Detective Mahado

[Yu-Gi-Oh]

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    Capitolo 1

    Nella notte nera e senza luna, anticipo di uno dei giorni più nefasti di tutto il calendario egizio, due persone stavano ferme su una riva del Nilo, in silenzio, come statue contenenti il ka, il doppio dell’anima in grado di sopravvivere alla morte.
    “Così… Ci sei riuscito” disse lentamente il principe Meren, fissando l’altra sponda scura davanti a sé. “Il faraone non mi crede più, gli amici mi hanno abbandonato, la mia famiglia è dispersa… E io sono braccato dall’esercito.”
    “Io non ho fatto nulla” replicò l’altro, con voce suadente. “Tu sei il traditore, non io.”
    “Ti credi furbo, vero? Pensi di essere in salvo…” Meren fece un passo verso il Nilo. “Sbagli. Io ho fallito, ma la mia eredità non andrà persa. Gli dei non lo permetteranno.”
    “E’ tardi, ormai” Anche la figura avanzò, verso di lui. “Non c’è più nessuno disposto a raccoglierla.”
    “Vedremo.” Il principe si voltò, camminando all’indietro fino ad immergere le caviglie nelle acqua nere del fiume. “Intanto, tutte le prove trovate finora sono al sicuro. Non sono nella mia casa, non sono negli archivi di palazzo, non sono al tempio di Amon.”
    “Stai mentendo!”
    “Ah… Finalmente lo vedo…” sorrise Meren. “Un lampo di paura… Sei umano anche tu.” Estrasse dal fodero il suo pugnale decorato, lo stesso che gli era stato donato dal faraone Tuthankhamon, che adesso non aspettava altro che condannarlo ad una morte molto dolorosa, a causa del suo tradimento. “Hai ragione, è troppo tardi, ma i miei figli sono salvi.” Con un gesto rapido, tagliò il bracciale in cuoio che gli ricopriva interamente il polso. “Non c’è più bisogno di me.” Trasversalmente, la lama affondò nel suo polso, dividendo a metà il marchio a fuoco che Akhenaten, anni prima, gli aveva inflitto perché accettasse di credere unicamente in Aten, il disco solare. Con gioia, lo vide finalmente scomparire, nascosto dal sangue.
    “Sei stato uno sciocco” disse l’altro. “E adesso, sarai uno sciocco morto.”
    Meren annuì, senza che il sorriso scomparisse dal suo volto, e indietreggiò ancora nel fiume, mentre il sangue, colando sulla superficie dell’acqua, iniziava ad attirare i coccodrilli, in agguato tra le canne di papiro e gli arbusti della riva. “Uno sciocco morto, ma fiero davanti a Maat, la dea della Verità” fu l’ultima cosa che poté dire, prima che le creature di Sobek iniziassero a divorarlo.
    Così morì il potente principe Meren, figlio di Amosi, Occhi e Orecchie del faraone, nell’anno nono del regno di Tuthankhamon.

    Anno primo del regno del faraone Ramses I, Memfi

    Mahado, lentamente, terminò di tracciare sulla tavola di argilla un geroglifico a forma di animale, con la sua grafia sottile e precisa, quindi iniziò a darne la spiegazione scrupolosa del significato e del significante. Mana trasse un profondo sospiro, mentre appoggiava annoiata il mento sul palmo della mano, e faceva vagare lo sguardo verde fuori della finestra, al cielo chiaro e agli uccelli che ogni tanto lo attraversavano, liberi e leggeri. Le spiegazioni del maestro si perdevano nel sottofondo dei suoi pensieri, diventando praticamente incomprensibili.
    “Mana! Mi stai ascoltando?” Mahado batté polemicamente la punta del calamo sul tavolo, sporcandolo così di leggere gocce nere.
    La ragazza si ricompose immediatamente, raddrizzando la schiena e scoccando alcune occhiate all’ostraka, cercando di capire quale fosse l’ultimo geroglifico scritto che lui le stava spiegando. “Sì, certo!”
    Il suo maestro incrociò le braccia, poco convinto. “Allora ripetimi quello che ti ho appena detto.”
    “Dunque… Ehm…”
    Il leggero suono di una risata soffocata attrasse la loro attenzione, ed entrambi si volsero verso la porta della stanza. Sulla soglia, leggermente appoggiato allo stipite, il loro sovrano li stava osservando con un sorriso appena accennato sulle labbra carnose, ed un lampo di divertimento negli occhi scarlatti.
