Cercando l'immortalità

[Voltron Legendary Defender] PotC4!AU, mermaidAU

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.  
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    Administrator
    Posts
    17,190
    Location
    Flower Town

    Status
    Anonymous
    Poteva sentire la voce di Adam che risuonava nelle orecchie, su quanto fosse da incoscienti farsi mandare a predicare nel Mar Dei Caraibi, che sicuramente si sarebbe fatto ammazzare alla meglio e alla peggio avrebbe perso anni di vita senza portare nulla dalla sua parte, perché in quell’area giravano solo persone che Dio non solo non l’avrebbero visto mai, ma se avessero voluto farlo, sarebbe stato per sputargli addosso, perché altro non era e altro non facevano.
    Col senno di poi, Adam aveva avuto le sue ragioni a dire così, ma Shiro si era preso le sue soddisfazioni con le comunità locali, e il fatto che non fosse il solito frate arrendevole, ma che menasse come e peggio di loro sicuramente aveva aiutato. Aveva girato diverse isole, conosciuto molte realtà, e se anche non era riuscito a convertire veramente nessuno, era felice di aver potuto condividere un po’ della sua conoscenza e della sua fede con loro.
    Incontrare i pirati non faceva parte del suo obiettivo di vita: non che pensasse che non meritassero la salvezza dell’anima, ma lui era un uomo solo, per altro non un braccio non funzionante. Sapeva che non avrebbe avuto possibilità di difendersi da loro se l’avessero attaccato in gruppo, per cui era grato di poterli guardare alla distanza, portargli sollievo se stavano per essere condannati a morte, e poi vedere i loro corpi penzolanti venir mangiati dagli uccelli.
    Ovviamente, aveva messo in conto che potesse succedere, ed era grato che per un lungo periodo non fosse capitato, ma poi si era fermato troppo a lungo in una cittadina portuale. Sapeva che sul mare il rischio di incursioni piratesche era superiore, ma quello era un villaggio povero, di contadini, il cui massimo della ricchezza erano i loro animali e l’orticello che era davanti a casa.
    Ma apparentemente in quel posto sostava un anziano saggio di nome Sam Holt, che aveva delle conoscenze a cui i pirati miravano. In effetti, Shiro aveva parlato a lungo con Sam Holt, si era fatto raccontare diverse leggende di quel posto, e sebbene non credesse a nessuna di loro, le trovava affascinanti. Ma la voce si era diffusa, e fra i pirati non erano pochi quelli che credevano in quelle leggende.
    Così, una sera in cui Shiro era a cena da Sam Holt, i pirati attaccarono.
    Shiro riconobbe il jolly roger immediatamente, aveva letto sui giornali per essere informato delle notizie più recenti. Il Capitano Sendak, uno dei più temibili di quei mari, erano anni che gli Spagnoli gli davano la caccia senza successo. C’erano anche le malelingue che dicevano che le scorribande di Sendak fossero finanziate dalla regina d’Inghilterra in persona, e francamente Shiro, che aveva avuto la sfortuna di incontrarla, non ne dubitava affatto.
    Ma la regina d’Inghilterra non era lì in quel momento, c’era solo Shiro, il suo braccio che non funzionava, e la sua vecchia spada ormai consumata. Era un chiaro scontro impari, da cui però Shiro uscì tutto sommato bene, con solo un paio di graffi, e dopo essere riuscito a stendere un colpo a Sendak in persona.
    A quanto pareva, quello gli aveva fatto ottenere, invece che una rabbia cieca e una vendetta, la stima del capitano pirata, il quale aveva riso della sua professione di frate, commentando con una risata “be’, è proprio quello che manca sulla nostra nave!”
    E quella era sostanzialmente la storia di come Shiro si fosse ritrovato a bordo della nave pirata Galra comandata dal crudele e violento capitano Sendak, e passasse le sue giornate legato all’albero maestro come una sorta di seconda polena – da quanto poi aveva cantato una delle sue canzoni religiose durante una tempesta e la nave si era salvata, anche gli uomini avevano iniziato a considerarlo una specie di talismano.
    Almeno, pensò Shiro guardando in avanti, all’oceano azzurro che si estendeva senza fine di fronte a sé, aveva una vista invidiabile.

    “Frate, cantaci qualcosa!” gridava ogni tanto qualcuno dell’equipaggio.
