Akemichan's blog

Posts written by Akemichan

  1. .
    Dopo aver liberato il pianeta dai Galra, i Paladini erano stati invitati dagli abitanti a partecipare alle celebrazioni che si sarebbero tenute in onore della ritrovata libertà. Tutti si erano dimostrati subito favorevoli ad accettare, soprattutto Shiro riteneva che avessero bisogno di un momento di pausa da tutte le battaglie che stavano affrontando di recente, e anche Allura acconsentì.
    “Approfittiamo di questo momento,” disse Allura, “per stringere ancora di più i nostri legami con loro, e capire se sanno qualcosa sui Galra che potrebbe esserci utile per le battaglie future.”
    “E divertitevi,” aggiunse Shiro.
    “E divertitevi,” confermò Allura, che come al solito era stata obbligata da Coran a restare al castello per sicurezza.
    Lance disse qualcosa di imbarazzante nei confronti di Allura e venne trascinato via da Pidge e Hunk, Shiro e Keith li seguirono al di fuori del Castello. La festa si rivelò molto simile a un mercato rionale terreste, con bancarelle sparse fra cibo e oggettistica e anche baracconi per i divertimenti. Tanta era la gente che Shiro perse di vista Keith e gli altri quasi subito, anche perché non mancava un attimo in cui non venisse fermato da qualche abitante che lo voleva ringraziare per il salvataggio.
    Alla fine riuscì a svincolarsi e a godersi il mercato, godendosi della normalità delle bancarelle, finché non ci fu una in particolare che attirò la sua attenzione. Era meno considerata rispetto alle altre, con un grosso cartello sopra che attirava l’attenzione in quanto scritto completamente in rosso.
    Diceva: “per liberarsi dei propri rimpianti e dei propri rimorsi”.
    “Sei interessato?” chiese l’alieno, notando che Shiro stava guardando il cartello.
    “Ehm… mi chiedevo di cosa si trattasse.”
    L’alieno indicò il sarcofago dietro di sé. “Se entri qui dentro, hai la possibilità di vedere la tua vita se avessi effettuato una scelta diversa. Di norma serve a farti capire se hai preso la decisione giusta.”
    “Ah, no, allora grazie,” rise Shiro. “So già che probabilmente ho preso decisioni pessime.”
    “Davvero?” disse l’alieno. “Perché magari non è vero. Magari hai sempre preso la decisione giusta e non lo sai. La mia macchina serve proprio a questo.”
    Shiro tergiversò un attimo. “Ma sì,” disse infine. “Peggio di questo non mi può capitare.”
    Così lasciò che l’alieno aprisse il coperchio del sarcofago, lo facesse accomodare e poi lo richiudesse sopra Shiro. Paradossalmente, non si sentì a disagio, il dentro era comodo e rassicurante, con una lucetta blu. Per non vedere il coperchio chiuso, chiuse gli occhi e si lasciò andare a quello che sembrava un rilassante rumore di onde.
    Poi, improvvisamente, sentì delle voci, prima lontane, poi sempre più vicine, come se lui si fosse avvicinato a loro e le stesse sentendo meglio. Sembrava che litigassero, a dire la verità, e uno di loro due sembrava Keith, mentre l’altro, benché familiare, Shiro non riusciva bene a coglierlo.
    Riaprì gli occhi con l’intenzione di dire qualcosa, ma si bloccò accorgendosi che non si trovava più all’interno di un sarcofago, ma era in un letto di quella che sembrava l’infermeria della Garrison. Con ancora più sorpresa, vide che accanto al suo letto c’erano Adam e Keith, il quale indossava una divisa da ufficiale della Garrison, e aveva anche lo stesso aspetto più adulto del Keith che Shiro aveva ritrovato dopo i due anni.
    Era questo quello che il sarcofago faceva? Che decisione stava cambiando, che realtà diversa gli stava mostrando?
    Entrambi smisero di litigare e lo guardarono. “Takashi,” disse Adam, con una voce soffice e rassicurata, “come ti senti? Ti ricordi quello che è successo?”
    “A dir la verità no,” ammise Shiro.
    “Sei svenuto mentre stavi andando in caffetteria. Da solo,” puntualizzò Adam. “Ti ho detto più volte che non devi uscire se non c’è qualcuno ad accompagnarti.”
    Keith, al suo fianco, fece una smorfia di fastidio, a cui Adam scoccò un’occhiata irritata.
    “Sto bene,” disse Shiro, “davvero.”
    Fece per alzarsi, ma Adam lo fermò. “Non sappiamo ancora le cause del tuo svenimento, per ora è meglio che rimani qui.”
    “Non hai una lezione?” disse Keith, petulante. “Posso restare io qui con Shiro.”
    Adam sembrò rifletterci un attimo, poi annuì, con un sospiro. “Va bene, ma non fallo scendere dal letto per nessun motivo. Lo so che speri ancora che Takashi abbia un’improvvisa guarigione, ma dobbiamo arrenderci all’evidenza che non è così.”
    “Ho detto che resto qui, vai tranquillo,” fu l’unica risposta di Keith, probabilmente un po’ troppo irritata per quello che Adam aveva detto.
    Senza che Shiro avesse la possibilità di ribattere, Adam lo baciò sulle labbra, mormorò un “a dopo” e poi uscì in tutta fretta dalla stanza. Con un’altra smorfia, Keith prese una sedia e si accomodò al fianco di Shiro, che solo in quel momento si sistemò un po’ meglio sul lettino.
    “Lo so che Adam a volte sembra un po’ troppo protettivo,” tentò di difenderlo Shiro, “ma lo sai che non ha cattive intenzioni.”
    “Non credo riuscirò mai a perdonarlo per non averti fatto andare a Kerberos,” rispose Keith. “Se ci fossi stato tu nulla di quello che è successo sarebbe accaduto.”
    “E che è successo?” chiese immediatamente Shiro, e poi si rese conto che non era una domanda che doveva fare, perché lui avrebbe dovuto saperlo, in quella realtà, avrebbe dovuto averla vissuta.
    Keith stesso ebbe un attimo di smarrimento, alla domanda, e scrutò Shiro attentamente. Poi, con lentezza, disse, “che cosa hai fatto al tuo braccio destro?”
    Shiro, senza accorgersene, lo alzò per osservarlo, e allora capì. Aveva il braccio di metallo, quello che gli avevano messo i Galra per farlo combattere meglio. Se non era partito per Kerberos non poteva averlo, in quella realtà. Keith lo afferrò e lo esaminò.
    “Questa non è un tutor…. Che cos’è Shiro?”
    Shiro prese un sospiro. “Sto per dirti una cosa incredibile… prometti di credermi?”
    “Lo sai che ti credo sempre, Shiro,” replicò Keith senza alcun dubbio.
    “Va bene,” Shiro annuì. “Io vengo da un’altra realtà. Una realtà dove sono andato come pilota durante la missione di Kerberos.”
    Keith sbatté le palpebre. “Ma se tu sei qui, dov’è lo Shiro della mia realtà?”
    Era quasi comico come Keith non fosse nemmeno per un secondo stupito dalla questione, ma gli avesse creduto sulla parola, informandosi solo su quello che gli importava davvero.
    “Immagino che sia finito al mio posto nella mia realtà.”
    “Oh. E com’è successo? Può tornare indietro?”
    “Penso proprio di sì… ecco, diciamo che stavo tentando un simulatore che potesse mostrare le diverse conseguenze di scelte diverse, e che ha funzionato fin troppo bene. Ma c’era chi se ne occupava dall’altra parte, quindi penso che rimanderanno indietro il tuo Shiro appena possibile.”
    “Bene, okay.” Ora Keith sembrava un pochino scosso. Continuava a spostare lo sguardo dal viso di Shiro al braccio di metallo. “Allora.. è andato tutto bene a Kerberos? Non come qui, immagino, dato che tu sei ancora vivo.”
    “Dimmi, Keith, che cos’è successo qui in questa realtà?” chiese allora Shiro, adombrandosi un attimo.
    Keith fece una smorfia. “Da dove vuoi partire?”
    “Dal perché non sono andato su Kerberos.”
