Le memorie di Lord Marmora

[Voltron Legendary Defender] Shiro/Keith, fandomAU

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    Ho impiegato anni a decidermi a scrivere le mie memorie. Nonostante mio marito mi abbia sempre incoraggiato a farlo, sostenendo che ciò che avevo vissuto, ciò che abbiamo vissuto assieme, sarebbe stato fondamentale per creare una nuova scienza nello studio dei draghi, io ero attanagliato dai dubbi.
    Il mio primo dubbio riguardava, ovviamente, me stesso. Sapevo che nel raccontare la storia della mia vita avrei dovuto aprire il mio cuore e iniziare dall’inizio, da quel bambino malato e malinconico che ero sempre stato. Mi sarei messo a nudo veramente, per la prima volta.
    Non che voi tutti, sì, voi che adesso state leggendo questo libro, non abbiate già un’opinione abbastanza scandalosa di me. Eppure, davvero, in queste pagine potreste ritrovarvi a scoprire una parte di me che di sicuro non vi aspettate, ben diversa dall’uomo sicuro di sè, un leader come mi ha definito la regina, che avete imparato ad amare ed odiare.
    Il secondo dubbio, naturalmente, è legato al mio rapporto con mio marito. Voi lo conoscete adesso come Keith, Duca di Marmora, ma per me è sempre stato solo Keith, quell’archeologo che incontrai per la prima volta durante la mia prima spedizione alla ricerca dei draghi, quella guidata dalla Principessa Allura di Altea.
    Il mio primo ricordo di lui è sulla barca che ci stava portando alla nostra destinazione; non faceva parte del nostro gruppo, ma io lo invitai subito e, a differenza di quello che dicono le malelingue, il mio invito non fu dovuto al fatto che la sua maglietta si fosse strappata durante un incontro non particolarmente amichevole con un drago d’acqua, rivelando tutta la bellezza di quel corpo tornito al di sotto.
    Non negherò che ci fosse da subito dell’attrazione fisica fra di noi. Ma Keith non faceva nulla di tutto questo per provocarmi, era completamente inconscio del fascino che aveva su di me e sugli altri; anche per questo, non si era preoccupato troppo di cambiare la sua maglietta quando si era strappata. Per lui, che era vissuto a lungo da solo, un corpo nudo non era particolarmente scandaloso.
    Ma no, quello che più di tutti mi attirò di lui fu in assoluto la luce nei suoi occhi. Occhi bellissimi, con sfumature viola, ma venati da una malinconia che conoscevo molto bene, la malinconia che io stesso avevo vissuto da bambino prima di trovare una ragione di vita nella ricerca della conoscenza dei draghi. Io ero riuscito, in qualche maniera, a uscire dalla malinconia grazie all’aiuto di mio nonno, che mi aveva spinto con quella passione.
    Keith aveva degli obiettivi, era un archeologo, ma allo stesso tempo non aveva nessuno e sentiva che non avrebbe lasciato niente nel mondo di sé. Io avevo capito che si sbagliava e avevo fatto un punto della mia vita quello di togliergli quella malinconia dagli occhi.
    E ce l’avevo fatta, naturalmente. Non avremo ottenuto quello che abbiamo ottenuto altrimenti, e lui non sarebbe mio marito. In realtà mi rendo conto che parlare di Keith sia molto più semplice che parlare di me stesso, perché se c’è una cosa su cui non ho mai avuto dubbio è il mio amore per lui, e il suo per me. No, il mio dubbio, semmai, è nel vostro modo di vederlo.
    Ecco, non dubito che molti di voi abbiano adesso questo libro in mano nella speranza, o forse nella certezza, che sia materiale pornografico. Il bacio appassionato che io e Keith ci siamo scambiati nel bel mezzo del delirio dragonesco è ben noto a tutti voi, essendo stato immortalato in lungo e in largo, e per molti benpensanti quello è stato pornografico.
    Ma dietro i vostri salotti, io lo so, pensate e dite molto di peggio. Le signore ridono del racconto della maglietta strappata di Keith, e si immaginano che io lo abbia preso proprio lì, sulla nave, baciando la sua pelle già nuda perché non potevo resistere alla sua vista. I signori fingono disgusto, ma nel buio della loro camera si chiedono come sia fare l’amore con un mezzo drago, se il suo pene sia ricoperto di scaglie o se sia doppio come quello di alcuni draghi d’acqua.
    Ecco, adesso sto sfociando davvero nella pornografia. Ma, ecco, nulla di tutto questo ci sarà effettivamente nel mio libro. Ciò che è accaduto a livello fisico tra me e mio marito, rimarrà fra me e mio marito per il resto della nostra vita. Non è un libro pornografico e non lo sarà, ma voi siete liberi di continuare a pensare le vostre fantasie morbose su noi due. Nessuno di voi, comunque, si avvicinerà mai alla verità.