    Paradossalmente, Shiro era ben felice di sottostare a quell’ordine. Pregare e pregare cantando lo rilassava, lo portava a pensare che c’era sempre una speranza e che Dio non l’avrebbe abbandonato, non importa quanto la situazione sembrasse senza via d’uscita.
    Dopotutto, era ancora vivo, no?”
    “Salve, Regína,Mater misericórdiae,vita, dulcédo et spes nostra, salve.Ad te clamámus,éxsules filii Evae…”
    Poi, di solito, arrivava Sendak a berciare qualche ordine ai suoi uomini, che se ne andavano via protestando a obbedire, e poi si girava verso Shiro e borbottava, “e piantala con le tue nenie, frate, o la prossima volta userò te come esca.”
    A quanto pare, Sendak era davvero convinto che in qualche maniera le parole di Shiro avessero qualche effetto sugli eventi e sugli agenti atmosferici, per quanto Shiro gli avesse detto che l’unica cosa che poteva fare lui era chiedere aiuto a Nostro Signore, ma Sendak, come la maggior parte dei pirati, era superstizioso.
    D’altronde, credeva alle leggende di Holt come se fossero pura storia.
    Quel giorno, invece, non solo Sendak non berciò nulla, ma si arrampicò anche sul tettuccio, per accomodarsi vicino all’albero dove Shiro stava legato, una bottiglia di liquore dorato in mano.
    “Be’?” gli disse, quando Shiro si interruppe per la sorpresa. “Va’ avanti, frate, finisci quello che devi dire.”
    Shiro obbedì. “Et Iesum, benedíctum fructumventris tui,nobis, post hoc exsílium, osténde.O clemens, o pia, o dulcis Virgo María!”
    “Le tue canzone fanno veramente schifo,” comment Sendak alla fine, dopo una buona sorsata di liquore. “Sono delle lagne insopportabili, mi spaventano i pesci. Dovresti imparare qualcuna delle nostre.”
    “Tipo quella degli uomini sulla cassa del morto, o quella delle donne all’osteria?” domandò Shiro, in tono annoiato. “Almeno le mie hanno un vantaggio.”
    “E quale?”
    “Che non capisci che cosa dicono.”
    Sendak rise, una risata forte, sguaiata, ma divertita. “Tu mi piace, frate. È una delle ragioni per cui ogni tanto ho dei dubbi sul fatto che tu sia davvero un frate.”
    “Mi spiace non poter dire lo stesso di te, tu sei un pirata fatto e finito.”
    “Ma proprio per questo,” Sendak lo ignorò, “domani sarò magnanimo e ti permetterò di partecipare alla battuta di caccia.”
    “Caccia?” ripeté Shiro. Fra tutte le attività che aveva imparato a fare, la caccia non era esattamente al primo posto dell’alimentazione degli isolani, anche se sapeva che ogni tanto venivano cacciate specie particolari per essere rivendute come merci preziose più che come cibo per le persone. “E che cosa cacciamo, pappagalli?”
    “Pensi che io spieghi i miei uomini per degli uccellini?”
    “E cosa, allora?”
    “Sirene.”
    Shiro sbatté le palpebre. “Le sirene non esistono.”
    Non che Sendak fosse il primo a correre dietro a qualcosa che non esisteva, anche nella madrepatria spagnola molti avevano per anni seguito strani rituali, strane credenze, e infine si erano ritrovati con un pugno di mosche in mano. Anche se, a volte, queste pazzie portavano a grandi successi, come quando Isabella di Castiglia trovò il Nuovo Mondo.
    “Oh, esistono eccome,” ribatté Sendak. “Non posso credere che uno che ritiene credibile l’esistenza di un Dio diviso in tre persone poi sia così scettico di fronte a tutto.”
    “La fede in Nostro Signore richiede, appunto, fede nel suo nome e nelle sue opere,” ribatté Shiro. “E la Bibbia è una prova sufficiente della sua esistenza. Le tue sirene che prove hanno?”
    “È pieno di leggende sulle sirene, il tuo amico Sam Holt ne conosceva diverse. Solo perché non sono scritte, non significa che siano meno importanti o meno veritiere. La scrittura è sopravvalutata.”