    “Adam ti ha costretto a non farlo. Ha detto che ti avrebbe lasciato, perché non poteva sopportare che tu ti facessi male, e tu hai acconsentito. C’è andato quel cretino di Johnson, che non è arrivato più lontano di circumnavigare la terra, e si è visto.”
    Shiro si ricordava di Johnson, non era male come pilota ma in effetti non sarebbe stato la prima scelta di Shiro al suo posto. Però era ben ammanicato, se Shiro si ricordava bene. E così in questa realtà aveva preferito Adam al suo sogno… eppure, nonostante tutto quello che era successo dopo Kerberos, Shiro si ritrovò a pensare che non credeva sarebbe stata la scelta giusta. Non aveva provato niente rivedendo Adam, se non una sottile nostalgia.
    “Come prevedibile, Johnson ha sbagliato l’atterraggio e la navicella si è schiantata su Kerberos, sono tutti morti i membri dell’equipaggio. Per questo dico che se ci fossi stato tu non sarebbe successo.”
    A quello Shiro non stava già più pensando. “Erano Matt e Sam Holt, gli altri membri?£
    “Sì. Anche nella tua realtà?”
    Shiro annuì. “Ma se l’unica cosa diversa qui è la mia decisione…” E improvvisamente capì che c’era qualcosa che doveva fare assolutamente. “Keith,” disse serio. “Tu hai un coltello, vero? Un ricordo che hai sempre portato con te.”
    Ci fu un attimo di sorpresa negli occhi di Keith. “Come fai a saperlo… oh, certo, devo avertelo detto nell’altra realtà.”
    “Esatto. Potresti farmelo vedere?”
    Keith si frugò nella giacca della divisa e lo estrasse per passarglielo. Shiro lo esaminò e trovò senza alcun dubbio il simbolo delle Spade di Marmora. Quindi i galra erano là fuori da qualche parte, ma non c’era uno Shiro a venirli ad avvertire, e non c’era un Keith là fuori che potesse salvare Johnson dalla Garrison (posto che riuscisse a sopravvivere all’arena, cosa non scontata) e che stesse cercando il Leone Blu.
    Shiro doveva intervenire.
    “Ascoltami bene, Keith,” gli disse. “Molte di queste cose non avranno senso per te, ma dobbiamo farlo per salvare l’universo anche in questa realtà. Adesso tu devi andare a cercare dei tuoi ex compagni. Lance McClain, a questo punto credo si sia graduato come pilota cargo, Hunk Garret, che è un ingegnere, e penso che ci sia anche uno studente con il nome di Pidge Gunderson. Li devi radunare e gli devi dire che Takashi Shirogane ha bisogno di loro per una questione che riguarda la missione Kerberos. Vedrai che verranno.”
    “E poi?”
    “Vi spiegherò appena saremo tutti riuniti. Adesso vai.”
    Non ci fu nemmeno più un attimo di esitazione in Keith, che nonostante quello che aveva promesso ad Adam si alzò e lasciò la stanza in tutta fretta. Quando se ne fu andato, anche Shiro si alzò e recuperò la sua divisa, indossandola. Dentro c’erano le chiavi del suo appartamento e, soprattutto, le chiavi della sua auto. Si recò quindi al parcheggio e la trovò, nello stesso punto in cui la lasciava sempre anche nella sua realtà.
    Era incredibile quante cose fossero rimaste uguali, eppure quanta enorme differenza aveva fatto una scelta, un semplice sì o no.
    Prese la macchina, settò il navigatore su quello che gli sembrava essere il luogo dove avevano trovato il Leone Blu e attese. Come promesso, Keith si presentò con gli altri tre all’appuntamento dell’hangar, praticamente trascinando Hunk per la collottola.
    “Salite,” ordinò Shiro, e poi partì lasciandosi la Garrison alle spalle.
    “Questo non piacerà ad Adam,” fece presente Keith una volta che furono fuori dei cancelli.
    “Dovrà farselo piacere perché è per un bene superiore,” rispose Shiro, e Keith sembrò particolarmente deliziato della risposta.
    “Volevo solo dirle che sono onorato che lei abbia scelto me per questa missione, qualunque cosa sia,” disse Lance, “sono un suo fan da sempre.”
    “È vero che questa cosa ha a che fare con la missione Kerberos?” chiese Pidge.
    “Sì,” Shiro confermò. “Non c’è stato nessun incidente. L’equipaggio è stato rapito da una terribile razza aliena che sta colonizzando l’universo. Dobbiamo recuperare un’arma che stanno cercando prima che la trovino loro, e possiamo farlo solo noi.”
    “Oh,” Lance si paralizzò un attimo. “È la trama di almeno un paio dei miei film preferiti.”
    “È successo così anche nella tua realtà?” domandò Keith, e Shiro sapeva che c’era di più in quello che stava chiedendo rispetto a quello che chiese davvero. Quello che Keith voleva sapere era se Shiro stesso era stato rapito dagli alieni, e cosa quello comportasse.
    “Diciamo di sì.”
    “Okay, tutto chiaro, tutto bello, ma perché proprio noi?” protestò Hunk. “Io non sono un eroe da film.”
    “No, Hunk, lo sei, credimi.”
    Arrivarono all’entrata della grotta, Shiro scese e tutti lo seguirono finché non arrivarono nella cavità sotterranea dove si nascondeva il Leone Blu: era così anche in quella realtà.
    “Okay, ti credo,” commentò Pidge, con la bocca spalancata.
    “Lance,” disse Shiro, “questo è il tuo leone. Vai a prenderlo.”
    Lance si sentì immediatamente ringalluzzito dalla situazione, e si avvicinò allo scudo del leone Blu. Come l’altra volta, lo scudo si abbassò, tutti poterono entrare a bordo e il leone saltò via nello spazio per portarli al Castello dei Leoni.
    “Shiro,” chiamò Keith, spaventato. “Stai scomparendo!”
    Tutti si voltarono a guardare, e Shiro stesso alzò il braccio e lo vide diventare pallido e poi trasparente.
    “Sto per tornare nella mia dimensione,” capì Shiro. “Non so quanto tempo mi sia rimasto. Raccontate voi al vostro Shiro cosa sta succedendo, e ricordatevi di contattare le Spade di Marmora: anche loro sono Galra, vi aiuteranno. Abbiate tutti fiducia in voi stessi, siete stati scelti per una ragione, e Keith…” Si voltò a guardarlo, “grazie per essermi stato accanto anche in questa realtà.”
    “Lo farò sempre. Se quello dell’altra realtà non l’ha fatto, è un idiota.”
    No, non lo è, pensò Shiro, e poi il viso di Keith scomparve e ricomparve la lucina blu del sarcofago e Shiro spinse immediatamente via il coperchio: aveva di nuovo la sua armatura da paladino, e trovò tutti gli altri, Allura compresa, che lo guardavano rassicurati. Era di nuovo nel Castello dei Leoni.
    “Cos’è successo?” chiese.
    “Oh, nulla di che,” Lance agitò la mano. “Quello strano alieno ha tentato di rapirti e venderti ai galra, ma ti abbiamo salvato. Con noi intendo tutti noi tranne Keith, che l’unica cosa che ha fatto è stata farsi catturare anche lui.”
    Keith alzò gli occhi al cielo, e non rispose. Poi però guardò Shiro con una consapevolezza diversa.
    “Be’, allora vi ringrazio,” disse Shiro spicciolo, poi uscì definitivamente dal sarcofago e prese Keith per un braccio e lo portò in un luogo appartato. Prima che potesse dire qualcosa, fu Keith a parlare.
    “Li hai portati dal Leone Blu?”
    E Shiro sorrise. Ovvio che Keith ci avesse pensato, ovvio che Keith avrebbe immediatamente capito che cosa Shiro sarebbe andato a fare. Era sempre stato così.
    “Sì, l’ho fatto, grazie all’altro te stesso che è sempre stato dalla mia parte, anche nell’altra dimensione.”
    “Bene,” Keith sorrise, con le guance leggermente tinte di rosso.
    “Ma sono preoccupato per l’altro me stesso,” disse Shiro. “È davvero malato come facevano credere nell’altra dimensione?”