    “Principe Atemu!” esclamò Mana, balzando in piedi, completamente dimentica dell’etichetta e dei suoi doveri.
    “Faraone Ramses, adesso.” Mahado, alzatosi, la trattenne afferrandole la mano ancora appoggiata al tavolo. “L’importanza delle parole, ricordi?”
    Lei fissò prima la mano, poi lui, infine abbassò la testa in un’espressione seccata, più che dispiaciuta. Tutti quei formalismi la irritavano: perché avrebbe dovuto cambiare modo di chiamare uno dei suoi migliori amici, solo perché lui, in un certo senso, aveva ottenuto una promozione?
    Atemu entrò nella stanza, scoccando un’occhiata sorridente a Mana. “Ho urgenza di parlarti” disse, rivolto a Mahado. “Puoi raggiungermi nei miei appartamenti appena finita la lezione…”
    “Non c’è problema.Avevamo finito.
    Atemu si sedette e gli fece cenno di accomodarsi davanti a lui, poi gli porse, allungandoglielo sul tavolo, un papiro vecchio e polveroso.
    “Sembrano gli atti finali di un processo…” commentò il sacerdote, aprendolo ed esaminandolo. “Furto, corruzione, tentativo di rivolta… Ci sono praticamente tutti i reati possibili.” Scoccò un’occhiata al suo re da sopra i papiri, aspettando maggiori spiegazioni.
    “Vorrei che indagassi sulla famiglia dell’imputato di quel processo” disse Atemu gravemente. “Si tratta del principe Meren, Occhi e Orecchie del faraone Tuthankhamon, prima di essere accusato di ciò che vedi.” Attese per un attimo una risposta che non venne: “io credo che fosse innocente.”
    Mahado rimase in silenzio, indeciso su come replicare. “È… Improbabile” ammise infine, dando voce al suo vero pensiero. “Le prove c’erano, e lo stesso Meren si è suicidato prima del processo…”
    “Lo so, lo so!” esclamò Atemu, quasi esasperato, tanto che Mahado si sentì in colpa per non aver accettato l’incarico direttamente. “Solo che… Sono stato nella Valle dei Principi, qualche giorno fa. Inciso all’entrata della tomba del padre di Meren c’è una strana scritta. Non la trovo adatta né ad un colpevole, né ad un innocente.”
    Con quella frase, aveva attirato l’attenzione del sacerdote. “Cosa dice?”
    “Questa è l’ultima dimora di mio padre Amosi. Io sono Meren il traditore, solo e senza amici, colpevole di undici delitti contro il faraone. Il mio corpo è in balia del destino; le mie braccia stringono ancora, come raggi, le chiavi della vita; il mio cuore l’ho riposto nel buio del faraone, a me unito come marchio a fuoco” gli recitò a memoria. “Converrai che si tratta di un’epigrafe piuttosto insolita.”
    “Non ha senso, o almeno questa è l’impressione che vuole dare” annuì Mahado, riflettendo con la mano sul mento. “Da quello che dice, sembrerebbe ammettere la sua colpevolezza, ma chi mai scriverebbe una cosa del genere sulla tomba del proprio padre? Anche se si fosse pentito…”
    “C’è un’altra cosa ancora che devi sapere” disse Atemu, soddisfatto per averlo incuriosito. “Shimon mi ha raccontato che Meren e mio padre, da giovani, erano grandi amici. Avevano addirittura fatto assieme il corso per aurighi, sotto mio nonno Akhenaten.”
    Questa volta, Mahado aprì la bocca per formare un “oh” silenzioso. Solo ora comprendeva veramente cosa preoccupava il cuore del suo faraone. Horemheb, il precedente sovrano, nonché genitore di quello attuale, a quanto sembrava da quei documenti, aveva subito il tradimento di un amico fidato, una delle cose peggiori che potessero capitare.
    “Mio padre ha sempre sostenuto il valore dell’amicizia, però non ha mai accennato, neppure una volta, a questa storia” continuò Atemu. “Dall’iscrizione, sembra che Meren sia stato abbandonato da tutti, compreso lui. Perché non parlarmene? Perché nascondere un fatto così grave?”
    Mahado non aveva risposte da dargli, non ancora. “Sono passati trenta anni, sarà molto difficile ricostruire tutto da capo” disse. “Farò quanto in mio potere per capire come veramente si siano svolti i fatti.” Riavvolse il papiro fino a formare un rotolo. “Per prima cosa, cercherò negli archivi reali qualche informazione sulla famiglia di Meren. Se qualcuno è ancora vivo, potrebbe sapere qualcosa.”
