione, omicidi e altri crimini generali compiuti dalla malavita locale che imperversava per le strade di Garrison. Ma di prove, non ce n’era nemmeno mezza, a parte la certezza che Keith appartenesse alla mafia, che purtroppo di sé non era un reato, avere dei parenti che erano stati arrestati.
    Dopotutto, lo stesso arresto di Keith era stato fatto per eccesso di velocità su una moto rossa fiammante (una moto che Shiro si era ritrovato a invidiare particolarmente) e non certo per uno qualsiasi dei reati che senza prove gli venivano attributi nel fascicolo. Sarebbe stato fuori non appena pagata la multa, a meno che non confessasse, o che riuscissero a incastrarlo in qualche modo.
    Shiro lo osservò dal vetro: indossava una camicia rossa sotto un completo nero, e in quel modo aveva un aspetto elegante ma allo stesso modo un attimino pericoloso. Era un bell’uomo, con capelli neri tenuti leggermente lunghi, e profondi occhi azzurro su un viso delicato. Eppure gli occhi erano duri, dimostrando che era un uomo che sapeva affrontare la vita dura che gli veniva messa davanti. Durante l’arresto aveva subito un leggero infortunio, e i livido rosso sulla guancia gli dava un’aria da bad boy.
    Con un ultimo sospiro, Shiro si tolse la giacca, appese alla cintura il distintivo in bella vista ed entrò: Keith Kogane non era ammanettato, ma Shiro pensava che non avrebbe tentato nulla, e difatti non si mosse nemmeno dalla sedia, semplicemente tirando a Shiro un’occhiata curiosa.
    “Sono il Detective Shirogane,” si presentò.
    “Ah,” disse Keith, e lo scrutò con attenzione. Poi un sorriso si formò sul suo volto. “Sono forse accusato di qualcosa?”
    “Per ora no, a parte per eccesso di velocità,” disse Shiro appoggiando il faldone sul tavolino. “Ma vorrei farti alcune domande, se non ti dispiace.”
    “Prego, almeno mi aiuteranno a passare il tempo.”
    Shiro estrasse tre foto: erano tre negozianti che erano stati uccisi per non aver pagato il pizzo, un colpo di pistola alla nuca, tipica esecuzione pulita. Le sistemò in fronte a Keith.
    “Hai mai visto queste persone?”
    “No.”
    “Sei sicuro? Secondo i testimoni, tu eri attorno a quella zona quando sono stati uccisi.”
    “Quando è successo?” domandò allora Keith.
    “Due settimane fa, un venerdì sera. Il quartiere di Taujeri.”
    “Vado spesso in quel quartiere, c’è il mio meccanico di fiducia. Hunk Garrett. Potete controllare.”
    “Lo faremo,” annuì Shiro. Poi estrasse un’altra fotografia: questa volta il corpo era orribilmente mutilato, la faccia era stata colpita ripetutamente con un oggetto contundente che aveva completamente alterato i tratti facciali, e le dita di entrambe le mani risultavano rotte e piegate in una maniera innaturale. Al vedere quella foto, Keith fece una smorfia di stizza, e Shiro pensò che sembrava quasi autentica.
    “Sai qualcosa di questo?”
    “Mi dispiace, non si vede nemmeno il viso di questo poveraccio. Sapete chi è?”
    “No, speravamo ce lo dicessi tu.” Estrasse un altro foglio. “Aveva questo in tasca.” Era la fotocopia di un biglietto da visita, con scritto Keith Kogane, un numero di telefono usa e getta e il simbolo di un serpente su un lato.
    “C’erano le mie impronte sopra?” domandò immediatamente Keith.
    “No. Non abbiamo identificato le impronte di nessuno.”
    Keith annuì. “Qualche tempo fa lasciavo il mio biglietto da visita in giro per i negozi, a mucchietti, a disposizione di chiunque fosse interessato. Posso provare a fare una lista, magari la vittima è passata per uno di questi posti?”
    “Che lavoro fa, signor Kogane?”
    “Sono un tuttofare,” rispose Keith con un’alzata di spalle. “A volte la gente ha bisogno di una mano… e io gliela do. Tutto qui.”