    La menzione di Sam Holt aveva fatto pensare Shiro a lungo. Sam Holt e la sua famiglia erano riusciti a salvarsi, forse per via della superstizione di Sendak che non riteneva auspicabile uccidere un sapiente, ma erano stati interrogati (piratesco per torturati) a lungo, finché Sam Holt non aveva raccontato a Sendak le leggende che voleva sentirsi dire. Se fossero inventate oppure no, questo Shiro non lo sapeva, ma certo era che alcune di quelle non le aveva mai sentite.
    “È per quello che ti ha detto Sam Holt che stiamo andando a cercare le sirene?”
    “Esattamente. Vuoi sapere perché?”
    “Diciamo che non mi oppongo all’idea di venirne a conoscenza.”
    “A volte parli in modo che non si capisce, frate, sarà tipico di voi predicatori,” borbottò Sendak. “Comunque, il mio obiettivo è di ottenere l’immortalità.”
    “L’immortalità è solo quella dell’anima,” gli fece presente Shiro, con un’alzata di sopracciglio, “cosa che tu difficilmente otterrai se non ti penti dei tuoi peccati.”
    “Grazie, ma no grazie. L’ho visto quello che fa la gente per la tua immortalità, e non mi interessa,” replicò Sendak con un ghigno divertito. “Preferisco questa.”
    “E in che modo delle ipotetiche sirene ti farebbero diventare immortale?”
    “C’è un rituale complesso, e uno degli ingredienti fondamentali è proprio la lacrima di una sirena.”
    “Ecco perché nessuno può diventare immortale, dato che le sirene non esistono.”
    Sendak gli rivolse un sorriso divertito. “Vuoi scommettere?”
    “Perché no?” Shiro rispose con lo stesso tipo di sorriso. “Se ho ragione io e non c’è nessuna sirena, mi lascerai andare.”
    “E se avrò ragione io?”
    “Diventerò a tutti gli effetti un membro del tuo equipaggio.”
    “Lo giuri sul tuo Dio?”
    “Io non giuro su Dio, ma sulla fede che ho in lui sì.”
    “Affare fatto, allora,” Sendak ghignò. “Vinca il migliore.”

    Il giorno dopo, arrivarono all’isola che a detta di Sendak era una delle tane delle sirene. Lasciarono ancorata la nave vicino a una delle spiagge, le corde di Shiro furono sciolte, e poi camminarono a piedi lungo la spiaggia fino a raggiungere, dall’altro capo, un’insenatura lunga e stretta, circondata da due alti promontori, con alcuni punti di acqua molto bassa e ristagnante, e rocce aguzze che spuntavano sopra la superficie del mare.
    I pirati avevano con sé armi ed esplosivo, e si misero a costruire delle gabbie artificiali, fatte di canne e legacci. Al loro interno, misero dentro alcuni dei prigionieri che avevano catturato dopo l’assalto a una nave pirata rivale, poi spinsero le gabbie all’interno dell’insenatura, in modo che l’acqua arrivasse ai polpacci dei prigionieri, i quali erano stati precedentemente feriti con dei coltelli e ora spargevano in parte il loro sangue nel mare, e si lamentavano per il bruciore che il sale procurava loro.
    “Tutto questo perché?” domandò Shiro, incuriosito e un po’ schifato da quella procedura.
    “Serve ad attirare le sirene?”
    “Verranno in soccorso di quegli uomini?”
    “Oh, no,” Sendak ghignò. “Verranno a mangiarseli.”
    Subito dopo dalla baia si levò un grido spaventoso, a metà tra il pianto di un neonato e lo stridio di un gabbiano, e Shiro fu quasi tentato di lasciar cadere la spada per proteggersi le orecchie, ma resistette. Poi, il mare, nonostante non tirasse un soffio di vento, inizio a muoversi e a ondeggiare, l’acqua e la spuma che schizzavano contro le rocce e la spiaggia dove i pirati rimanevano in attesa.
    Poi, gli uomini prigionieri iniziarono a farsi sempre più vicini, terrorizzati, cercando di stare il più possibile lontano dalle sbarre, cosa difficile visto le dimensioni della gabbia. Uno di loro urlò, e venne afferrato da qualcosa e trascinato per terra. L’acqua attorno divenne rossa. Difficile vedere che cosa fosse con tutta quell’acqua che si muoveva, i cui schizzi arrivavano fino agli occhi di Shiro, facendoglieli lacrimare e bruciare.