    Atemu annuì. “Ti ringrazio.”
    “Non devi nemmeno dirlo, prin- maestà.”
    Il ragazzo si alzò, facendo per andarsene. Sulla soglia, si volse indietro e sorrise. “Ho idea che questa conversazione non sia stata troppo privata” disse, poi uscì.
    Il viso di Mana spuntò oltre la porta, imbarazzato. Poi, prima che il maestro potesse sgridarla, chiese: “Non dici sempre che le doti di un buon studente sono il silenzio e l’ascolto?”
    “E il buon senso di non interferire in affari che non lo riguardano” replicò Mahado, raggiungendola nel corridoio con il papiro sottomano. “Vedo che sai imparare le cose, quando ti fanno comodo.”
    Mana sorrise. “Che facciamo?”
    *°*
    *°*
    L’archivio del palazzo reale conteneva documenti che arrivavano persino fino a regno di Tuthmosis III il conquistatore, più di cento anni prima, perciò riuscire a trovare qualcosa di poco recente era un’impresa molto difficile, anche se le carte erano ben divise e disposte per anno di regno di ogni singolo faraone.
    Mahado cercò di individuare subito lo scaffale contenente i fascicoli relativi all’anno nove di Tuthankhamon, e riuscì a trovarli in fondo alla quarta stanza, semi-nascosti da uno strato di polvere che sembrava quasi essere diventata solida. Non se ne stupì: dopo Tuthankhamon, aveva regnato ben altri due faraoni, facendo assieme ventinove anni, di cui ventisette solo di Horemheb. Era ovvio che i vecchi documenti cadessero in proscrizione e fossero dimenticati, tanto che nessuno si preoccupava di mantenerli in buono stato.
    Mahado fissò Mana, che aspettava paziente che lui le desse qualche compito da eseguire. “D’accordo…” mormorò. “Prendi una tavola d’argilla, e cerca di disegnare per bene uno schema della famiglia di Meren, prendendo informazione dagli atti del processo.” Scoccò un’occhiata demoralizzata alle carte polverose. “Io intanto cerco di vedere se c’è qualcosa di utile in questo caos.”
    La ragazza annuì e, preso il suo zaino di scrittura ed il primo ostraka che le capitò sottomano, si mise alacremente al lavoro nella stanza accanto. Ogni tanto sentiva arrivare qualche colpo di tosse del maestro, che stava probabilmente facendo indigestione di pulviscolo. “Ho finito!” annunciò allegra, dopo circa un’oretta. Scoppiò a ridere nel vedere Mahado completamente coperto di polvere: il suo vestito era diventato nero e persino la sua pelle, di solito più chiara di quella degli egizi, aveva assunto un colorito che lo faceva assomigliare ad un nubiano, sebbene non avesse la loro stessa muscolatura pronunciata.
    “Sì, perfetto…” La raggiunse nella terza stanza, togliendosi il copricapo e liberando nell’aria i lunghi capelli biondi, rimasti per sua fortuna immuni dallo sporco. Spero che Sethi non entri proprio adesso! Pensò. Di sicuro il suo vecchio amico, nonché sacerdote come lui, non avrebbe perso occasione per rimarcare la questione su quanto poco fosse adatto come membro della Corte Sacra. Si sedette a terra, accanto alla sua allieva, radunando insieme i documenti che aveva trovato. “Leggimi i nomi.”
    “Dunque… Partiamo dai più anziani.” Mana fece scorrere le dita sulla tavola, stando attenta a non rovinare i geroglifici. “I genitori sono morti, giusto? Poi c’è la prozia Cheryt…”
    “E’ morta nell’anno sesto, quando ancora Meren non era stato accusato di nulla” disse Mahado. “L’hanno seppellita nella tomba di famiglia.”
    Mana tirò una riga scura sopra il nome. “La sorella, Idut, e il figlio di questa, Imset.”
    “La prima è morta di malattia, dopo il processo, anche se era stata assolta” spiegò Mahado. “Il secondo è disperso in Nubia, dove lavorava.” Viste le varie dispute che vi erano sempre in quella regione tra tribù rivali, era improbabile ritrovarlo vivo.
    “Il fratello Nakht?” chiese lei, con una titubanza speranzosa.
    “Divorato dai coccodrilli, prima del processo.” Mahado dovette disilluderla. “Aveva appena divorziato dalla moglie, probabilmente è caduto nel Nilo ubriaco…”
    “Gli zii Nebetta e Hapu.”