    “Dà una mano alla gente anche a commettere degli omicidi?” domandò Shiro, incalzandolo. “È un nome in codice per killer di professione?”
    “Mi pare che il mio biglietto da visita lo avesse la vittima, non l’assassino,” rispose Keith calmo.
    L’interrogatorio continuò per un po’, curiosamente Keith non chiese mai un avvocato, non perse mai la calma, si limitò a continuare a rispondere alle domande di Shiro, e allo stesso tempo ne poneva alcune, che qualche volta a Shiro sembravano sincere.
    Poi Iverson bussò alla porta della sala interrogatori, e Shiro uscì in tutta fretta per andare a vedere che cosa volesse. “Purtroppo non ho niente in mano,” gli comunicò.
    “Ho sentito,” annuì Iverson. “Fai così, spaventalo un attimo, e poi lo lasciamo andare. Proveremo a mettergli qualcuno alle calcagna quando uscirà di qui.”
    Shiro annuì e rientrò nella stanza. “Problemi?” domandò Keith, e c’era un sorriso furbo sul suo volto.
    “No,” disse Shiro spiccio. Raccolse tutte le fotografie e i fogli che aveva mostrato a Keith e li ripose nuovamente nella sua cartella. “Io non so come fai, ma so che c’entri con almeno metà di questi casi. Per questo ti dico: ti beccherò, prima o poi. Guardati alle spalle, perché io sarò dietro di te.”
    “Preferirei davanti,” disse Keith, e senza che Shiro se ne rendesse conto Keith l’aveva afferrato per la cravatta e lo aveva tirato verso il tavolino, ma non era stata un’azione malevola. Keith gli tenne la giacca il tempo necessario per baciarlo, labbra contro labbra.
    “Alla prossima, Detective,” disse alzandosi e lasciando la stanza.
    La coppia di poliziotti a cui Iverson aveva chiesto di sorvegliarlo non appena era uscito dal commissariato lo persero d’occhio due isolati dopo, e di lui si persero del tutto le tracce per diverso tempo. Ma Shiro non scordò mai quella cartella, né quell’incontro, né quel bacio.

    La seconda volta che Shiro incontrò Keith fu un puro caso. Shiro era passato nel quartiere degli Olkari a interrogare un sospettato per un caso, poi aveva chiesto a Matt di tornare in commissariato da solo, perché c’era qualcosa in testa sul caso che non riusciva a mettere a fuoco, e di solito camminare e rinfrancare un po’ il corpo invece di chiudersi e sedersi alla scrivania lo aiutava a ragionare meglio sulle questioni.
    Così, mentre camminava per il marciapiede in maniera casuale, vide Keith attraversare la strada in maniera circospetta. Non indossava più la camicia rossa che lo contraddistingueva, ma un normale completo nero, come qualsiasi businessman della city. Si guardava intorno con aria circospetta, e senza nemmeno pensarci Shiro si nascose dietro una macchina in modo che non lo vedesse.
    Lo seguì mentre sgusciava tra una sbarra e l’altra di un vecchio cancello arrugginito. Shiro attese qualche minuto, quindi procedette a seguirlo. Si ritrovò all’interno del giardino di una vecchia villa, che a parte quel cancello di ferro arrugginito, era completamente nascosta alla vista da alte mura scrostate. Il giardino era ormai ridotto a una foresta, con l’erba che arrivava quasi all’altezza della vita di Shiro.
    Anche la villa stessa sembrava abbandonata: i muri erano scoloriti, in molti punti l’intonaco era caduto rivelando dei mattoni rossi sottostanti, e la maggior parte delle finestre al piano superiore erano aperte, con i vetri completamente caduti e gli infissi di legno marci. Eppure, la porta d’ingresso, sebbene vecchia, era chiusa a chiave, e le finestre ai piani inferiori erano chiuse e con vetri perfettamente intatti, il che era sospetto.
    Shiro fece un giro attorno alla villa e individuò una finestra aperta, con il vetro che era stato spaccato apposta per entrare. Se fosse stato uno dei nascondigli segreti di Keith, avrebbe forse scassinato la finestra per entrare? Improbabile. Shiro balzò sopra e entrò nella villa: l’interno a livello estetico non era ridotto molto meglio, le pareti andavano imbiancate e avevano sicuramente visto giorni migliori. Eppure l’area era troppo pulita per una villa abbandonata, sembrava essere stata pulita di fresco.