    “Le sirene! Sono qui! Prendetele!”
    Con un urlo disumano, i pirati estrassero le loro pistole e si gettarono nella mischia. Shiro era stato in battaglie prima di allora, prima di essere un frate era stato anche un soldato, ma quello che stava osservando in quel momento era differente da tutto. L’acqua sembrava viva, e sembrava essere lei a colpire gli uomini e a inghiottire i prigionieri, mentre i pirati tentavano di sparare alle onde o di tagliarle con le loro spade.
    Sembravano pazzi, preda di uno stupore folle, e per un attimo Shiro pensò che forse era vero, forse non c’era nessuna sirena, forse era tutto frutto di una illusione collettiva e gli uomini venivano solamente puniti per la loro avarizia, per aver creduto che davvero si potesse inseguire un’immortalità sulla terra.
    Ma Shiro era curioso per natura, uno dei suoi numerosi difetti secondo Adam, e decise che doveva vedere con i suoi occhi quelle creature, che esistessero oppure no. Così, fece un tentativo passo in avanti nell’acqua: ormai la battaglia si era per la maggior parte spostata verso le gabbie, dove l’acqua era ancora più alta, e lì sulla riva, tra gli scogli che Shiro stava esplorando cautamente, arrivavano i resti della battaglia, sangue e schiuma assieme.
    “Pater noster, qui es in cælis: sanctificétur Nomen Tuum,” recitò Shiro sottovoce, per darsi pace nel mezzo di quell’intero casino, e forse anche per scacciare la sensazione di aver a che fare con creature demoniache mandate dal Dimonio. “ne nos indúcas in tentatiónem; sed líbera nos a Malo”
    E poi lo vide, una mano solitaria, mozzata, che galleggiava trasportata verso la riva, lasciando dietro di sé una striscia di sangue. Andò a incastrarsi vicino a uno scoglio, e Shiro ne seguì il percorso con gli occhi, senza riuscire a staccarli da quella che era la debolezza umana. E poi ci fu un guizzò improvviso, e qualcosa che emerse in fretta dall’acqua afferrò quella mano e se la portò giù.
    Quello che Shiro vide sembrò solo una pinna scintillante al sole, ma fu sufficiente per gettare la spada: sentì che colpiva qualcosa di duro, qualcosa di resistente, e lo attraversava prima di conficcarsi nella sabbia del fondo marino sottostante. Sentì un grido soffocato, come un gabbiano a cui avessero chiuso il becco d’improvviso.
    La sua attenzione fu di nuovo attirata dalla battaglia: ormai i prigionieri erano tutti caduti ed era chiaro che le sirene, se davvero di quello si trattava, erano passate ad occuparsi degli uomini: già sembravano meno dell’equipaggio che era arrivato, e anche lo stesso Sendak, che come sempre combatteva come se fosse preda del Dimonio, era ferito a una gamba.
    “Stiamo perdendo, capitano,” gridò Haxus, il quartiermastro, “dobbiamo ritirarci.”
    “Non prima di averne presa almeno una,” gridò Sendak, ma poi dovette guardarsi in giro e capire che la situazione stava svolgendo al peggio. Era crudele, ma non irrazionale, questo Shiro doveva dargliene atto.
    La Galra, che aveva ordine di raggiungere l’insenatura dopo un certo orario, era appena arrivata all’orizzonte. Appena Sendak la vide, gridò ad Haxus, “dai l’ordine!”
    Haxus corse sulla spiagga, quasi incespicò o forse rischiò di essere afferrato e poi diede fuoco ad uno dei barili di esplosivo. Fu l’ordine per chi stava sulla nave: tre cannonate vennero sparate a ripetizione contro una delle due scogliere, la baia rimbombò per quei colpi, poi le rocce caddero rovinosamente in mare schiantandosi sulla superficie e creando alte onde che poi vennero a schiantarsi sulla riva.
    I pirati approfittarono di quella distrazione per correre via, raggiungere la riva e salvarsi. In quella corsa, Shiro notò che tutti erano feriti, alcuni anche gravemente, la pelle lacerata e strappata in più punti. Sendak, invece, rimase eretto e fiero in mezzo al mare, mentre le onde attorno a lui si calmavano e svanivano. La baia torno calma e silenziosa, il mare piatto.