    Mahado prese una delle tavole. “Questi sono ancora vivi” disse, con una punta di sollievo. “Hanno perso tutte le loro proprietà, ma almeno sono facilmente rintracciabili. Vivono nei pressi di Tebe, in campagna.”
    Mana sospirò di sollievo nel non dover tracciare altre croci sui nomi dei defunti. “E i figli?” domandò. “Ne aveva quattro, tre femmine e un maschio, più un nipote, figlio di quest’ultimo.”
    “Uhm…” Mahado esaminò un altro paio di documenti. “A parte la primogenita, morta di parto nell’anno quinto, gli altri sono scomparsi totalmente prima del processo. I soldati del faraone non riuscirono a trovarli.” Alzò leggermente un sopracciglio. Non vedo proprio, quindi, come potrei riuscirci io da solo… Ma doveva provarci, perché non voleva né poteva permettersi di deludere il suo re.
    “Capisco…” Mana cancellò dalla lista il nome di Tefnut, la prima figlia, che aveva ricalcato lo stesso destino della madre. A vedere tutte le croci sulla tavola, le venne addosso una strana malinconia. Era così facile veder sparire una famiglia davanti agli occhi… “È rimasto solo il cugino Ebana” disse poi, vedendo che il suo maestro aspettava.
    “Anche su di lui non ho notizie recenti” disse Mahado. “So solo che, sotto Tuthankhamon, lavorava al tempio di Karnak a Tebe. Sicuramente i sacerdoti ne sapranno di più.” E qui sospirò, perché da sempre il clero di Amon era noto, oltre per il suo grande potere e per la sua grande ricchezza, per la sua riservatezza. Non permetteva a nessuno di interferire all’interno degli affari del tempio, a volte neppure allo stesso faraone. Il profeta, capo indiscusso della comunità, possedeva un’autorità al pari di quella del visir, primo ministro del sovrano d’Egitto. Mahado dubitava seriamente che avrebbero risposto con facilità alle sue domande, benché del tutto innocue, pur trovandosi davanti a uno dei sei membri della corte sacra e custode di un oggetto millenario.
    “Allora, andiamo a Tebe?” domandò Mana, distogliendolo dai suoi pensieri.
    Lui le scoccò un’occhiata penetrante. “Andiamo?”
    La ragazza si alzò, battendo leggermente le mani sulla gonna bianca, per pulirla dalla polvere presa a terra, quindi saltellò leggermente in avanti, tenendo stretto al petto il suo zaino e la tavoletta con lo schema della famiglia di Meren. “Lo sanno tutti quanto schivi possano essere i sacerdoti di Amon…” iniziò, in tono leggermente malizioso. “Ma, probabilmente, mio nonno potrebbe lasciarsi un po’ andare, se si trovasse davanti la sua nipotina…”
    Mahado rimase a fissarla. Dato che Mana si era ormai trasferita stabilmente a Memfi, alla corte del faraone, aveva completamente scordato i suoi legami come figlia del normaca della regione di Tebe e nipote addirittura del primo profeta di Amon, Paramisu.
    “E questa…” Lei sorrise ancora, con gli occhi verdi che le brillavano. “È l’importanza delle parentele!” E ammiccò, scappando nelle sale successive.
    “Piccola sfrontata..!” commentò Mahado, nemmeno troppo offeso. In realtà, la sua allieva non aveva tutti i torti: fingere una visita di piacere sarebbe stato molto più semplice che presentarsi direttamente come inviato del faraone. Si alzò, scoccando uno sguardo demoralizzato ai vestiti ancora sporchi. Scuotendo la testa, si accinse a seguire Mana fuori dell’archivio reale.
    Tebe li stava aspettando.
    *°*
    *°*
    Sebbene Mahado non avesse mai avuto in simpatia i sacerdoti di Amon, doveva pur ammettere che il loro tempio era il più maestoso di tutto l’Egitto, nonché uno dei più importanti, giacché si trovava vicino alla necropoli della Valle dei Re, dove riposavano gli spiriti possenti dei sovrani passati. Ma sono stati i faraoni a renderlo tanto grande si disse mentalmente. Dopotutto, lo stesso Atemu aveva dato disposizioni per ampliarlo, seguendo le orme di suo padre.
    La nave che li trasportava, la “lepre del fiume”, la più veloce ma piccola di tutta la flotta reale, attraccò sulla riva destra, giusto all’ingresso del canale del tempietto di Luxor, lo stesso che serviva all’imbarcazione sacra per portare all’esterno la statua di Amon ivi contenuta durante la cerimonia sacra dell’Opet.