    Raggiunse poi una sala, che aveva delle sedie e un tavolino che erano chiaramente stati portati lì da poco, per cui doveva essere il covo segreto di qualcuno. Shiro sapeva che da parte sua era illegale stare dentro, per cui decise di tornare indietro e chiamare Iverson per farsi mandare un mandato, o almeno la richiesta di sorvegliare la villa. Aveva fatto un passo al di fuori della stanza, quando si sentì tirare per un braccio e spingere dentro una saletta laterale.
    “Fermati subito-” cercò di protestare, mentre con la mano tentava di raggiungere la sua pistola, ma Keith lo sbatté contro la parete e lo tenne fermò con una mano sulla sua bocca.
    “Shh,” gli disse, “o ci scopriranno.”
    Chi ci scoprirà, avrebbe voluto chiedere Shiro, ma in quel momento sentì dei rumori provenire dall’altra parte della porta, che era rimasta socchiusa e da cui penetrava un sottile raggio di sole. Era una porta che si apriva, rumore di passi (almeno quattro persone, contò Shiro) che entravano, le sedie che venivano spostate, qualcosa che veniva sbattuto e trascinato, rumori soffocati.
    Guardò Keith interrogativo, e allora lui, che aveva sempre una mano sulla bocca di Shiro, e un’altra sulla sua, scosse appena la testa. Non era ancora il momento di muoversi.
    “Va bene, gente,” disse una voce, “non ho tempo da perdere e mi sono già rotto il cazzo.”
    “Io non so niente, lo giuro, niente!” gridò un’altra voce, supplicante e piangente.
    “E già partiamo malissimo,” rispose l’altra voce. “Avanti.”
    “No, no, no, no, per favore!” E poi le suppliche si tramutarono in un lungo grido di dolore.
    Solo in quel momento Keith levò la mano dalla bocca di Shiro e gli fece cenno di avvicinarsi alla porta, il suono del grido che coprì i loro due passi mentre cercavano di sbirciare entrambi dalla fessura della porta. Fortunatamente, dalla posizione in cui erano Shiro dubitava che gli uomini nell’altra stanza li potessero vedere, ma trattenne comunque il fiato e spostò la mano sulla pistola.
    C’erano, come aveva preventivato, quattro uomini nella stanza, due dei quali tenevano un quinto premuto con la schiena sul tavolino, le braccia davanti a lui, i piedi legati a terra. Un altro sorvegliava la porta, mentre un altro, quello che aveva parlato fino a quel momento, stava di fronte al prigioniero, il quale aveva un coltello conficcato nella mano, che gliela teneva bloccata sul tavolino.
    L’uomo piangeva, e Shiro digrignò i denti, ma sentì la presa di Keith sul suo braccio e tentò di calmarsi. Ormai era troppo tardi per chiamare i rinforzi.
    “Una mano è andata,” disse l’uomo. “Ha ancora l’altra, e tutte le dita, per ora. Ma non a lungo. Adesso rispondi alla mia domanda: dove si trova Lotor?”
    “Non lo so… non me lo ha detto…”
    “Non è una risposta accettabile.” Estrasse dalla tasca un altro coltello e senza preavviso lo ficcò nel suo dito mignolo: anche da quella posizione Shiro poté notare il dito che si staccava e il sangue che si spruzzava attorno. “Meno uno,” disse l’uomo con calma, lasciando che il prigioniero continuasse a piangere, mentre ripuliva il coltello dal sangue sulla giacca dello stesso prigioniero.
    “Non lo so dov’è Lotor, lo giuro… lui si fida solo dei suoi generali… forse i Marmora potrebbero saperlo…”
    “I Marmora, eh?” L’uomo sembrò finalmente soddisfatto. “E che cosa sai dei Marmora?”
    “Non so niente,” disse l’uomo. “So solo che Lotor doveva incontrarli, non so dove, né quando. Ne ha solo parlato. Non so nemmeno chi.”