    Keith sbuffò. “Ovvio che no. Sì, non ha il vantaggio di una super arma, e la sua malattia ai muscoli ogni tanto gli crea dei crampi, ma sei tu. Se la caverà.”
    “Con te al fianco ne sono sicuro.”
    Keith arrossì ancora. “Guarda che è tutto merito tu, anche io… se non fosse stato per te io non sono dove sarei adesso…”
    “Sono comunque felice ti poter contare su di te,” aggiunse Shiro, mettendogli affettuosamente il braccio attorno alle spalle.
    “Dici che l’altro te stesso lo mollerà Adam, adesso?” chiese Keith, appoggiandosi maggiormente a lui.
    “Smettila di essere così cattivo con Adam,” Shiro protestò, anche se in maniera divertita.
    Ma dentro di sé era sicuro: l’altro se stesso avrebbe probabilmente lasciato Adam non appena fosse tornato nella sua realtà. Perché apparentemente era la cosa giusta da fare per la salvezza dell’interno universo.

    Edited by Akemichan - 31/3/2020, 20:18
  2. .
    “Vuoi fermarti a dormire da me?” gli propose Shiro, una volta che Keith ebbe chiuso il libro di appunti su cui avevano studiato tutta la sera. “È tardi, così non devi andare fino a tuo dormitorio adesso.”
    Keith rimase incerto per un attimo. Ovviamente rimanere a dormire da Shiro era un suo desiderio da sempre, era successo qualche volta in passato ma non era un’occorrenza fissa. Allo stesso modo, però, Keith non voleva dargli dei disagi. Sapeva che di recente i contrasti tra Shiro e Adam si erano intensificati, Shiro tendeva a non parlarne mai perché non voleva scaricare i suoi problemi su Keith e voleva approfittare della sua compagnia per rilassarsi, ma ogni tanto venivano fuori, e per Keith era abbastanza difficile ignorarli.
    Probabilmente perché non capiva Adam abbastanza, per lui non ci sarebbe stato niente di più bello che poter stare al fianco di Shiro e incoraggiarlo in tutto il suo percorso. Ma sapeva che Shiro teneva ad Adam e quindi non voleva intromettersi o parlarne male.
    “Non vorrei che Adam si lamentasse,” disse quindi.
    “Oh, non credo tu te ne debba preoccupare,” si schernì Shiro. Scostò lo sguardo imbarazzato. “Io e Adam ci siamo lasciati, lui si è fatto assegnare un altro alloggio qui nella base.”
    “Oh,” mormorò Keith.
    Aveva sentimenti contrastanti, una parte di lui era quasi sollevata, adesso Shiro non era più fidanzato, era libero, aveva una piccola possibilità (piccola, quasi insignificante, perché Keith sapeva benissimo che non aveva possibilità finché Shiro continuava a ritenerlo un ragazzino da istruire). Ma dall’altro canto saliva anche il dispiacere per Shiro, che sicuramente da quella rottura ci stava soffrendo, e anche la rabbia per Adam che lo aveva lasciato in un momento così delicato della sua vita. Non sapeva però come esprimere tutta quella miriade di sentimenti in una maniera che potesse essere di sostegno a Shiro.
    Quindi disse solo, “Mi dispiace.”
    “Be’, oh, prima o poi doveva succedere, eravamo in rotta da un po’.” Shiro alzò le spalle e provò a sorridere, con scarsi risultati, almeno per quanto concerneva Keith. “Però non ti devi preoccupare di lui se vuoi restare.”
    “Va bene, allora.”
    Per un attimo Keith pensò che Shiro l’avrebbe fatto dormire nel suo letto, adesso che Adam non c’era più. Invece, quando lo vide tirare fuori la coperta, capì che avrebbe dormito sul divano come tutte le altre volte. Andava bene, non c’era grande problema, tanto anche se avessero dormito nello stesso letto non sarebbe successo nulla, perché Shiro non ci avrebbe nemmeno pensato, ma a Keith avrebbe fatto piacere stringersi contro il suo corpo e avvertire il suo calore, il suo respiro, e il battito del suo cuore.
    “Tieni,” disse Shiro, passandogli una delle sue maglie che avrebbe potuto utilizzare come pigiama e la coperta. “Il bagno è tutto tuo, ti ho già messo gli asciugamani. E domani, se vuoi, possiamo andare a fare colazione fuori dalla base, magari alla pasticceria sulla quinta?”
    “Ci vuoi andare tu, dì la verità,” rise Keith.
    “Ebbene sì. Ma tanto piace anche a te, no?” gli fece l’occhiolino, poi sorrise dolcemente e passò le mani fra i capelli neri di Keith. “Buonanotte.”
    Keith lo osservò con lo sguardo mentre andava nella sua camera e chiudeva la porta alle spalle, quindi sospirò. Sentiva che Shiro alzava spesso un muro in sua compagnia, come faceva con altri, ma sperava che un giorno Shiro capisse che Keith non l’avrebbe abbandonato nemmeno se si fosse mostrato completamente indifeso.
    Andò in bagno, si lavò, si mise la maglia (che gli arrivava quasi alle ginocchia, da quanto era lunga), si sdraiò sul divano e si addormentò con la coperta addosso. Non sapeva da quanto si era addormentato, ma si svegliò di soprassalto quando avvertì la scossa di terremoto. Almeno pensava fosse terremoto, era un tremolio costante e anche una sensazione come se qualcuno gli tirasse contemporaneamente ogni centimetro di pelle per strappargliela di dosso.
    “Shiro!” tentò di gridare, sentendosi la voce impastata dal sonno e dallo spavento.
    Mise un piede fuori del letto e inciampò, cadendo a terra. Quando fece per rialzarsi, il tremolio era terminato, ma Keith non si trovava più all’interno della stanza di Shiro, ma in una piccola cabina di metallo, che sembrava molto tecnologica, ma grande a malapena a contenere una persona in piedi. Keith si guardò intorno, cercando di tenere il respiro e la paura sotto controllo.
    “Keith? Ci sei? Rispondimi? Che cos’è successo?” lo chiamò una voce dall’esterno, attraverso un altoparlante. Non era una voce che Keith ricordava o conosceva.
    “Ci sono. Non lo so cos’è successo. Dove sono? Chi siete?”
    “Uhm… e tu non sei Keith,” disse la voce. Poi, sottovoce a qualcun altro, “forse è meglio se apri la porta.”
    “Sì, aspetta che stacco tutto,” disse un’altra voce, di nuovo, Keith non l’aveva mai sentita.
    “Apritemi! Fatemi uscire!” Keith sbatté i pugni sulla cabina, preoccupato. Che cos’era successo, dov’era Shiro?
    “Stai fermo un attimo, mi distruggerai tutto,” disse la seconda voce, annoiata. “Ecco, ho fatto!”
    Nella cabina si aprì una piccola porta e Keith immediatamente sgusciò all’esterno, libero, solo per rendersi conto che non aveva idea di dove si trovasse, né chi fosse quella gente che lo guardava con gli occhi spalancati. D’istinto, fece un altro passo indietro e inciampò, cadendo con il sedere sul pavimento duro.
    “Keith?” disse l’uomo che aveva parlato per primo, un ragazzone alto e largo che indossava un camice da laboratorio e una bandana arancione. “Sei Keith, vero? Che è successo? Pidge, com’è possibile? Non era un effetto previsto il ringiovanimento!”
    “Ma che ne so!” rispose alta la seconda voce, che apparteneva a una persona in tutto e per tutto identica a Matt Holt, il futuro compagno di spedizione di Shiro. “Niente di tutto questo era previsto. E non capisco perché, i miei calcoli erano perfetti!”
    “Vedi che ho fatto bene a non entrare,” disse un altro ragazzo, alto e smilzo, con due segni sulle guance, sotto gli occhi, azzurri e brillanti, il quale indossava una divisa simile a quella della Garrison, ma di un inusuale colore blu. “Di quanto credete che sia ringiovanito? Dieci anni? Sembra più piccolo di quando l’abbiamo conosciuto noi.”