    I marinai non avevano ancora finito totalmente le manovre, quando Mana saltò giù dalla nave, atterrando nell’erba bagnata, gridando: “Nonno!” Corse poi verso una figura che la stava salutando con il braccio teso, seminascosta all’ombra del porticato esterno.
    Mahado non ebbe il coraggio di fermarla, né di rammentarle che non era più una bambina e che, quindi, non avrebbe dovuto permettersi simili atteggiamenti poco consoni al suo rango; dopotutto, non vedeva i suoi parenti da tre anni ormai e, sebbene lei non accennasse mai al fatto, era certo che le mancassero. Aveva solo dieci anni, quando dovette lasciarli.
    “Benvenuto” lo salutò formalmente il primo profeta di Amon, quando Mahado raggiunse lui e Mana sotto il portico. “Grazie per averla accompagnata… Principe.” E rimase a fissarlo con i suoi occhi piccoli, dello stesso colore della nipote ma molto meno espressivi.
    “Nessun problema.” Mahado ignorò volutamente il tono ironico con cui era stato pronunciato quel titolo, che ormai nessuno usava più con riferimento a lui, e accennò leggermente con il capo. “Come procedono i lavori?”
    “Nel messaggio che mi è arrivato, annunciavi solo una visita di cortesia” commentò Paramisu, mentre accarezzava i capelli bruni di Mana, ancora abbracciata a lui. “Il faraone ti ha forse mandato a controllare che nessuno di noi rubi le ricchezze che gli appartengono?”
    Il suo disprezzo non è evidente, di più, pensò Mahado, scoccandogli una leggera occhiata. Fronte alta, viso magro, quasi scavato, e senza ombra di peluria, orecchie a sventola e mento appuntito: sembrava proprio il prototipo del sacerdote maligno ed indisponente. “Era solo per fare conversazione” rispose, con leggerezza.
    “Oh, solo per fare conversazione…” ripeté Paramisu, in tono quasi incredulo, poi decise di non degnarlo più di nessuna attenzione, rivolgendo le domande unicamente a Mana, la quale, prima di rispondere, riservava sempre uno sguardo al suo maestro, come a cercarne l’approvazione. Era venuta a Tebe per aiutarlo, in realtà, non per trovare suo nonno; dare spiegazioni alla sua famiglia sulle sue giornate non la interessava molto.
    Mahado, nonostante l’atteggiamento di Paramisu significasse un evidente “lasciaci soli”, non si mosse: primo, perché Mana era l’allieva affidata a lui, e, a prescindere dal fatto che si trovasse in compagnia di un suo parente, aveva il dovere di tenerla d’occhio; secondo, perché aspettava l’occasione giusta per informarsi su Ebana, il cugino di Meren.
    “Come va la situazione al confine?” domandò il profeta, ad un certo punto, vedendo che i tentativi di allontanarlo erano stati inutili.
    Mahado lo fissò per un istante, sorpreso. “Tutto tranquillo, non ci sono state più rivolte dopo le spedizioni punitive di Horemheb…” Non si sarebbe mai aspettato che gli rivolgesse la parola volontariamente.
    “Siamo sicuri?” chiese ancora Paramisu, con un lampo maligno negli occhi. “Nemmeno i re di Amurru stanno progettando qualcosa?” Sorrise ironico. “Pare quindi che tengano ai propri figli…”
    “Queste sono informazioni riservate.” Mahado trasformò il suo volto in una maschera d’imperturbabilità, poiché non voleva dargli alcuna soddisfazione. Da qualche tempo ormai si era abituato a ricevere insulti per essere il nipote di Aziru di Amurru, il traditore che si era alleato con gli Ittiti approfittando della debolezza dell’Egitto, di cui era stato vassallo, appropriandosi di terre che non gli appartenevano. Non poteva farci nulla: non aveva deciso di chi essere parente, né aveva chiesto a suo padre di mandarlo in Egitto da bambino come prova di fedeltà dei nuovi governanti di Amurru. Da lungo tempo le offese avevano smesso di essere tali.
    Visto che Paramisu era rimasto ammutolito perché la sua provocazione non aveva sortito l’effetto sperato, Mahado ne approfittò. “Invece, qui al tempio?” chiese, cercando di usare il tono più neutro possibile. “Tutto tranquillo?”
    “Si, certamente!” Al contrario, il profeta non seppe contenere il proprio sdegno per quelle strane insinuazioni. “Non esistono traditori a Karnak.”