    Il coltello affondò ancora una volta, e a saltare fu il dito indice, e un altro grido si levò per l’intera villa, risuonando nei corridoi vuoti. A quel punto, Shiro non ce la fece più: erano solo quattro uomini, per quanto armati. Gli era capitato di battersi con più persone.
    Si liberò dalla presa di Keith, nonostante questi tentasse di fermarlo, e spalancò la porta. “Fermi, polizia!”
    La sorpresa fu sufficiente a Shiro per gambizzare i due uomini che tenevano prigioniero l’uomo da torturare, i quali caddero a terra afferrandosi la gamba ferita con le mani, poi passò all’altro uomo, quello che sorvegliava la porta, che però era praticamente già scappato.
    Rimase solo l’uomo che probabilmente era il capo, mentre il prigioniero era rimasto fermo, la mano stretta nel coltello che lo teneva fermo, singhiozzando leggermente. Shiro fece qualche passo avanti, sempre tenendo sotto mira l’uomo.
    “Metti giù il coltello.”
    L’uomo non sembrò essere minimamente scalfito dalla presenza di Shiro nella zona. Guardò con un misto di disgusto i suoi uomini che si lamentavano a terra, poi riportò lo sguardo su Shiro.
    “Non mi piace essere interrotto mentre conduco un interrogatorio,” disse, “ma penso che per il Campione potrei fare un’eccezione.”
    Shiro digrignò i denti appena. Fuori dalla polizia, erano in pochissimi a conoscere i trascorsi che avevano portato Shiro a perdere un braccio e alla cicatrice sul viso, e all’esterno gli unici che potevano saperlo erano quelli che avevano contributo a procurarglieli. Naturalmente, Shiro dava loro la caccia, ma la sua PTSD gli aveva fatto perdere molti ricordi di quel periodo.
    “Deduco dalla tua espressione che tu di sia dimenticato di me,” continuò l’uomo. “Sono molto deluso, Campione.”
    Ma c’era un modo di fare nei suoi gesti, un modo di dire quel nome che fece affiorare qualche ricordo alla mente confusa di Shiro, e lui si ritrovò a paralizzarsi per un attimo, quanto fu sufficiente per l’uomo a lanciare il suo coltello. Shiro riuscì a scostarsi appena in tempo, e si ritrovò con un taglio sulla fronte che iniziò a sanguinare copiosamente.
    Il dolore lo accecò per un attimo, e l’uomo fu su di lui, artigliandogli la mano che teneva la pistola. Shiro tentò di colpirlo con un pugno, ma la faccia dell’uomo sembrava di marmo. Poi l’uomo gli tirò una testata, e Shiro perse la presa sull’arma, strisciò per recuperarla ma l’uomo fu più rapido, in un attimo era su di lui, la pistola alzata, e Shiro era tenuto a terra per le gambe, faccia a terra. Fece per scostarsi e poi sentì una serie di spari in successione.
    Il peso sparì dalle sue gambe e immediatamente Shiro si alzò per difendersi, e vide Keith che tentava di disarmare l’uomo, la pistola che era però ancora saldamente nelle sue mani. Allora Shiro si guardò intorno e ritrovò il coltello che gli era stato lanciato in precedenza. Lo prese e lo conficcò nella gamba dell’uomo, che per il dolore e per lo spavento gridò e lasciò cadere l’arma.
    Keith la prese immediatamente, ma poi afferrò Shiro e lo trascinò verso la finestra. “Dobbiamo andare, cosa credi, l’uomo che è scappato sarà andato a chiamare i rinforzi.”
    “Non vi farò scappare!” gridò l’uomo, che si era appena tolto il coltello dalla gamba e ora zampettava di nuovo verso la stanza, cercando di prendere una delle pistole dei suoi uomini. Con rabbia, Shiro seguì Keith all’esterno. Si accucciarono tra l’erba verde e alta proprio mentre nel vialetto entravano altri cinque uomini armati e proseguivano verso la villa.
    “Ora, prima che ci scoprano,” ordinò Keith, e si precipitò fuori seguito da Shiro. Si sentivano delle grida nella villa, e Shiro su stupito nel vedere che non c’erano persone attirate dalla situazione. Keith ruppe con il gomito il finestrino di un’auto parcheggiata giusto lì fuori, aprì la portiera, la attivò con i cavi.