    “Non sappiamo ancora se sia ringiovanito,” protestò non-Matt.
    “Keith? Ti ricordi chi siamo? Io sono Hunk. Siamo amici.”
    Ma Keith continuò a guardare i tre senza capire assolutamente di che stessero parlando. Forse stava ancora sognando e in realtà si trovava ancora al sicuro sul divano di Shiro. Si diede un pizzicotto sul braccio per capire se riusciva a svegliarsi.
    “Io so cos’è successo,” disse una quarta voce, e il cuore di Keith mancò un battito.
    Davanti a lui c’era Shiro – ma non il suo Shiro. Quello Shiro sembrava più vecchio di qualche anno, ancora più alto e grosso (per quanto fosse possibile), e aveva i capelli completamente bianchi, una cicatrice sul naso e soprattutto non aveva più il braccio destro, sostituito da un braccio di metallo che galleggiava al suo fianco. Ma era senza dubbio Shiro e Keith si sentì improvvisamente di nuovo al sicuro.
    “Questo è il Keith del passato, non è ringiovanito. Si è scambiato di posto con il nostro Keith.” E poi, guardando Keith direttamente, disse, “è la volta che sei rimasto a dormire nel mio appartamento, poco dopo che mi sono lasciato con Adam, è vero?”
    Keith si affrettò immediatamente ad annuire.
    “Come fai a saperlo?” domandò non-Matt.
    “Perché improvvisamente me lo sono ricordato,” spiegò Shiro. “Mi sono ricordato di quando è successo di incontrare un Keith che proveniva dal futuro. Non mi ricordo però cos’è successo dopo, per cui penso che il passato sia ancora in divenire?”
    “Oh, ma certo!” Non-Matt esclamò. “La linea temporale è fluida, proprio come nel film Ritorno al Futuro. Il che significa che le modifiche che apportiamo iniziano a fare effetto anche sulla nostra realtà, ma non tanto in fretta da non accorgercene. E da non potervi porre rimedio.”
    “Sì, ma più tergiversiamo, più rischiamo che la linea temporale subisca delle modifiche incontrollabili,” aggiunse Hunk. “Dobbiamo assolutamente ricambiare i due Keith prima che sia troppo tardi. C’è solo da sperare che Keith nel passato non dica più di quello che dovrebbe.”
    “Non lo farà,” disse Shiro, e si avvicinò ancora di più a Keith. “So che tutto dev’essere confuso per te. Rimetteremo a posto tutto e ti rimanderemo indietro. Ti fidi di me, vero?”
    “Ma certo,” annuì Keith. Era ancora un po’ rintronato da tutto quello che era successo, ma accettò la mano che Shiro gli offrì per alzarsi.
    “Va bene,” disse Non-Matt, “tutti fuori. La macchina ha subito un sovraccarico e adesso non sta ripartendo. Io e Hunk controlleremo cos’è successo e risolveremo il problema subito, così potremo rimandare indietro il Keith del passato appena possibile.”
    “Siete sicuro di riuscirci?” chiese il tipo con i segni sulla guancia. “La macchina non doveva essere del tempo, come riporterete Keith indietro?”
    “Evidentemente,” ammise non-Matt con dispiacere, “ho fatto un calcolo sbagliato e gli strappi nella realtà non hanno solo effetto nello spazio ma anche nel tempo. Keith deve essersi sentito attratto da quella che si apriva su un suo momento nel passato, basterà che questo Keith faccia lo stesso.”
    “Va bene,” disse Shiro, che aveva tenuto stretta la mano di Keith nella sua. “Vi lasciamo lavorare. Chiamateci appena avete finito.” Poi si rivolse ancora a Keith. “Vieni con me.”
    Keith lo seguì, sentendosi al sicuro al suo fianco, anche se aveva nella sua testa molte domande, cos’era successo nel frattempo, il perché del braccio meccanico, dove si trovavano, dato che quella non era decisamente la Garrison. Però, si rese conto che le risposte a quelle domande non gli importavano veramente, la cosa che lo rassicurava era che Shiro nel futuro era ancora vivo, ancora importante e apparentemente senza gli effetti della sua malattia, e lui e Shiro erano ancora amici.
    Shiro lo portò in un appartamento, grande ancora di più di quello che aveva alla Garrison, con l’angolo salotto e cottura e un’ampia camera matrimoniale, sicuramente usata da due persone.
    “Vivi qui con Adam?” chiese Keith, senza nemmeno accorgersene. Era stupido considerando che Shiro gli aveva già detto che si erano lasciati, ma insomma… per quanto Keith ne sapeva erano passati anni.
    “Adam è morto.”
    “Oh… mi dispiace.”
    “Grazie, ma comunque ci eravamo lasciati anni fa.”
    Allora Shiro stava con un altro, evidentemente. Chissà chi era. Keith si scoprì che non gli interessava saperlo, probabilmente avrebbe vissuto il momento in cui Shiro lo incontrava o glielo presentava, e anche se saperlo in anticipo poteva essere positivo, non voleva intristirci pensandoci.
    “Non ti posso svelare molto di quello che succederà nel futuro,” disse allora Shiro, “ma andrà tutto bene. Davvero. Quello che ti ho promesso ti succederà. Anzi, meglio di così. Ti ho sempre detto che avevi grande potenziale, e hai persino superato tutte le mie aspettative.”
    Classico di Shiro, pensare di spronarlo e di rassicurarlo su quelle che erano le potenzialità di Keith, quando il sogno segreto di Keith alla fine era solo quello di essere alla sua altezza, di camminare al suo fianco. Annuì, con un leggero sorriso.
    E poi si decise, cosa aveva da perdere? Quello era il Shiro del futuro, tutto quello che doveva succedere era già successo.
    “Il Keith del futuro ti ha mai parlato della cotta spaventosa che avevo per te a questa età?”
    Shiro sembrò sorpreso della domanda, poi arrossì improvvisamente e sorrise. “Sì. E mi ha rinfacciato per anni di non essermene mai accorto, ma che ci vogliamo fare, in queste cose sono sempre stato lento.” Poi aggiunse, “non ti preoccupare, anche per questo andrà tutto bene.”
    Probabilmente intendeva dire che Keith l’aveva superata, d’altronde erano probabilmente passati anni. Anche se per adesso Keith riteneva impossibile smettere di amare Shiro, chissà quante cose nel futuro gli erano successe.
    “Certo,” disse solo. “Posso chiederti un favore?”
    “Assolutamente sì.”
    “Possiamo dormire assieme?” chiese Keith. “Solo un pochino, mentre aspettiamo che tutto si risolva.”
    “Va bene.” Shiro gli dedicò un sorriso dolce.
    Si accomodarono in quel grande letto, e Keith cercò con grande sforzo di non pensare all’altra persona che ci dormiva assieme, con cui Shiro condivideva la vita. Affondò contro il suo petto: Shiro era sempre stato più grande di lui, e adesso era gigantesco. Keith si sentì protetto, chiuse gli occhi e si godé il momento, lasciandosi cullare dal respiro regolare di Shiro e dalle sue braccia che lo stringevano a sé.
    Sapeva di non poter desiderare niente di più in quel momento, e si convinse che quello gli sarebbe bastato. Gli doveva bastare, inutile illudersi. Poi guardò il viso di Shiro, così tranquillo, così rilassato, e d’istinto gli venne da sporgersi appena e poggiare le labbra sulle sue: erano morbide e umide, ed era strano, ma non spiacevole. Shiro mormorò qualcosa, appena, e poi ricambiò al bacio quasi senza accorgersene, schiudendo le labbra e poggiando una mano dietro la nuca di Keith, che lo lasciò fare, con vergogna.
    Poi Shiro aprì gli occhi e capì. Arrossì imbarazzato. “Scusami, ti ho scambiato per un altro.”
    “No, non scusarti, io…” Anche Keith arrossì. “Almeno una volta sono riuscito a baciarti, ecco.” Si vergognò di quelle parole immediatamente, e scostò lo sguardo.
    Allora Shiro lo abbracciò da dietro e gli sussurrò all’orecchio, “scusa se ti ho fatto aspettare così tanto.”