    No, questa è prima di tutto una storia di scienza, e poi una storia di riscatto. La storia di riscatto di un bambino malato e malinconico, che ha trovato uno scopo nella vita e ha inseguito i suoi sogni fino all’ultimo e che, con l’aiuto di un altro ragazzo malinconico, ha salvato il mondo. Ecco, è stato questo a farmi decidere di scrivere, finalmente, rischiando l’accusa di pornografia che non dubito mi arriverà nonostante la premessa: l’idea che altri bambini malinconici possano ritrovarsi in me e, come me, riscattarsi.
    Dunque, mi presento: mi chiamo Takashi Shirogane e sono il primo, e al momento l’unico, studioso specializzato nella cultura dei Draghi di Marmora (sì, anticipo le vostre risatine sul fatto che ne ho studiato uno da molto vicino, dato che l’ho sposato).
    Sono Giapponese, e sono il figlio secondogenito del Diplomatico Tendou Shirogane. Sì, secondogenito, perché nonostante fossimo gemelli, mio fratello Ryou era stato designato da tempo come il vero erede della famiglia. Non l’ho mai odiato per questo e, d’altro canto, Ryou mi ha sempre supportato anche nelle cose più folli. È stato lui a presentarmi la Principessa Allura, dopotutto.
    Ma è indubbio che il suo essere il preferito, quello sano, quello non malinconico, abbia avuto un peso durante la mia infanzia.
    Se c’è una cosa che mi ricordo di mio padre, è la sua poltrona imbottita di colore rosso. Era la sua personale, non tollerava che la usasse qualcun altro. Si sedeva sempre lì, la sera, a godersi un buon libro dopo una giornata di lavoro. Ricordo le cuciture perfette di quella poltrona, i riflessi che d’inverno il fuoco dava contro le sue parti di legno, la testa di mio padre che spuntava da dietro lo schienale.
    Io e Ryou, ogni sera, aspettavamo che si sedesse lì prima di andare a disturbarlo. Ci sedevano sul pavimento di fronte a lui, che torreggiava su di noi dal suo trono rosso imbottito, e aspettavamo che ci degnasse di uno sguardo, che ci raccontasse cose del lavoro, o storie della sua infanzia.
    A quel tempo, io ero già malato, i miei muscoli mi impedivano di stare seduto a terra troppo a lungo. Spesso ero costretto a lasciare mio padre e mio fratello prima del tempo, e mi allontanavo dal loro spazio pensando che non ne avrei mai fatto parte. Mai una volta mio padre si offrì di cedermi il posto su quella poltrona, che finii per odiare a un certo punto, e comunque anche quando eravamo entrambi di fronte a lui la sua attenzione era solo su Ryou.
    Una cosa divertente: adesso anche io possiedo una poltrona imbottita rossa. Non è la stessa, ovviamente, che è andata perduta durante la guerra, ma è mia. E ho deciso che la condividerò con chiunque voglia essere ospite a casa mia (e no, non vi confermerò se ci ho fatto sesso con mio marito lì sopra).
    In ogni caso, quella poltrona è, paradossalmente, l’unico ricordo felice di mio padre. Per il resto, di lui ricordo per la maggior parte solo lamentele. Una cosa che diceva spesso a mio nonno, che gli aveva ceduto l’azienda da anni ma che continuava a mettere becco in ogni sua decisione, era che ero troppo debole. Forse fisicamente, in parte era vero, ma a livello mentale fu lui stesso a contribuire alla mia malinconia.
    Se ne stava chiuso nella sua fortezza di stoffa rossa, da dove mi giudicava sulla base dei suoi parametri, e non dei miei. Non l’ho mai odiato, ma di certo non l’ho nemmeno mai ringraziato. Non ha fatto nulla per me tranne contribuire col suo seme a darmi la vita. Persino la casa e i soldi con cui mi nutriva, dopotutto, erano un’eredità di mio nonno.
    In quei primi anni della mia infanzia, mio nonno era in effetti l’unica figura a cui potessi aggrapparmi. Anche Ryou, all’epoca, era troppo piccolo per capire i miei tormenti. Mio nonno invece li comprendeva, al punto che ora mi chiedo se ne fosse stato vittima lui stesso, e cercava di appoggiarmi quando poteva.
    Quello che maggiormente mi ricordo di lui sono le passeggiate che ci facevamo nella nostra residenza estiva, al chiaro di luna, la mia piccola mano nella sua mentre camminavamo con i nostri zoccoli sul bagnasciuga. Se chiudo gli occhi, posso ancora sentire il rumore della risacca e l’acqua fresca che ci sfiorava i piedi mentre camminavamo.