    Le gabbie erano rimaste vuote, i cadaveri orrendamente mutilati galleggiavano ora timidamente attorno a quello, molte delle sbarre erano state divelte. Le ultime onde avevano spostato alcuni resti sulla riva, e ora la spiaggia aveva assunto una tonalità rosso sangue. Sendak sputò a terra, con una smorfia. Mentre gli uomini si lamentavano dietro di lui, lui continuava a scrutare il mare sotto di lui.
    Shiro sentì uno strano rumore al suo fianco, tra un gemito e l’altro, e abbassò lo sguardo. La sua spada era sempre conficcata nella sabbia lieve, e adesso, con l’acqua calma e la maggior parte del sangue lavato via, poteva confermare che aveva infilzato una pinna.
    Una pinna di sirena, a quanto pare, a giudicare dall’essere che stava tirando e spingendo nel tentativo di liberarsi. Shiro restò a bocca aperta a osservare la scena. A un primo controllo, sembrava molto simile a un normale ragazzo sui vent’anni, con lunghi capelli neri e il petto nudo muscoloso senza essere esagerato.
    Poi però si notavano alcuni dettagli, come le mani che si allungavano in artigli, e naturalmente l’addome che si trasformava in scaglie e poi creava la forma di una lunga coda sinuosa, di colore rosso intenso, con le scaglie che brillavano al sole e piccole pinne che si muovevano seguendo il ritmo della risacca. Anche la pelle non era umana, ma leggermente trans lucente, come quella delle meduse, e alla base del collo si aprivano tre branchie, una per ogni lato.
    La creatura dovette sentirsi osservata, perché alzò lo sguardo, rivelando a Shiro un viso dolce e due paia di grandi occhi blu. Ma poi gli soffiò, sibilò nella sua direzione e Shiro poté notare con dovizia di particolare le zanne che quella bocca piccola e carnosa nascondeva.
    E quindi, a quanto pareva, le sirene esistevano davvero.
    “Nemmeno una siamo riusciti a prenderla, nemmeno una,” borbottò Sendak dietro di lui, mentre finalmente si decideva a raggiungere la riva. “Siete una massa d’incapaci, tutti quanti,” ignorando ovviamente di aver partecipato anche lui inutilmente alla caccia.
    “Ehm, Capitano,” chiamò Shiro.
    “Che c’è, frate?” sbottò Sendak. “Non sono in vena di sentire le tue chiacchiere sulle penitenze oggi.”
    “Questo è male, ma in ogni caso no, non è questo.” E Shiro gli indicò con il braccio la sirena ai suoi piedi, che ancora si agitava per liberarsi.
    Gli occhi di Sendak si illuminarono di una gioia maligna. Un attimo dopo, si era avvicinato per esaminare meglio la creatura. “Un esemplare giovane,” dedusse alla fine, “proprio quello di cui abbiamo bisogno. E bravo il nostro frate,” aggiunse, abbracciando Shiro con una delle sue enormi braccia, e stritolandolo quasi dalla forza, “lo sapevo che non eri solo parole.”
    Lo lasciò per rivolgersi ai suoi uomini. “Vergogna, vi siete fatti battere da un frate. Almeno rendetevi utili e portate la sirena a bordo.”
    Shiro rimase a osservare mentre i pirati si davano da fare e avvolgevano la sirena in corde e reti d’acciaio, nonostante questa si dibattesse e combattesse con ferocia, e poi la chiusero in una cassa per trasportarla meglio a bordo. Shiro fu l’ultimo a salire a bordo.
    A quanto pare, era diventato un pirata.

    Per i primi giorni, non cambiò molto a bordo, per Shiro. I pirati continuavano a fare i loro lavori e lo lasciavano in pace, ogni tanto lo prendevano bonariamente in giro per le sue litanie, che però avevano iniziato a rispettare ancora di più da quando si era dimostrato l’unico capace di catturare una sirena.
    “Allora è vero che cacci i demoni, frate,” gli dicevano, di tanto in tanto.
    Ma ora non era più legato all’albero maestro, e poteva liberamente girare per la nave senza starsi troppo a preoccupare della situazione. Diede una mano con i feriti e ascoltò le ultime confessioni di quelli che avevano riportato ferite troppo gravi dopo la battaglia, dando loro poi l’estrema unzione. Paradossalmente, furono i primi atteggiamenti da frate che ebbe su quella nave pirata.