    Poi non-Matt chiamò attraverso il telefono, dicendogli che la macchina era pronta per far tornare Keith nel suo mondo, per cui si separarono, non senza un certo imbarazzo, e andarono di nuovo nel laboratorio, dove si erano di nuovo radunati tutti gli altri.
    “Molto bene, Keith,” disse non-Matt, “devi entrare nella macchina e poggiare le mani sui pomelli. Una volta che la macchina sarà in funzione, dovrai concentrarti sulle tue sensazioni. Probabilmente ti sentirai attratto da qualcosa… segui quella sensazione. E puff, tutto si risolverà.”
    Sinceramente a Keith sembrava tutto troppo facile, ma dato che non-Matt pareva convinto di quello che diceva, annuì. “Ci proverò.”
    Il braccio di Shiro era sulla sua spalla e emanava calore. “Ce la farai di sicuro. Ci rivediamo nel passato.”
    “Già.”
    Entrò ed eseguì tutto come gli aveva detto non-Matt, chiudendo gli occhi e concentrandosi. Avvertì una sensazione, e poi di nuovo quell’idea di chi gli tirava la pelle per strappargliela: cercò di orientarsi verso quella sensazione, finché non sentì che perdeva la presa sui pomelli a cui era aggrappato. Quindi anaspò, rischiò di cadere, ma due braccia lo avvolsero e lo presero in tempo.
    “Keith! Sei tornato!”
    Keith aprì gli occhi e si ritrovò di nuovo nel vecchio appartamento di Shiro alla Garrison. Ed era praticamente avvinghiato a Shiro, che lo teneva in equilibrio. Ancora imbarazzato per quel bacio, si scostò appena. “Sì…”
    “Ho incontrato il te stesso del futuro,” sorrise Shiro. “Avresti dovuto vederlo, com’eri cresciuto, e com’eri forte… L’ho sempre detto che avevi delle grandi potenzialità.” Poi sembrò imbarazzato. “Mi ha detto che andrà tutto bene, a Kerberos.”
    Keith pensò a Shiro, a come l’aveva visto nel futuro, con cicatrici e braccio meccanico. Ma sembrava stare bene, essere felice, quindi doveva probabilmente essere andato tutto bene a un certo punto.
    “Io ho visto te. Sì, andrà tutto bene.”
    E Shiro lo abbracciò di nuovo, senza preavviso. “Grazie per essere sempre stato al mio fianco,” gli sussurrò.
    “Lo sarò sempre,” rispose Keith. Era quello che desiderava davvero.
  3. .
    Erano tutti in piedi a fianco della macchina che Pidge e Hunk avevano costruito nei giorni scorsi, era un momento di calma ma anche di tensione. Secondo Pidge, questa macchina aveva la possibilità di mostrare a chi ci entrasse dove si trovassero le tasche spazio-temporali della propria realtà.
    Secondo uno studio da lei stessa compiuto, infatti, era assolutamente possibile che Allura vivesse in una di queste tasche, o che fosse in qualche modo connessa a tutti. Trovare una di queste tasche avrebbe potuto mettere i paladini in qualche modo in contatto con lei, capire dove si trovasse, portarla fuori da lì.
    Inutile dire che per tutti si trattava di una ricerca della massima importanza e Shiro aveva dato lei a disposizione tutti gli strumenti dell’Atlas e aveva lasciato che sfruttasse anche gli scienziati, umani e non, che gravitavano all’interno di quel settore. E adesso, dopo due mesi di intensa ricerca, la macchina era finalmente pronta per essere testata. E così aveva chiamato tutti, e tutti si erano radunati nel suo laboratorio per la prima prova.
    “In linea teorica la Trasndimensionale funziona in maniera molto facile,” disse Pidge. “Almeno se non volete che vi spieghi esattamente su che basi i circuiti entrano in connessione con le particelle dell’universo e connettendosi al suo interno-”
    “No, grazie,” la interruppe immediatamente Lance. “Ti prego, mettila in funzione e facciamola finita.”
    Pidge gli riservò un’occhiata annoiata. “Va bene, va bene… allora, è tutto molto semplice, in realtà. All’interno della Transdimensionale c’è spazio per una persona, come una cabina di cura. Leggermente più grande in realtà, per comodità. Una volta selezionata la striscia di universo che vogliamo controllare, si preme avvio e in teoria la persona all’interno della cabina sarà trasportata, se è presente una tasca dimensionale, al suo interno. Facile, no?”
    “Sì, sì, tutto bello… ma è quell’in teoria che mi preoccupa un po’.”
    “Oh, non ti deve preoccupare,” Pidge agitò la mano davanti al volto, noncurante. “È solo che non è stata mai testata, ma funzionerà.”
    “Hunk?” domandò Lance per sicurezza.
    “Be’, naturalmente c’è un piccolissimo margine di errore dovuto al fatto che quelli da noi effettuati sono i primi studi in assoluto per quanto riguarda questo settore,” rispose lui sinceramente. “Ma noi non siamo tentando di passare di dimensione come quando ci siamo spostati con Voltron, ma solo di vedere degli errori all’interno della nostra stessa dimensione, che potrebbero ma anche no collegarci con un’altra, per questo motivo anche qualsiasi rischio si possa correre è ridotto al minimo.”
    “Io continuo a non capirci nulla,” affermò Lance sconsolato.
    “Forse la cosa migliore è provarla,” suggerì Shiro. “Insomma, noi non siamo scienziati, ma vederlo con i nostri occhi forse ci renderebbe la cosa più chiara?”
    Pidge annuì. “Direi di sì. Lance, prego, entra all’interno.”
    “Io?”
    “Be’, non eri tu che volevi capire come funzionasse? Non vuoi provare a cercare Allura?”
    “Certo che lo voglio, ma…” Lance abbassò lo sguardo.
    Keith capì che la sua non era paura dell’ignoto, o di non uscirne da lì, o anche peggio di non vedere Allura. No, da parte sua c’era solo il desiderio di trovarla, e la paura di rimanere deluso se dall’altra parte della macchina non ci fosse stato che il vuoto.
    “Lo provo io,” si offrì allora Keith.
    “Sei sicuro?” domandò Shiro.
    Keith annuì. “Dopotutto, è stata la mia sensibilità alla quintessenza che ci ha portato da Blue la prima volta. È possibile che anche in questo caso per me venga più facile individuare una tasca dimensionale dove comunicare con Allura rispetto a voi.”
    “Questo in effetti è possibile,” convenne Pidge. “La macchina individua sì le tasche temporali, ma non sappiamo né se né in che condizioni Allura potrebbe trovarsi al loro interno.”
    “Senza considerare,” aggiunse Hunk, “che la nostra ricerca non ci ha ancora detto quante tasche ci sono all’interno di una porzione di universo, per cui non siamo in grado di ridurre la ricerca a uno spazio ristretto, mentre Keith potrebbe regolarsi da solo una volta che la macchina sia in funzione.”
    “È deciso, dunque,” annuì Keith, a cui non sfuggì l’occhiata di gratitudine che Lance gli lanciò, dopodiché fece due passi per entrare all’interno della macchina e Pidge chiuse e sigillò la porta dietro di lui.
    “Mi senti?” gli disse.
    “Forte e chiaro.”
    “Bene,” commentò Pidge. “Ora ascoltami attentamente. Io metterò in funzione questa macchina, tu devi appoggiare le mani sui due pomelli laterali, hai fatto?”
    “Sì.” Keith li sentì inizialmente freddi al contatto, poi iniziarono a scaldarsi sotto la sua presa.
    “Benissimo. Sto selezionando la porzione di universo in cui esaminare. Hai un piccolo schermo di fronte a te, che dovrebbe mostrarti per diagrammi se c’è una zona particolarmente interessante da esplorare, e potrai muoverti attraverso essa utilizzando i due pomelli. In realtà non ti sposterai davvero fisicamente, è la macchina che si metterà in contatto con quelle zone e, se è davvero possibile entrarci, dovrebbe darti la possibilità di metterti in comunicazione con essa. Poi naturalmente una vera esplorazione dovrà essere fatta di persona, ma almeno sapremo dove cercare.”