    Era un nostro appuntamento fisso, e io lo adoravo. Nel buio della notte, tutti i miei problemi mi sembravano irrisori: la luna piena illuminava un mare scuro, e avrebbe continuato a farlo nei secoli a venire. L’acqua era fresca a discapito dell’aria calda estiva, e la sabbia umida che mi penetrava tra le dita dei piedi a prescindere che io indossassi i saldali oppure no.
    Altra cosa divertente: queste passeggiate le faccio ancora, solo che ora le condivido con mio marito. Lui, come me, ama il silenzio che una notte di luna piena offre, ed essendo cresciuto nel deserto ama la sensazione della sabbia bagnata sotto i piedi quando camminiamo sul bagnasciuga. Ma no, non vi rivelerò se abbiamo mai fatto sesso in quell’acqua fresca, né se l’abbia visto trasformarsi in un drago sotto la luce della luna piena, il suo corpo nudo che si trasfigurava di fronte a me.
    Vi posso dire che non sono mai riuscito a convincerlo a indossare gli zoccoli tradizionali giapponesi, che io ancora porto in onore di mio nonno e di quei ricordi di quella notte. Lui preferisce dei comodi sandali all’occidentale, che sono noiosi, e battibecchiamo spesso a questo riguardo. Ma per me potrebbe indossare (o non indossare, come all’epoca della maglietta bagnata) qualsiasi cosa e sarebbe perfetto lo stesso, esattamente come una passeggiata sul bagnasciuga in una notte di luna piena.
    E per inciso, nemmeno i sandali riescono a nascondere che abbia dei piedi perfetti, perfetti come il resto di lui. Piccoli, delicati, all’egiziana, e forse odio i sandali perché vorrei che camminasse sul bagnasciuga scalzo e lasciasse le impronte di quei piedi perfetti sulla sabbia. Ma sto divagando. Torniamo alle passeggiate con mio nonno, che invece portava e mi faceva portare gli zoccoli, e per il quale non ho mai ovviamente provato attrazione fisica.
    Avendo ascoltato ciò, non dovrebbe sorprendervi che la mia passione per i draghi sia nata proprio durante una di queste passeggiate. Alla sola luce della luna piena, individuai una figura sdraiata sul bagnasciuga. Il suo aspetto è diventato fumoso nella mia memoria, ma ricordo la sensazione dell’acqua fresca quando lentamente lo presi in braccio, temendo che annegasse. Le mie mani tremavano per il freddo, il mio corpo per l’eccitazione.
    Pensavo fosse un’iguana: al buio ne aveva tutto l’aspetto, e anche la dimensione. Era leggero e stava in braccio a me comodamente. Era sveglio, e si aggrappò a me come se fossi la sua ancora di salvezza. Nel momento in cui guardai mio nonno, lui capì immediatamente: mi sarei preso cura di quella creatura, che era malata proprio come lo ero io.
    Ovviamente, non sapevo che si trattasse di una specie di drago d’acqua, ferito durante la sua migrazione. I draghi si studiavano molto poco e anche quelli piccoli come quello che avevo trovato io. Alcune specie si cacciavano per divertimento, e in alcuni paesi alcune razze venivano allevate, ma la maggior parte era sconosciuta, considerando che c’erano ancora molte superstizioni a loro riguardo.
    Insomma, quando mi accorsi che il mio paziente era a tutti gli effetti un piccolo drago d’acqua, non avevo niente a cui appigliarmi, neppure il locale veterinario, che a parte darmi qualche consiglio e qualche medicina per medicargli una ferita all’ala, volle stare alla larga.
    Procedetti per tentativi, e in parte continuai a considerarla niente di troppo diverso da un’iguana: tentai di dargli da bere con una siringa, con una ciotola, con un biberon, prima di capire che preferiva essere immerso nell’acqua e bere mentre aveva la testa al di sotto della superficie. Anche con il cibo feci diversi tentativi, fino a capire che amava divorare piccoli pesci interi a partire dalla testa.
    Il drago, che avevo soprannominato Calipso, capiva le mie buone intenzioni e sopportava i miei errori e con una pazienza stoica, cercando di farmi capire quale fosse la direzione giusta da prendere. Fu così che mi resi conto che probabilmente i draghi erano molto più intelligenti di quello che si pensava e delle superstizioni che li vedevano come creature barbare votate alla distruzione.
    Mio padre accettò di buon grado questa mia nuova fissazione, in realtà come la maggior parte delle cose che facevo. Continuava a chiamare il drago d’acqua iguana, come pensavamo tutti fosse all’inizio, e a me andava bene così, perché temevo che se si fosse accorto che si trattava di un drago me l’avrebbe tolto. A distanza di anni mi chiedo se non lo sapesse e semplicemente considerasse un drago esattamente al pari di un’iguana, una creatura a cui non dare due occhiate perché ridicola, orribile, poco nobile.