    “Guida tu, per favore,” disse a Shiro.
    Lui stava per protestare, ma poi sentì le voci degli uomini e obbedì. Keith saltò a bordo al suo fianco e sfrecciarono via nella strada deserta. Una volta che Shiro fu abbastanza sicuro che se ne fossero andati prima che avessero potuto seguirli, disse, “chi era quella gente? Il nome di Lotor mi è familiare, ma…”
    Non ricevette risposta da Keith, quindi, appena arrivati al semaforo si voltò e vide che Keith si era accasciato sul sedile, la testa leggermente piegata di lato, e aveva fatto cadere dall’auto la pistola di Shiro che aveva portato con sé. Avrebbe potuto sembrare addormentato, se non fosse stato per la macchia rossa di sangue che gli si stava allargando sulla camicia.
    Shiro sbiancò, e parcheggiò immediatamente per dargli un’occhiata rapida: gli slacciò la camicia e verificò che i proiettili non avessero colpito punti vitali, ma stava perdendo molto sangue. Shiro si tolse la sua giacca e, con le due giacche arrotolate, cercò di fare pressione. Poi riprese a guidare con le mani insanguinate, e la sua mente prese immediatamente una strada che non era quella dell’ospedale.
    Non poteva portare Keith all’ospedale, col rischio che trovassero il modo di arrestarlo, dopo che gli aveva salvato la vita. Così, andò a casa di suo fratello Ryou.
    Abitava in un quartiere mezzo deserto e malfamato di periferia, e spesso esercitava la sua professione di medico a pagamento illegalmente, proprio per questo genere di situazioni. In quel quartiere nessuno avrebbe fatto caso a un’auto con il volante e uno dei sedili completamente insanguinati. La parcheggiò comunque a un centinaio di metri dalla casa di Ryou, poi prese Keith ancora svenuto fra le braccia e andò a suonare al campanello, con insistenza.
    “Sto arrivando!” venne la voce scocciata di Ryou dall’interno. “Si può sapere chi oh!” si bloccò, appena vide Shiro.
    Non aveva idea se la sorpresa di Ryou fosse per la sua stessa presenza o per il fatto che avesse un ragazzo svenuto fra le braccia, ma non era il momento di farsi quelle domande. “Per favore, aiutami. È stato ferito nel tentativo di difendermi.”
    Ryou era un uomo di poche parole e molti fatti: si scosto per farli entrare, poi chiuse la porta alle sue spalle. “Appoggialo lì sul divano,” ordinò, mentre andava a prendere i suoi strumenti e i guanti. Shiro osservò con attenzione, mentre Ryou toglieva la giacca a Keith e esaminava le ferite, che avevano ripreso a sanguinare copiosamente.
    “Metti su l’acqua,” ordinò di nuovo a Shiro, “e in camera da letto procurami delle pezze bianche pulite.”
    Continuarono così, con Ryou che dava ordini secchi e decisi e Shiro che gli obbediva, finché non ebbe estratto i tre proiettili dalla spalla di Keith, non ebbe cicatrizzato i fori dei proiettili con il filo e ebbe fasciato la ferita completamente.
    “Starò bene,” assicurò infine a Shiro, togliendosi i guanti e concedendosi uno stanco sospiro. “Dovrà stare a riposo parecchio per il sangue che ha perso, ma nessuna delle ferite era mortali, altrimenti non avrei potuto farci niente nemmeno io.”
    “Grazie mille, Kuro.”
    Ryou sorrise. “In che guaio ti sei cacciato questa volta, Takashi?”
    “Ci credi che non ne sono sicuro nemmeno io?” Poi guardò il viso addormentato di Keith, che sembrava più pacifico rispetto a prima. “So solo che ci sono un sacco di cose che non sappiamo sulla mafia, e che nonostante sia un mafioso Keith mi ha salvato la vita.”
    “Già, così mi hai detto.” Ryou gli toccò delicatamente il viso e lo alzò, per osservare la ferita che Shiro aveva alla fronte. “Devi disinfettare anche questa.”
    “È solo un graffio.”
    “Il medico sono io. Adesso ti disinfetti e poi vai a dormire. Non c’è altro che possiamo fare adesso.”