    “Credo di aver capito.”
    “Comunque noi saremo in comunicazione con te tutto il tempo, non ti devi preoccupare,” aggiunse Hunk.
    “Grazie.”
    “Okay, ho selezionato la striscia di universo. Partiamo.”
    Keith vide lo schermo di fronte a se accendersi, mostrando l’universo in maniera colorata, sicuramente attraverso qualche particolare filtro che permetteva l’individuazione delle tasche. Invece di utilizzare la vista, Keith chiuse gli occhi e si lasciò guidare dalle sensazioni che provava, proprio come era successo con Red e Blue. E allora lo sentì, qualcosa che lo tirava a sé, molto vicino a se stesso.
    Mosse appena le mani sui pomelli per dirigersi in quella direzione e poi avvertì chiaramente qualcosa che lo tirava all’insù, e la macchina che tremava tutto attorno a sé.
    “C’è qualcuno?” disse, ma non ebbe risposta, nemmeno da Hunk o Pidge. La sensazione che qualcuno lo tirasse divenne più forte, Keith prese quasi la mano sul pomello, come se si sentisse spostato in alto, e poi tutto finì improvvisamente, anche il tremore.
    Keith aprì gli occhi e capì che qualcosa era andato orribilmente storto.
    Non era più nella macchina, ma all’interno di una stanza che ricordava in modo impressionante il vecchio appartamento che Shiro aveva quando stava alla Garrison, prima di Kerberos, un appartamento che Keith aveva frequentato spesso in passato e che Shiro aveva diviso con Adam a lungo.
    C’erano gli stessi toni di colore, gli stessi libri sulla libreria, la stessa disposizione dei piatti nella credenza, tutto come Keith se l’era impresso in mente dopo Kerberos.
    Lui si era ritrovato seduto sul divano, una coperta che gli era praticamente scivolata ai piedi nel mentre che si era mosse appena per alzarsi, e non riusciva a capire che cosa potesse essere successo. Aveva trovato la tasca dimensionale? Probabile. E questa l’aveva portato da tutt’altra parte.
    “Keith?” chiamò una voce dietro di lui.
    Keith si voltò e vide Shiro sulla soglia. Ma non era il Shiro del suo tempo, quello che comandava l’Atlas e in pratica l’intera Garrison, quello che aveva la cicatrice sul naso e il braccio alteano, e che era sopravvissuto ai campi di prigionia galra. No, questo era il Shiro dei tempi della Garrison, quello ancora giovane e pieno di ambizione e speranza nonostante la malattia ancora galoppante, con la faccia pulita ma l’animo da bad boy e i capelli completamente neri.
    In quel momento, indossava la divisa da ufficiale della Garrison e aveva un’espressione stupita sul volto.
    “Tu non sei il mio Keith,” disse, e sembrava si sentisse stupido nel pronunciare quelle parole.
    “No, non lo sono,” ammise Keith.
    E improvvisamente, due cose accaddero: la prima fu che Keith si ricordò di che momento era, subito dopo che Shiro si era lasciato con Adam, prima ancora che Keith scoprisse della sua malattia. Era passato a trovarlo, senza alcuna ragione ma per sapere come stava, con la scusa di farsi spiegare un compito. E poi era rimasto a dormire.
    La seconda cosa era che si ricordava del viaggio nel tempo. Non era una cosa chiara, si ricordava solo l’idea di uscire da quella macchina, di vedere i volti dei paladini anziani, che lui all’epoca non conosceva, e di e ritrovarsi catapultato in un mondo completamente nuovo.
    Se Hunk e Pidge fossero stati lì, forse avrebbero potuto spiegargli il meccanismo per cui stava funzionando quel sistema, ma evidentemente le due realtà si andavano componendo ma mano che gli avvenimenti succedevano all’uno o all’altro. Il Keith del passato stava vivendo degli avvenimenti del futuro che gli sarebbero poi trasformati in ricordi che adesso il Keith del futuro possedeva.
    Era una roba strana, ma aveva una specie di logica, dopo tutto.
    Notò che Shiro continuava a osservarlo con una strana espressione sul volto e, quando capì che Keith l’aveva notato, arrossì appena e volse lo sguardo.
    “Uhm… posso chiederti allora chi sei e dov’è il mio Keith?”
    “Sto per dirti una cosa veramente strana,” disse Keith, “ma ti prego di credermi perché è la verità. Io vengo dal futuro, e in questo momento il tuo Keith è finito in qualche modo nel mio tempo.”
    “Strano è strano,” ammise Shiro. “Ma tu sembri davvero un Keith invecchiato. Quanti anni avresti adesso? Venticinque?”
    “Esatto.”
    Shiro sorrise, e c’era un che di malinconico in quello sguardo. “Spero di essere ancora qui per incontrarti nel tempo giusto.”
    “Oh, lo sarai,” confermò Keith. Aveva preso quella faccenda insolitamente bene. Ma d’altronde Shiro era sempre stato un nerd, aveva la passione per le sci-fy e Keith era sicuro che in un certo senso avrebbe sempre desiderato di finirci dentro in qualche modo, anche se naturalmente preferiva le storie legate allo spazio. Col senno di poi, forse Shiro avrebbe dovuto pensarci meglio a quello che desiderava.
    Ci fu un altro sorriso, questa volta più allegro, da parte di Shiro. “Come… uhm… come possiamo riportare le cose al posto giusto?”
    “Penso che i colleghi nel futuro ci siano già lavorando,” disse Keith. “D’altronde sono stati loro a coinvolgermi nel loro esperimento, anche se non era questo l’effetto che volevano ottenere.”
    “E cosa dovevano ottenere?”
    “Contatti con persone di altre dimensioni?” rispose Keith, incerto. Di certo non poteva raccontargli niente di Allura e di tutto quello che era successo con gli alteani.
    “Oh,” esclamò lui. “Ancora non abbiamo il contatto con altre forme di vita e già stiamo venendo a conoscenza di altre dimensioni?” Poi fissò Keith in volto e capì, “abbiamo incontrato degli alieni nel tuo tempo?”
    “Sì, l’abbiamo fatto,” confermò Keith. Ma non aggiunse nulla sul fatto che lui stesso fosse un alieno. “Ma non posso davvero dirti più di così. Non so che danni potrei fare alla linea temporale se ti dicessi più di questo.”
    “Certo, certo, capisco.” Poi abbassò lo sguardo. “Quindi immagino tu non mi possa nemmeno dire come andrà Kerberos.”
    Quello era un colpo basso per Keith. Bassissimo. Una parte di Keith voleva prendere Shiro e impedirgli di andare, evitargli un anno di torture e prigionie, e tutto quello che sarebbe conseguito a quello, incluso la storia del clone. Ma allo stesso tempo Keith non poteva farlo, perché era stato anche quello che Shiro aveva attraversato che aveva permesso loro di radunarsi come Paladini e, alla fine, di salvare l’universo.
    E aveva salvato anche Shiro, liberandolo definitivamente dalla sua malattia. Se Keith l’avesse protetto dal post Kerberos, forse l’avrebbe condannato a una vita ben peggiore. Questo non faceva sentire Keith per niente meglio, ma alle volte aveva imparato che si deve fare la cosa giusta per quanta sofferenza possa causare.
    “Sei preoccupato?” chiese invece.
    “No, io…” fece un lungo sospiro. “Non lo sono, ma certe volte mi vengono in mente le frasi di Adam o quelle di Sanda che dice che sono solo un malato che non si può rischiare di mandare nello spazio e allora temo che per me non ci sia più niente da fare, che io finisca davvero per mettere in pericolo il mio equipaggio… sai, morire nello spazio mi andrebbe anche bene.”
    Bugiardo, pensò Keith, ma non lo disse.
    “Ma non voglio mettere in pericolo la vita di nessuno. D’altra parte, non voglio nemmeno diventare come quelli che non possono fare più niente nella vita perché non ne hanno la forza-” si bloccò immediatamente, come se si fosse reso conto di una cosa solo in quel momento. “Tu sai… di me intendo.”
    “Della tua malattia? Sì.”
    “Te l’ho detto io?”