    Per diversi giorni, non vide la sirena. A quanto dicevano i pirati attorno a lui, era stata rinchiusa in una cassa di vetro piena d’acqua di mare, per non farla morire, ma nessuno aveva veramente voglia di avvicinarsi e capire che cosa stesse facendo, per cui la lasciavano in pace. Finché qualcuno non si accorse che, a lasciarla chiusa lì dentro, rischiava di morire.
    “E allora portatela fuori,” fu il commento seccato di Sendak, che era molto più concentrato a trovare la rotta per una presunta fonte dell’immortalità che a fare da balia a una sirena. “Basta che non mi secchiate. Ma se muore, ve ne prenderete la responsabilità.”
    Così gli uomini giocarono a dadi per stabilire chi era lo sfortunato che avrebbe dovuto andare a prendere la cassa per tirarla sul ponte.
    “Per favore, frate, vieni con noi,” chiesero quindi i malcapitati, una volta che furono sorteggiati. “Almeno, se la creatura proverà a farci il malocchio, tu potrai sconfiggerla di nuovo.”
    Shiro dubitava che la sirena fosse in grado di lanciare maledizioni, ma acconsentì, perché era di buon cuore e quegli uomini parevano davvero spaventati. Così scesero nella stiva e lì Shiro rivide per la prima volta la creatura, che se ne stava rannicchiata in posizione fetale all’interno di una cassa di vetro a malapena in grado di contenerla.
    “Andate via,” ordinò agli uomini.
    “Ma…” protestarono loro.
    “Ma niente, avreste dovuto trattarla come un essere umano fin dall’inizio. Pregate Iddio che sia ancora viva.”
    Ma poiché erano felici di non doversene occupare, se ne andarono di gran lena, mentre Shiro si avvicinò alla cassa a grandi passi e la aprì senza preoccuparsene troppo, lasciando che l’acqua di mare strabordasse ai lati. Appena ottenuto più spazio, con agilità felina la creatura si alzò, stendendo busto e braccia e collo. Poi si accorse di Shiro: gli soffiò ancora, e si spinse contro il muro, per proteggersi.
    Shiro alzò le mani. “Non voglio farti del male. Sono qui per aiutarti. L’avrei fatto in precedenza, ma non avevo capito quanto male ti stessero tenendo. Io sono un frate, predico l’amore per tutte le creature. E benché non sapessi della tua esistenza, è chiaro che anche tu sei una creatura di Dio, permettimi di aiutarti.”
    La sirena continuò a osservarlo in maniera truce.
    “Lo so che non hai ragione di credermi, sono stato io a catturarti… ma anche io sono stato prigioniero qui a lungo. Si può sopravvivere. Permettimi di aiutarti.”
    Ancora nessuna risposta, quindi Shiro sospirò e disse tra sé, “forse non mi capisce, forse non parla la mia lingua.”
    “Ti capisco, umano,” e Shiro ci mise un attimo a capire che era stata la sirena a parlare, con una voce bassa, soffice. “La conosciamo la vostra lingua, anche se non ci piace parlarla. E non mi piace quello che mi stai dicendo.”
    “Non lo vuoi il mio aiuto?”
    “No. Non ne ho bisogno.”
    “Va bene,” annuì allora Shiro. “Dirò agli uomini di non avvicinarsi a questa stiva, ma almeno avrai un po’ di spazio. Sei sicuro che non ti serva nulla?”
    La sirena lo guardò sospettosa, poi disse, “il sole. Siamo creature marine, ma abbiamo bisogno della luce per sopravvivere.”
    Shiro annuì di nuovo. “Posso portarti al sole. Se me lo permetti.”
    Con passo incerto, la sirena uscì totalmente dalla cassa e si striscò fino a lui. “Portami al sole.”
    Con delicatezza, Shiro la afferrò passando l’unico braccio sano sotto le sue braccia, e per fortuna era abbastanza minuta per Shiro da raggiungere la parte superiore della sua coda per poterla tirare su.
    “Come ti chiami?” le chiese, stupendola.
    “Keith.”
    “Io sono Shiro. Tieniti bene a me.”