    Keith si svegliò un paio di giorni dopo, confuso, tornò a dormire. Il terzo giorno fu abbastanza lucido da muovere la testa, e individuare i due fratelli che lo vegliavano dalle sedie accanto al suo letto.
    Tossì. “Due Detective Shirogane?” disse. “Sto ancora sognando?”
    “Questo è mio fratello Ryou,” gli disse Shiro. “Mi ha aiutato a rimetterti in sesto.”
    Keith sorrise. “Grazie per non avermi portato in ospedale.”
    Non era la prima cosa che Shiro si aspettava da lui, ma sorrise un attimo imbarazzato. Ryou si alzò. “Voi due avete un po’ di cose da dirvi, e Keith presto avrà fame, quindi vado a preparare qualcosa.”
    Una volta che Ryou fu uscito dalla stanza, Shiro si fece più vicino con la sua sedia, e Keith provò ad alzarsi un pochino più diritto, ma Shiro lo fermò con la mano e lo costrinse a sdraiarsi di nuovo sul letto.
    “Rilassati, sei al sicuro qui,” e poi aggiunse, “grazie per avermi salvato.”
    Keith lo guardò con i grandi occhi blu. “Io penso che tu sia una brava persona, Detective. Non penso meritassi di morire, anche se quello è stato stupido. Altruista, però. Parte del tuo fascino.”
    “Non credo alla fine di essere riuscito a salvare quel poveretto,” disse Shiro.
    “No, Sendak probabilmente avrò terminato il suo interrogatorio da un’altra parte e poi l’avrà ammazzato a fatto a pezzi, quello è il suo stile.” Tacque un attimo. “Ti ricordi quella foto che mi hai mostrato, con la vittima terribilmente sfigurata e le dita rotte? Sono convinto che sia opera di Sendak anche quella. Ma, se ti può consolare,” aggiunse, “molte delle vittime di Sendak sono mafiosi, rivali suoi, ma pur sempre gente che forse non meritava di essere salvata.”
    “Tu non meritavi di essere salvato?” domandò Shiro.
    “Forse no,” disse Keith, volgendo lo sguardo dall’altra parte.
    “Che cos’è successo veramente in quella stanza, Keith? Che cosa sta succedendo?”
    “Anche se lo sapessi, non credo che cambierebbe qualcosa, Detective.”
    “Per me forse sì.”
    Keith sospirò. “C’è una faida in corso fra due gang rivali, che cercano di prendere il controllo della città. Una è comandata da Sendak, il simpatico torturatore che hai visto nella stanza, l’altro è Lotor, uno che è ammanicato con la politica e gioca sporco, almeno per i dettami della mafia. È uno che invece di ammazzarti cerca di farti arrestare.”
    “Non so perché ma tenderei ad essere più dalla parte di questo Lotor,” sorrise Shiro. “Tu invece da che parte sei?”
    “Nessuna,” disse Keith. “Io cerco di arrabattarmi e sopravvivere, e cercare di far sopravvivere anche la mia famiglia nel frattempo. Non ho scelto io questa vita, ma ci sono immerso fino al collo e non posso farci più niente ormai.”
    “Non credo sia vero,” rispose subito Shiro. “C’è sempre una via d’uscita, se non vuoi fare questa vita. Io posso aiutarti-”
    “Se parlassi, comunque mi beccherei degli anni di galera, e finirei ammazzato nelle docce alla prima occasione.”
    “Potrei farti entrare nel programma di protezione testimoni.”
    “Non voglio scappare per tutta la vita.” Keith fece una smorfia. “Io ti ringrazio, detective, per tutto, ma guarda che quel bacio non significava davvero niente.” Si voltò dall’altra parte. “Adesso voglio riposarmi. E poi voglio tornare a casa.”

    Inutile dire che Shiro non si diede pace, né per quello che era successo, né per quella conversazione. Passò il tempo sul lavoro, cercando di concentrarsi, ma odiava quella sua debolezza, e poi anche il fatto che era tornato alla villa e l’aveva trovata completamente vuota e linda gli aveva lasciato dentro di sé un senso di impotenza totale, come se il mondo girasse attorno a lui senza che lui avesse veramente una presa sugli eventi.