    “Davvero?” Mahado si finse impressionato. “Quindi, anche Ebana fu assolto?”
    “Ebana?”
    “Il cugino del principe Meren.” Mahado incrociò le braccia, cercando di mostrarsi indifferente. Sarebbe stato molto più semplice chiedere direttamente le informazioni, ma con i sacerdoti di Amon ci voleva una pazienza più che infinita. “Lavorava qui, vero?”
    “Ebana… Ebana…” rifletté Paramisu, concentrato. Evidentemente, la voglia di dimostrare quanto onesto fosse il suo clero superava la solita riservatezza. “Ah, ma certo! Io ero ancora un semplice puro, sotto Tuthankhamon, quando lui faceva il sacerdote lettore.” Sorrise dolcemente. “Si, era il cugino del traditore Meren… Ma si sarebbe detto più suo fratello gemello.”
    “Perché?” domandarono contemporaneamente Mana e Mahado.
    Visto che la domanda era stata posta anche dalla sua nipotina, Paramisu non si risparmiò nel rispondere. “Gli somigliava in una maniera impressionante. Erano entrambi alti, muscolosi, di bell’aspetto, con profondi occhi neri e un viso che ricordava le statue del re Khafre” raccontò. “Ebana somigliava sempre più ad un auriga che ad un sacerdote, ma sapeva fare bene il suo lavoro. L’unica cosa che li distingueva era la cicatrice che Ebana si era procurato sotto Akhenaten, e che gli aveva sfigurato il volto. Nonostante quella, però, non perse mai il suo fascino. Proprio come il cugino, dopotutto.”
    Mahado doveva ora porre la domanda più importante, ma era restio a pronunciarla. Sarebbe potuta sembrare davvero troppo invadente e, dalla strana espressione di Paramisu, aveva capito che questi si era già esposto anche troppo. Abbassò lo sguardo su Mana.
    “Mi piacerebbe vederlo!” esclamò lei, rivolta a suo nonno.
    “Temo sia impossibile.” Lui fece un sorriso imbarazzato. “Dopo lo scandalo di Meren, il profeta di allora fu costretto a cacciarlo via. Non poteva rischiare di avere un traditore del faraone nel tempio…” Scoccò un’occhiata eloquente a Mahado, soddisfatto di questa, a suo parere, ennesima prova di fedeltà. “Per qualche tempo, ha girovagato come mago per il paese, poi è morto per una grave infezione… Credo all’incirca durante il secondo anno di regno di Ay.”
    Mahado si astenne dal commentare su quanto fossero informati anche su persone che, teoricamente, non avrebbero dovuto più interessare loro. Era chiaro che Ebana aveva continuato a lavorare per Amon, pur sotto una certa copertura, per evitare problemi con il re. Tuttavia, la questione non gli interessava: aveva scoperto ciò che gli occorreva, anche se, vista la conclusione, le indagini non avevano avuto nessun avanzamento. “Io vado” disse allora. “Approfitto di questa visita per controllare lo stato della sorveglianza nella Valle dei Re…” Fece un leggero inchino, più per etichetta che per devozione. “Gli dei proteggano il tuo volto.”
    “Vengo anche io.” Mana, che fino a quel momento era rimasta abbracciata al petto del nonno, si staccò di scatto per affiancarsi al maestro. Rivolse al profeta un leggero saluto. “Ci vediamo presto.”
    Mahado non aggiunse nulla: era solo felice di non lasciarla da sola tra i sacerdoti di Amon, che potevano avere solo delle cattive influenze. Semplicemente, si voltò e si diresse nuovamente verso la “lepre del fiume”, ancora ormeggiata sulla riva, ma con i marinai già pronti per la partenza. Mana lo seguì, saltellando leggermente, come al solito, senza aspettare la risposta del nonno.
    “Sei stata bravissima” dovette ammettere poi Mahado, una volta che furono saliti a bordo, e che la barca si fu allontanata dalla sponda.
    La ragazza si sedette sul bordo della prua, dondolando le gambe, e sorrise, arrossendo leggermente. Ricevere i complimenti del suo maestro, di solito così severo, era la soddisfazione migliore che potesse avere.
    “Dedicassi così tanto impegno anche agli studi…” aggiunse lui, scuotendo leggermente la testa.
    “Le indagini sono più interessanti” gli rispose Mana, sistemandosi meglio il copricapo tra i capelli castani. “Dove andiamo, adesso?” Non ebbe bisogno di chiederlo come favore per l’aiuto dato con Paramisu, perché lui aveva già deciso di ricompensarla permettendole di seguirlo ancora.