    La sirena passò le braccia attorno al collo di Shiro e lui sistemò meglio il braccio sotto la sua coda per tenerla su con più facilità, quindi lasciò la stanza. Se l’avesse portata sul ponte avrebbe scatenato il panico di tutti, quindi la portò nella sala mensa, che si trovava in una delle stanze più alte della nave, e dalle cui finestre penetrava un caldo, accecante sole.
    “Non avevi paura che ti azzannassi?” gli chiese Keith, una volta che Shiro lo ebbe poggiato a terra proprio accanto a una delle finestre, in modo che il sole gli arrivasse addosso.
    “Be’, se l’avessi fatto, saremo stati pari, credo.” Gli sorrise. “Come va la ferita?”
    Keith alzò leggermente la pinna e sorrise. “Sta guarendo.”
    “Mi dispiace.”
    Keith alzò le spalle. “È stato un colpo fortunato.” Poi si voltò e rivolse lo sguardo al sole: Shiro rimase a guardare come incantato mentre il sole gli faceva scintillare la pelle e soprattutto le squame rosse della coda, e lui agitava i suoi lunghi capelli neri, spargendo piccole goccioline ovunque. Era una visione quasi mistica, e Shiro si sentì in colpa per averlo pensato.
    Il misticismo del momento venne interrotto da un piccolo ruggito, e fu solo il leggero rossore sulle guance di Keith che gli fece capire che era stato lui, o meglio il suo stomaco, e che era affamato. Shiro dovette sforzarsi molto per trattenersi dal ridere della scena.
    “Nessuno mi ha dato da mangiare in questi giorni,” si giustificò Keith.
    “Che cosa mangi, di solito?”
    “Pesce crudo.”
    Shiro tirò un sospiro di sollievo, e alla domanda nel viso di Keith, aggiunse, “se mi avessi detto carne umana, avremo avuto un problema.”
    “Noi non mangiamo carne umana, ci fa schifo,” fece presente Keith, con un piccolo sbuffo. “Ma è meglio che gli uomini lo credano, così ci lasciano in pace. Be’, quasi tutti.”
    “Questo mi rassicura ancora di più, visto il tuo appetito,” sorrise Shiro. “Aspettami un attimo qui.” Dalla sala mensa, raggiunse un attimo la dispensa, che era piena di barili di pesce pescato in giornata. Ne scelse uno di dimensioni ragguardevoli e ritornò su per consegnarlo a Keith.
    “Bleah, è crudo,” commentò lui, con uno sguardo un po’ schifato, ma evidentemente la fame lo vinse, perché prese il pesce e iniziò ad addentarlo con le sue zanne. Shiro si sedette a terra al suo fianco e lo guardò con ammirazione, mentre divorava il pesce fino a lasciarne a malapena la lisca centrale.
    “Grazie,” disse poi con sincerità, appoggiandosi meglio contro la finestra. “Che cos’hai fatto al braccio?” gli chiese.
    “Questo?” Shiro indicò il suo braccio destro, che ciondolava morto al suo fianco. “Paralizzato. Una malattia da bambino.”
    “E questa?” aggiunse Keith, indicando la cicatrice.
    “In guerra, quando combattevo per il mio sovrano.”
    “Lo sapevo che eri un guerriero,” disse Keith. “Ne hai l’aura.”
    Ma poi chiuse gli occhi e non aggiunse più nulla, limitandosi a godere del sole, dopo un buon pranzo. Non ci volle molto per capire che si era addormentato.

    Quei piccoli momenti diventarono di routine fra di loro. I pirati lo presero come un’altra delle stranezze del frate, che con le preghiere faceva cessare le tempeste e ammaliava le creature demoniache. Stavano sempre alla larga, ma era meglio per Shiro, che poteva occuparsi di Keith in tutta tranquillità, lo portava al sole, lo nutriva, si assicurava che non stesse male. Sendak, che era felice perché credeva di aver finalmente trovato la rotta giusta, ogni tanto lo prendeva bonariamente in giro, ma apparentemente riteneva queste piccole riunioni solo una bizzarria, e non le temeva.
    D’altronde, Shiro non aveva mai fatto cenno a voler liberare Keith, né Keith gli aveva mai chiesto di farlo.
    Fino a quel momento.
    “Lo sai perché Sendak ha voluto catturarti?” domandò Shiro a Keith, quel giorno.