    “Sai che non posso dirti di più.”
    “Già, be’.” Shiro fece una smorfia. “Probabilmente niente di quello che ti sto dicendo è una novità per te.”
    “In realtà, un po’ sì,” ammise Keith. “Il fatto è che lo Shiro che mi ricordo da ragazzino era uno che non voleva mai mostrare le sue debolezze a nessuno. Non raccontava della sua malattia, non raccontava dei suoi timori, nemmeno se stava male. Poi era pessimista e faceva battute sulla sua presunta morte futura, e combatteva per non morire, ma non lasciava nessuno passare oltre i suoi muri. Io pensavo che fosse invincibile.”
    “E invece?” Shiro deglutì visibilmente.
    “Non c’è nessun invece, è davvero invincibile, ma a volte ha bisogno di qualcuno al suo fianco, di lasciarsi andare per non crollare sotto il peso di tutto quello che vuole portare da solo. E gli voglio bene allo stesso modo, credimi.” Poi fece due passi in avanti, eliminando la distanza che li separava e lo abbracciò.
    Shiro all’epoca era già alto e grosso, ma non quanto sarebbe diventato dopo Kerberos, per cui affondò in quell’abbraccio totalmente, e Keith notò che, sebbene con qualche esitazione, ricambiava, aggrappandosi con le mani all’uniforme da Blade di Keith.
    “Tu sei forte, Shiro,” gli disse. “Sei più forte di qualsiasi persona io abbia conosciuto. E mi hai salvato la vita, quindi non devi preoccuparti di nulla. Fai tutto quello che devi fare nella tua vita, senza preoccuparti di me o di quello che rischi. Io sarò sempre dietro di te a prenderti se dovessi cadere.”
    “Allora Kerberos andrà male?”
    “Kerberos andrà come deve andare,” disse Keith, “in modo che tu possa diventare quello che meriti di essere. Tieni bene a mente le mie parole, e non lasciarti andare mai.”
    Poi Keith sentì tirare di nuovo, la stessa sensazione che aveva provato quando era finito in quel mondo la prima volta, e capì che Pidge lo stava riportando indietro. Si sciolse dall’abbraccio e gli sorrise.
    “Adesso devo andare,” gli disse, “e il tuo Keith tornerà indietro. Ricordati quello che ti ho detto.”
    “Grazie, Keith, di tutto.”
    “Stammi bene.”
    Fu un attimo, e poi si ritrovò di nuovo nella cabina della macchina, con la voce di Hunk che lo chiamava un po’ incerto. “Keith? Sei tu?”
    “Sì, sono io. Sono tornato. Ma che avete combinato?”
    “Devo aver calcolato male le potenzialità della macchina, e forse anche il fatto che tu saresti stato attirato in maniera maggiore da te stesso che non da Allura,” disse Pidge. “Tutta colpa di Lance che non ha voluto salire, comunque.”
    “Ehi!” protestò Lance.
    Keith uscì dalla macchina scuotendo leggermente la testa. “Spero abbiate trattato bene il me del passato.”
    “Oh, Shiro l’ha trattato molto bene,” commentò Pidge divertita, e Shiro tossì leggermente.
    “Dovresti ricordartelo,” disse. “Io adesso mi ricordo del nostro incontro. Avevi ragione su tutto.”
    “È stato facile, quando sai già quello che è successo,” si schernì Keith, e poi arrossì capendo quello che era successo con il se stesso del passato.
    Dannazione, pensò. Lui non era riuscito ad approfittarsene.
  4. .
    Capitolo 1

    Non era previsto che intervenissero in alcun modo. Erano nell'isola solo di passaggio, e il loro scopo era incontrare Lindbergh per comunicargli gli ultimi sviluppi onde evitare di farlo tramite un lumacofono che poteva essere intercettato. Ma ovviamente Sabo non era il tipo che se ne stava con le mani in mano, e non appena riconobbe al banco della locanda il Contrammiraglio Trek, decise di andare a dare un'occhiata, ignorando completamente i consigli che Hack e Koala volevano dargli.
    "Non faccio niente," cercò di tranquillizzarli lui, "cerco solo di vedere se passa informazioni a qualcuno."
    Sebbene capisse le loro perplessità, era un'occasione troppo ghiotta per farsela scappare. Trek era ben noto all'interno della malavita per la sua corruzione e per il suo coinvolgimento con alcuni nobili dell'East Blue a cui passava informazioni sui rivali, alimentando guerre fra di loro che gli consentivano di arricchirsi. Il peggio era che spesso e volentieri sfruttava il nome dei rivoluzionari per alimentare le guerre o far credere che fossero loro a fornire le armi, contribuendo alla loro cattiva fama.
    Insomma, era uno a cui Sabo avrebbe dato volentieri un pugno o due, ma al momento non poteva. Si limitò a sedersi a un tavolino, da cui poteva sorvegliare Trek agilmente, e poi a seguirlo fuori non appena lasciò il locale, poiché all'interno non aveva incontrato nessuno. Purtroppo Sabo e le missioni di spionaggio non andavano molto d'accordo, quindi Trek si accorse subito della sua presenza e si incamminò verso un vicolo cieco.
    "Mi piace essere ricercato, ma forse così è un po' troppo," sorrise Trek, nel mentre in cui spariva dal lato della strada chiusa e riappariva dietro le spalle di Sabo, bloccandogli l'uscita.
    Sabo ghignò e strinse il pugno. Preferiva decisamente un tipo di combattimento di questo tipo, rispetto allo spionaggio. Lingue di fuoco iniziarono ad emergere dalle sue nocche.
    "Niente meno che il capo di stato maggiore," disse Trek. "Mi piacerebbe molto stare a discutere ancora un po' con te ma non penso sia fattibile. Hai un appuntamento dall'altro capo dell'universo adesso."
    E disegnò con le dita il segno di una porta. Non accadde nulla, nonostante Sabo fosse pronto a proteggersi dall'attacco, quindi fece un tentativo di un passo in avanti.
    E immediatamente l'ambientazione attorno a lui cambiò: non c'era più il sole e il caldo, e l'odore della sabbia bagnata sotto i piedi, ma buio e freddo, e una stanza di metallo chiusa da ogni lato. Per un attimo pensò che Trek avesse qualche potere di farlo spostare nello spazio e l'avesse rinchiuso in una prigione, ma capí subito che quei muri non erano fatti di agalmatolite, non ne sentiva l'influsso negativo. Forse erano un'illusione, o forse Trek poteva manipolare il metallo e farlo apparire dal nulla, ma una barriera del genere Sabo poteva distruggerla il poco tempo.
    "Quella non è Nina," sentí una voce sconosciuta, e si voltò.
    Su una delle pareti si era appena aperta una tapparella, che mostrava un vetro e, al di là, due uomini, che più o meno avevano la stessa costituzione, alti, biondi e muscolosi, ma uno era molto giovane, mentre l'altro era anziano e solcato da rughe e cicatrici. Entrambi avevano la stessa espressione stupita in volto.
    "Ehi," li salutò Sabo, alzando leggermente la mano.
    "Che è successo? Dov'è finita Nina?" Il più giovane parlò di nuovo.
    "Deve aver usato i suoi poteri per mascherarsi, pensando di ingannarci. Ma non mi farò fregare."
    "No, aspetta e i vestiti? Nina non è così brava, dobbiamo capire..."
    "Non mi lascerò fregare da una strega in questo modo."
    Sabo rimase in silenzio, cercando di capire che cosa stesse succedendo. Da come i due uomini stavano parlando, pareva che si aspettassero di vedere nella stanza una certa Nina, e francamente pure Sabo si aspettava di essere in tutt'altro posto, quindi tutti erano confusi. Bene.
    Nel fumo verdognolo iniziò ad uscire da due condotti sul soffitto. Sabo si preoccupò un attimo, temendo fosse gas velenoso, ma quando gli arrivò alle narici lo percepì semplicemente come tabacco alle erbe, una di quelle strane sigarette che Belo Belly si faceva di tanto in tanto, ignorando che avesse die bambini attorno. Fastidioso, ma nulla a cui Sabo non fosse abituato, e svanì in fretta come era arrivato.