    “Dagli zii di Meren, che abitano da queste parti” rispose Mahado. “Non vuoi passare dai tuoi genitori?” le domandò però, un poco sorpreso dal fatto che non li avesse nemmeno nominati.
    Mana scosse immediatamente la testa. “La cosa più importante è obbedire agli ordini del principe, cioè, del faraone” Poi saltò giù dal bordo e si allontanò verso la poppa, fingendo di voler dare un ultimo sguardo al tempio di Karnak, mentre Mahado, sbattendo leggermente le palpebre, la seguiva con lo sguardo. Di certo, lei non poteva confessargli di non voler vedere i suoi genitori per essere uguale a lui che, mandato in Egitto da bambino come prigioniero, non era potuto tornare da loro neanche volendo.

    La fattoria dove abitavano gli zii di Meren si trovava nelle campagne attorno a Tebe e, nonostante non fosse certo magnificente come doveva essere per una famiglia così importante, era lo stesso piuttosto grande e ben curata, ben differente dalle semplici capanne in fango e argilla che usavano i contadini. I muri di pietra erano decorati, seppur superficialmente, e nel giardino intorno, accanto ad una piccola piscina, crescevano fiori multicolori tipici dei giardini dei nobili di città.
    Al centro del vialetto che portava fino alla porta d’ingresso, Mahado notò un uomo anziano, tutto intento a litigare con quello che pareva uno scriba, per questioni del tutto irrilevanti, come il diverso modo di scrivere la lista dei raccolti: a quanto sembrava, l’uomo si stava lamentando perché desiderava i documenti scritti da destra verso sinistra, mentre lo scriba era solito farli dall’alto verso il basso. Entrambi, comunque, si interruppero immediatamente quando Mahado, con Mana al fianco, ed una piccola scorta di uomini dietro, si avvicinò loro.
    “Cerco Hapu e Nebetta, gli zii del principe Meren” disse gentilmente. “Dove posso trovarli?”
    “Quel traditore!” esclamò l’uomo. “Mia moglie ed io non abbiamo niente a che fare con lui! Anzi, lo abbiamo sempre odiato. Ha ucciso mio figlio!” Senza aspettare risposta, si voltò, lasciando perdere la discussione con lo scriba, e fece per ritornare in casa.
    “Cosa succede?” La porta si aprì, e spuntò una donna, anche lei avanti con gli anni, attirata dalle urla del marito.
    Hapu la trascinò di nuovo all’interno. “Niente di particolare.”
    “Ma…” protestò leggermente Nebetta, scoccando un’occhiata interessata a Mahado e, soprattutto, all’anello millenario che lui portava al collo. Nonostante ratamente i membri della corte sacra si facessero vedere in giro, se non durante feste e celebrazioni, tutti conoscevano i poteri che derivavano loro dagli oggetti millenari, perciò non era difficile riconoscerli. Il marito chiuse inesorabilmente la porta dietro di lei.
    Mahado sospirò. Credeva che, dopo i sacerdoti di Amon, il resto sarebbe stato facile. Evidentemente, ciò che era successo sotto Tuthankhamon era ben più complesso di quanto non ci fosse scritto sul papiro del processo.
    “Signore, vuole che sfondiamo la porta?” chiese uno dei soldati.
    “No.” Mahado scosse la testa. “Faccio io.” Si avvicinò alla porta, e vi poggiò sopra l’indice e il medio, quindi gli ordinò di aprirsi. “Up-i” Con lentezza, come se fosse spinto dal vento del dio Shu, l’uscio si spalancò, lasciandolo entrare. “Accusare una persona di omicidio, anche se morta, è un fatto grave” disse poi, all’espressione di Hapu che se lo era ritrovato davanti. “Avete intenzione di aiutarmi, oppure devo tornare a Memfi e dire al faraone che gli zii di Meren si rifiutano di collaborare con uno dei suoi sacerdoti?”
    Come aveva immaginato, la paura di essere bollati a vita come traditori al pari del nipote e subire la stessa sorte degli altri parenti ebbe il sopravvento sul disgusto a parlare di Meren. Hapu fece comunque in modo da rimanere in una sorta di posizione di vantaggio, trattenendo la moglie dietro di lui, senza invitare Mahado ad accomodarsi. “Cosa desideri sapere?”