    Keith scosse la testa e alzò le spalle. “Io gli uomini non li capisco.”
    “Nemmeno me?”
    “Soprattutto te.” Ma non approfondì l’argomento, per cui Shiro lasciò perdere.
    “Lui pensa che mescolando una tua lacrima a l’acqua di una fonte che stiamo andando a trovare, e dove a quanto pare approderemo domani, e bevendola su uno specifico calice d’argento che è in suo possesso, diventerà immortale.”
    Keith sbuffò, e Shiro aveva imparato a riconoscere quelle sue espressioni di incredulità davanti alla stupidità umana.
    “Quindi non è vero?”
    “Magari lo è,” rispose Keith, “ma gli esseri umani cercano solo cose stupide.”
    “L’immortalità è stupida?”
    “Sì, lo è, perché vuol dire che ti importa di più capire come vivere per sempre che capire perché sia importante vivere,” rispose Keith. “La tua filosofia,” che era il modo in cui Keith chiamava la sua religione, e a differenza dei pirati lo ascoltava sempre con volontà, “non dice la stessa cosa?”
    “Direi di sì. Ma d’altronde non sono io che voglio diventare immortale. Lo sarà la mia anima quando morirò, se Iddio vorrà.”
    Keith tornò a guardarlo curiosamente. Poi, per la prima volta, usò la sua coda per spingersi in alto, allungò la mano e aprì la finestra. Sotto di loro, Shiro sentì il rumore delle onde che si infrangevano contro la chiglia della nave, e il vento che fischiava nelle vele.
    “Hai intenzione di fermarmi?”
    “No,” affermò Shiro, quasi stupito di sé stesso.
    “Perché?”
    “Perché Sendak non è uomo che meriti l’immortalità. Nessun uomo la merita, ma di sicuro non lui.”
    Keith allungò la sua mano con gli artigli, ma che a Shiro ormai non faceva più nessuna differenza. “Vieni con me,” gli disse.
    “Dove? Negli abissi?” scherzò Shiro.
    “Perché no?” rispose Keith. “Se resti qui e mi lasci scappare, Sendak ti ucciderà, se non peggio.”
    “Questo è vero.”
    “Non ti fidi di me?”
    Di tutte le cose che Shiro pensava gli potessero succedere nei caraibi, aveva messo in conto i pirati, ma non le sirene, senza dubbio. Ma afferrò comunque la mano di Keith.
    “No, mi fido.”
    Keith gli sorrise, e poi con un gesto della coda improvviso, si spinse fuori dalla finestra e si gettò nell’oceano, trascinando Shiro con sé. Shiro non era preparato, e atterrò male, sentendo tutta la forza dell’impatto contro la superficie del mare, poi iniziò ad affondare come un sasso. Cercò di agitarsi, annaspando, per ritrovare la superficie, ma l’acqua era fredda e gli entrava nelle ossa, e pesante, e la corrente era forte.
    Poi due mani lo afferrarono, e Keith era davanti a lui, e lo baciava, e Shiro non riusciva a pensare a niente, nemmeno al peccato, mentre le branchie gli crescevano e iniziava a respirare sott’acqua. Non aveva la coda, ma poteva sopravvivere. Sentiva la pelle strana, quasi viscida, e le dita gli si erano attaccate una all’altra come quelle di una papera. La sensazione dell’acqua che gli entrava attraverso il collo assieme all’aria gli diede inizialmente una sensazione di solletico, poi divenne piacevole.
    Keith gli sorrise, lo prese per mano e lo trascinò ancora più a fondo, ai piedi dell’oceano profondo.
    “Io non so cosa sia davvero questo paradiso di cui parli,” disse Keith, “ma spero di andarci con te.”
    Dopo quello, Shiro non era sicuro che ci sarebbe più finito in paradiso. Ma d’altronde, una parte di lui non ci aveva mai creduto, era diventato frate quasi nella speranza di rimediare ai suoi peccati, che erano numerosi e gravi. E adesso si chiedeva se quello che gli stava succedendo fosse una punizione divina o un premio per qualcosa.
    Ma guardando Keith negli occhi, pensò che non aveva particolari dubbi a riguardo.
    “Ci siamo già.”
     
    Top
    .
0 replies since 31/3/2020, 19:15   22 views
  Share  
.