    Esattamente come quando era prigioniero.
    Tornò dalla psicologa.
    Doveva capire chi era Sendak e perché lo conosceva, così si affidò a una cura che aveva sempre avuto paura a fare, quella della ipnosi. Si buttò tutto in quello, e prese a rivivere molti ricordi del suo passato, del periodo della prigionia. La maggior parte delle visioni finiva nel sangue, il sangue che lui stesso aveva versato e che gli impiastricciava i capelli e le mani e i vestiti e lo faceva svegliare urlando la notte.
    E in una di queste visioni, alla fine, vide anche Sendak.
    Shiro era ancora prigioniero, legato con lunghe catene ai polsi che lo tenevano sollevato da terra qualche centimetro. Era passato un po’ di tempo dall’ultima lotta, per cui la maggior parte delle ferite di Shiro, sul suo petto nudo, si era cicatrizzata. Shiro respirava a fatica per la difficoltà a mantenere quella posizione, sentiva i muscoli delle braccia che gli dolevano e temeva che si spezzassero e staccassero dalle spalle.
    “Lo sai,” disse Sendak, mentre camminava davanti a lui e giochicchiava col suo coltello. “Io ti ammiro davvero molto, Campione. Sei così feroce nell’arena, così temibile. Saresti un socio perfetto, ma purtroppo sei un poliziotto. E purtroppo Lotor ha messo gli occhi su di te, vuole usarti per farmi crollare e cadere.”
    “Non so nemmeno chi sia Lotor.”
    “E non dovrai mai saperlo,” ribatté Sendak. “Io avrei scommesso su di te, nella battaglia di domani, ma adesso non posso più permettermelo. Devi perdere, e morire.”
    Shiro sorrise leggermente. “Non te lo posso garantire.”
    “Lo so, per questo devo farlo da solo.”
    Senza preavviso, Sendak gli ficcò il coltello nel braccio destro. Shiro urlò, e cercò di agitarsi nei suoi legacci, e di allontanare Sendak tirandogli dei calci, ma Sendak sembrava non sentirli nemmeno. Continuò ad affondare il coltello nella carne di Shiro ripetutamente, fino a strappargli la carne, il sangue che scendeva a fiotti e il dolore che si faceva sempre più intenso, l’osso che veniva scheggiato coltellata dopo coltellata.
    Poi, all’improvviso, Sendak smise e per un attimo sembrò che il mondo si fosse fermato. Poi la forza di gravità fece il resto e l’osso, già compromesso, si spezzò e Shiro si ritrovò appeso solo per uno, con un dolore diverso ma sempre intenso da ambo le parti.
    “Se sopravvivrai a questo, morirai comunque domani nell’arena.”
    Invece Shiro era sopravvissuto, in entrambe le occasioni. E adesso sapeva chi era Sendak, e che cosa gli aveva fatto.

    La prima cosa che fece dopo la seduta, fu andare a cercare la casa di Keith. Scoprì che viveva nel quartiere residenziale della città, ben lontano dalla violenza delle gang e dalle strade che la mafia controllava, in una grande villa che abitava da solo, senza nemmeno un servitore. Era una villa dei tempi antichi, con le grandi stanze, gli arazzi, gli affreschi. Al contrario di Shiro, Keith non sembrava impressionato da tutto quello sfarzo.
    Aveva accolto con sorpresa l’arrivo di Shiro, ma lo aveva fatto entrare con espressione neutra e poi lo aveva fatto accomodare in uno dei salotti, senza nemmeno offrirgli del tè o dei biscotti, come Shiro si sarebbe aspettato vista l’atmosfera da palazzo reale.
    “Che cosa posso fare per te, Detective Shirogane?” chiese Keith stancamente. Aveva addosso di nuovo la camicia rossa, per cui Shiro non poteva vedere se era ancora bendato sulla spalla.
    “Ho deciso di andare sotto copertura,” affermò Shiro. “Non è ancora definitivo, Iverson sta spingendo in questa direzione ma visti i miei… trascorsi, alcuni in comando non sono molto favorevoli. Ma io voglio farlo. Ho scoperto quello che Sendak mi ha fatto, e devo fermarlo.