    Poiché i due coniugi gli avevano suscitato un’antipatia a pelle, lui non si fermò a preoccuparsi dell’etichetta. “Hai detto che Meren ha ucciso tuo figlio…”
    “Si… Djed…” Hapu abbassò lo sguardo, borbottando qualcosa sottovoce. Si era pentito di essersi fatto sfuggire di bocca quella frase nello scatto d’ira. “Non è che l’abbia proprio ucciso…”
    “Ah, no?” Le punte dell’anello millenario si agitarono leggermente.
    “Si è ucciso” intervenne Nebetta, che, evidentemente, aveva il terrore dei membri della corte sacra. “Amava Meren, ma aveva capito che non sarebbe mai potuto essere ricambiato, e così…” Hapu le riservò un’occhiata di fuoco.
    “Capisco…” Mahado decise di non insistere sull’argomento, onde evitare problemi. Questo Meren sembrava essere amato da tutti rifletté. Com’è possibile che, dopo, tutti lo abbiano davvero creduto colpevole? E l’unica risposta possibile che gli venne in mente fu probabilmente doveva esserlo. “Comunque, voi sapete qualcosa dei figli di Meren? Sono i vostri pronipoti.”
    “No, nulla” disse Nebetta.
    “E non ci interessa neppure!” esclamò Hapu.
    “Dopo il suicidio di Meren, siamo andati a Bath da sua sorella Idut” spiegò la donna, cercando di ignorare il marito. “Ma nemmeno lei sapeva nulla. Erano scomparsi tutti e tre, più il nipote, poco prima dell’arresto di Meren. Naturalmente, furono subito fatti cercare, ma con la fuga di Meren e il suo suicidio, alla fine nessuno badò veramente a ritrovarli.” Scoccò, per un attimo, una coraggiosa occhiata a Mahado. “Da noi non sono mai venuti.”
    Hapu stava per aggiungere qualcosa, ma Mahado lo bloccò alzando una mano. “Va bene, grazie.” Si voltò e, senza nemmeno salutare, uscì dalla casa. Un altro fallimento, come aveva immaginato. Sapeva già, ancora prima di iniziare, che cercarli era inutile, visto quanto erano vaste le terre dove potevano essersi nascosti. Sempre che fossero ancora vivi.
    “Niente?” chiese Mana, osservando la sua espressione delusa.
    “Niente” rispose Mahado. Eppure… Eppure ci dev’essere qualcosa! Protestò mentalmente. Meren si è ucciso apposta per rendere inutile il processo, proteggendo i figli… Ma se questi fossero scappati all’estero, non ci sarebbe certo stata la necessità di un’azione simile. Devono essere in Egitto. E, come dice il principe, la storia di Meren deve nascondere molto di più, o l’epigrafe non avrebbe senso… “Mana… Per caso ricordi l’ultima parte dell’iscrizione?”
    “Certo!” rispose la ragazza, che, essendo una maga, anche se apprendista, aveva una buona memoria. Iniziò a recitarla: “Il mio corpo è in balia del destino, le mie braccia stringono ancora, come raggi, le chiavi della vita. Il mio cuore l’ho riposto nell’eternità del faraone, a me unito come marchio a fuoco.”
    Mahado rifletté, stropicciandosi le mani. Il corpo deve indicare che fu divorato dai coccodrilli… Ma il resto non ha senso… Le braccia come raggi… L’eternità del faraone… Si ritrovò a toccarsi il polso destro, e allora capì. Ritornò immediatamente davanti alla casa di Hapu e Nebetta e bussò alla porta.
    “Che c’è ancora?!” protestò il vecchio, aprendo. Il disprezzo per il nipote superava la paura e la riverenza per chiunque, a quanto sembrava.
    “Meren aveva la cicatrice sul polso?” chiese velocemente Mahado, senza curarsi del suo sdegno. “Intendo il marchio di Aten, il cerchio solare con i raggi che terminavano con le chiavi della vita…”
    “Certo che ce l’aveva!” esclamò Hapu, per la prima volta soddisfatto della domanda, perché poteva infamare il nipote con quelle informazioni. “Pur di sopravvivere, non ci aveva pensato due volte a lodare Aten e Akhenaten, rinnegando gli altri dei. Non aveva un briciolo d’onore! E poi, dopo, la teneva sempre nascosta… Si vergognava, il rinn-”
    “Basta così, grazie” Mahado, senza tante cerimonie, chiuse loro la porta in faccia da fuori.
    Mana guardò tutta la scena sbattendo le palpebre. “Scoperto qualcosa?”
    “Forse sì” le rispose lui, vago. “Dobbiamo andare in un posto.”
     
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