    La convalescenza di Calipso fu uno dei periodi più agitati della mia infanzia, ma anche uno di quelli più eccitanti, in cui mi dimenticai della mia malinconia e della mia malattia. Non avevo un momento di tregua, ma non mi importava. Dormivo pochissimo, temendo che Calipso avesse bisogno di me. Quando non mi occupavo di lei (si, avevo scoperto di trattasse di una lei) leggevo qualsiasi libro che potevo trovare sull’argomento.
    Anche da adulto, avrei affrontato simili momenti in cui non davo tregua al mio corpo o alla mia mente; per fortuna, ora ho Keith a fianco che si rende conto di quando mi sto spingendo troppo al limite. Senza di lui penso che prima o poi uno di questi momenti mi avrebbe ucciso.
    E poi, com’era entrata nella mia vita, Calipso se ne andò. Lo fece una notte, quando la stanchezza di quei giorni frenetici aveva infine avuto la meglio su di me. Ancora oggi credo che temesse che un addio faccia a faccia sarebbe stato troppo sofferente per entrambi, o forse voleva che finalmente mi prendessi una tregua dall’essere la sua crocerossina. In ogni caso, non fu per mancanza di gratitudine.
    Questo lo so perché, sulla finestra, la mattina dopo la partenza di Calipso, trovai un paio di lacci di scarpe, lisi e consunti e sporchi, come se fossero stati scavati da qualche parte. Nei giorni precedenti mi ero rotto il laccio dei miei zoccoli e, non avendo tempo perché mi occupavo di Calipso, non li avevo ancora riparati. Non ho idea di dove Calipso li avesse trovati, ma ebbi un’ondata di gioia al pensiero che lei avesse scavato, cercato un regalo per me.
    I giorni dopo la sua partenza furono terribili. Non avevo più uno scopo nella vita e, dopo aver avuto così tanto di cui occuparmi, la mia vita mi sembrava vuota. La malinconia tornò, ancora più forte di prima, e perfino mio fratello, che mi aveva preso in giro sul mio rapporto con Calipso, si pentì e cercò di tirarmi su il morale catturando qualche piccolo drago del miele per me.
    Fu di nuovo mio nonno a tirarmi su di morale. Si sentì, infatti, con qualche suo amico oltreoceano e si fece mandare una serie di libri sui draghi scritti da autori stranieri. Non erano facili da leggere, e ci misi una vita, ma mi tennero la mente occupata. Prendevo più tregue rispetto al periodo con Calipso ma mi aiutò a rendermi conto che avevo bisogno di fare qualcosa. Avevo bisogno di stare “senza tregua”.
    In una di queste spedizioni, un amico di mio nonno spedì anche un cristallo di rocca in cui era incastonata un’ala di drago di colore viola; a quanto pare era un ricordo di una visita nel lontano paese di Daibazaal, ma a lui non interessava particolarmente così me la regalò. Era stupenda e io cercai in tutti i libri un riferimento, ma quell’ala particolare non si trovava da nessuna parte e io sognai a lungo di essere il mio a trovare il drago che la possedesse.
    Come sapete, fu una missione riuscita.
    Quello che forse non sapete, è che conservo ancora quel cristallo di rocca, così come conservo i lacci delle scarpe di Calipso; anzi, questi ultimi li ho usati come braccialetti per anni, appesi al mio braccio debole nella speranza che funzionassero come un talismano. Ovviamente, col senno di poi, fui felice di non averli con me durante l’incidente.
    Adesso sono entrambi sulla mia mensola delle meraviglie, nel mio ufficio. La gente guarda sempre con sospetto i lacci delle scarpe, ma non hanno mai avuto il coraggio di chiedermi la storia. Ve l’ho offerta così, liberamente. Del cristallo di rocca, invece, tutti chiedono; per anni mi sono chiesto se la cosa disturbasse Keith, considerando che si tratta di un’ala di un suo parente, ma lui non si è mai fatto troppi problemi.
    Dopotutto, non smette mai di ripetermi, è grazie a quel cristallo che ho deciso di studiare i draghi e specificatamente quelli di Daibazaal, cosa che mi ha portato ai draghi di Marmora, e a lui.
    Questo è l’inizio della mia storia come studioso di draghi: una creatura che sembrava un’iguana, una passeggiata sotto la luna piena, dei lacci delle scarpe per riparare degli zoccoli, un cristallo di rocca. Ancora non sapevo che mi avrebbero portato nella più grande avventura della mia vita.
     
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