    “Non mi sarei aspettato niente di diverso da te,” replicò Keith in tono neutro. “Ma perché lo stai dicendo a me?”
    “Voglio che sia tu a introdurmi nell’ambiente,” disse Shiro.
    “Assolutamente no.”
    “Perché no?”
    “Non voglio averti sulla coscienza.”
    “Sono sopravvissuto all’arena a lungo, e pure senza un braccio. Solo perché mi hai salvato una volta, non credere che io abbia bisogno della tua protezione,” gli fece presente Shiro. “la questione è questa: io lo farò in ogni caso, tu puoi decidere di darmi una mano, cosa per cui te ne sarò grato, oppure non farlo, ma io sarò lì a battermi contro Sendak comunque, e forse dovrai salvarmi il culo ancora e ancora, per cui magari vorresti farlo con un po’ più di consapevolezza.”
    Keith sorrise. “Non riuscirò a farti cambiare idea, vero?”
    “Assolutamente no.”
    “E va bene, Keith sospirò, “lo faccio. Ma a una condizione, che se ti dico che una cosa è pericolosa, tu non la farai.”
    “A meno che non sia in pericolo la vita di qualcuno.”
    “Anche se questo qualcuno è un criminale?”
    “Sì.”
    Keith scosse la testa. “Sei tremendo.” Ma poi sorrise. “io in tutto questo che ci guadagno?”
    “Non parlerò di te in alcun modo, né nelle mie testimonianze né nei miei rapporti. Mi interessa solo Sendak e, se ci dovessimo riuscire, anche Lotor.”
    “Hai detto niente.” Keith si alzò e si mosse nella stanza. “Ma non mi basta, come cosa. Sto rischiando la pelle mia e dei miei uomini, a portarti dentro.”
    “Prova a chiedermi qualcosa, se posso te la darò.”
    Keith guardò fuori dalla finestra. Poi, con passo lento, camminò verso Shiro, si posizionò dietro di lui e gli prese la cravatta, gliela slacciò lentamente. Shiro non si mosse mentre Keith gli sbottonava la camicia e introduceva le mani ad accarezzargli il petto.
    “Voglio te,” disse con voce sensuale. “Ti spacceremo per il mio amante, tanto mi hanno sempre dato del frocio fin dall’inizio, e non avevano nemmeno torto. Sarà una scusa perfetta, ma io sono un perfezionista e dovremo essere molto realistici in questo.”
    Voltò il viso di Shiro verso di lui e lo baciò, questa volta prendendosi più tempo per assaporarlo. Shiro non si sottrasse, ma non ricambiò nemmeno, aspettando che finisse.
    “E’ davvero questo che vuoi?” gli chiese alla fine. Non voleva che fosse solo un’altra scusa di Keith per cercare di tirarsi indietro dal loro accordo.
    “Sì. Voglio divertirmi un po’ prima di morire.”
    “Allora va bene, sarò il tuo amante. Non mi pare un compito così difficile, tu sei veramente un figo.”
    E per la prima volta da quando quella conversazione era iniziata, Keith arrossì e si trovò in difficoltà. Tossì appena, per riprendersi dall’imbarazzo.
    “Molto bene, allora, abbiamo un accordo.”
    Poi prese Shiro per il braccio e lo trascinò via, per le stanze di quella villa enorme e vuota, e Shiro pensò che forse Keith non voleva un amante, ma un amico, e Shiro poteva in un certo senso essere entrambi. Sentì il calore della sua mano da sotto e senza volerlo sorrise. Keith lo trascinò fino a quella che doveva essere la stanza da letto di Keith, un enorme camerone con il soffitto molto alto, e nessun altro oggetto o soprammobile che contraddistingueva la presenza di Keith all’interno. C’era solo un letto, molto ampio, più ampio di quanto Shiro avesse mai visto, con una lunga coperta blu, che il sole che penetrava dalle enormi finestrone illuminava, in modo che proiettasse ombre malevole sull’intera stanza.
    Keith si voltò verso di lui, sorrise, lo spinse schiena contro il letto, slacciò i bottoni della sua camicia, e fece per toglierla.
    “Io riscuoto il pagamento in anticipo.”
     
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