    Ma non gli piaceva l'idea di essere chiuso in una stanza con gente che gli spruzzava roba addosso, per cui fece due passi e si avvicinò al vetro:
    ; gli appoggiò una mano sopra, lo sentiva resistente, sicuramente antiproiettile. Ma bastò una piccola iniezione di haki per creparlo. I due uomini, scioccati, si allontanarono mentre Sabo terminava il lavoro con un buon calcio e saltava finalmente al di fuori della stanza chiusa.
    "Strega! Non avresti dovuto essere in grado di fare una cosa del genere!" E tirò fuori la pistola, troppo lentamente. Sabo gli fu addosso, la spezzò con una presa intrisa d'Haki e lo mandò contro il muro con un calcio. Poi si voltò verso il ragazzo.
    "Chi sei tu?"
    "Sabo, molto piacere," disse lui, con un leggero cenno del cappello. "E tu?"
    "Matthias. Dov'è Nina?"
    "Se lo sapessi te lo direi. Ma francamente non ho nemmeno idea di chi sia." Si voltò a guardare la stanza da cui era scappato. "Ma se lei era lì dentro, e al suo posto sono arrivato io, sospetto che Trek abbia usato i suoi poteri per scambiarci in qualche modo." Tornò a voltarsi verso Matthias. "Dove siamo qui?"
    "Un laboratorio segreto dentro il palazzo dei reali di Fjerda."
    Strano, Sabo pensava di conoscere a memoria tutti i nomi dei regni del governo mondiale, ma quello non l'aveva mai sentito. "In che mare si trova? East Blue? West Blue?"
    Matthias sembrò perplesso. "Sulla terraferma?"
    "Vuoi dire sulla Linea Rossa?"
    Non ebbero grande tempo di rispondere, perché altri soldati vestiti come l'uomo che Sabo aveva atterrato entrarono nella stanza, i loro fucili spianati, intimando a entrambi di arrendersi, anche se parevano tutti un po' stupiti dalla presenza di Sabo nella stanza.
    "Ci penso io," disse a Matthias, che sembrava un po' preoccupato.
    Si avvicinò senza timore al gruppo, che stava in fila con i fucili spianati. Erano tutti pronti, finché uno di loro decise che Sabo si era avvicinato un po' troppo e tentò di sparargli a una gamba: il proiettile lo trapassò interamente e quasi colpí Matthias che era dietro di lui. "È sotto jurda parem, sparate," disse uno del gruppo, ma per quanto quei proiettili non potessero fargli nulla, non è che Sabo amasse così tanto che gli sparassero addosso. Saltò e atterrò addosso a uno dei soldati, contemporaneamente lasciò esplodere in giro piccole fiammelle che, se non bastavano a mettere fuori gioco il soldato, almeno lo distraevano permettendo a Sabo di colpirlo.
    "Fermo, è Kaz!" Gridò Matthias quando di soldati ne era rimasto uno solo, che tra l'altro ora zoppicava visibilmente e tentava di allontanarsi dal gruppo senza combattere.
    "Amico tu?" Chiese Sabo a Matthias.
    "Diciamo cosí."
    Il soldato si alzò e si tolse in parte il travestimento: non era per nulla biondo. "E questo dove l'hai trovato? È sotto jurda parem?" Domandò, rivolto a Matthias.
    "Forse? Credo?"
    "Cos'è la jurda parem?" Si interessò Sabo.
    "Una droga che aumenta i poteri naturali dei Grisha."
    "A posto, allora, non sono io."
    "Hai appena emesso fiamme dalle mani! Non sei un Inferno?" Borbottò Kaz.
    "Non so nemmeno cosa intendi... io ho solo mangiato un frutto del diavolo."
    "E che cos'è un frutto del diavolo?"
    Ora, Sabo non si riteneva il più intelligente di tutti, ma persino lui riusciva a capire che c'era davvero qualcosa che non andava, perché era come se parlassero di mondi completamente diversi. Dove fosse finito bene non lo sapeva, ma gli tornarono alla mente le parole pronunciate da Trek prima di ritrovarsi in quel posto... qualunque cosa fosse, non era risolvibile in maniera così rapida.
    "Non abbiamo tempo per questo," disse Kaz, di fronte al suo silenzio. "Dobbiamo andare a salvare Bo Yul-Bayur prima che ci scoprano. Ancora di più di quanto abbiano già fatto, intendo."
    "E Nina?" Disse subito Matthias.
    "Dev'essere nel posto dov'ero io prima," disse Sabo. "Ci hanno scambiato di posto, non so per quale ragione. Ma non so assolutamente dove. Non qui, comunque." Dove qui chissà esattamente cosa voleva dire ormai. "Probabilmente ci sarà il modo di scambiarci di nuovo, ma non so come. E non credo si possa fare da qui perché l'uomo che l'ha fatto sta dall'altra parte."
    "Va bene, vieni con noi allora," affermò Kaz.
    "Sicuro che sia una buona idea?" Chiese Matthias, a cui chiaramente l'idea che Nina fosse in un fantomatico qui sconosciuto non piaceva granché.
    "Mi stai chiedendo se voglio con noi uno che non viene ferito dai proiettili e emette fuoco dalle mani? Io dico di sí."

    Nel mentre che esaminavano il laboratorio alla ricerca di Bo Yul-Bayur, Sabo imparò le seguenti cose:
    - Kaz e Matthias facevano parte di un gruppo di sei persone che aveva penetrato la sorvegliatissima fortezza dei Fjerda (di cui Sabo non aveva mai sentito parlare) per salvare dalla prigionia uni scienziato che aveva erroneamente inventato una droga che aumentava si il potere dei grisha, ma li trasformava anche in dei tossicodipendenti che potevano essere sfruttati a piacimento dei padroni
    - Nina era parte del gruppo ed era una grisha
    - I grisha erano persone con poteri magici, in quel mondo, e a quanto pare venivano per quello discriminati e sfruttati
    Tutto ciò era quanto di più vicino che Sabo avesse mai sperimentato in tutta la sua vita, prima come nobile poi come rivoluzionario, quindi si schierò abbastanza dal lato di Matthias e dei suoi, che liberando lo scienziato avrebbero potuto evitare uno sfruttamento della sua scoperta, e conseguentemente dei grisha.
    Però si trovava anche in un mondo sconosciuto, di cui non conosceva benissimo tutte le regole, per cui lasciò andare avanti Kaz a prendere le iniziative e le decisioni, stando pronto ad intervenire per proteggerli se si fossero trovati in situazioni pericolose. Trovarono lo scienziato, che in realtà si rivelò essere il figlio dello scienziato (che era morto nel frattempo), ma apparentemente andava bene comunque perché lui conosceva la formula per la droga e suo malgrado la stava producendo per i Fjerdan.
    "Dannazione," mormorò Matthias sottovoce.
    "Cosa c'è?" Gli domandò Sabo; entrambi erano bel lontani da Kaz, che stava tentando di elaborare una via di fuga sicura per tutti loro, e forse fu anche quello, oltre al tono di Sabo, a far confessare Matthias.
    "Io e Nina eravamo rimasti d'accordo che avremo ucciso Bo Yul-Bayul quando l'avremo trovato."
    "Ma non dovevate salvarlo?"
    "Quello è il piano di Kaz, che per altro lo vuole fare per consegnarlo ai mercanti di Ketterdam in cambio di denaro. Ma Nina pensava, e io sono d'accordo, che la formula dello jurda parem sia troppo pericolosa. La gente combatterà per quella formula, e poi combatterà per averla ottenuta, e molti uomini e soprattutto molti grisha moriranno."
    "Io questa Nina non la conosco," disse Sabo. "Ma pensi che sarebbe d'accordo a uccidere un ragazzo? A uccidere Bo adesso, avendolo davanti?"
    "No," rispose Matthias, senza nemmeno un attimo di indecisione.
    "Bene. Allora intanto salviamolo, al resto ci pensiamo dopo."
    Sapeva già che difficilmente avrebbe permesso a Kaz di consegnare Bo a chicchessia. Se ci fosse stato un esercito rivoluzionario in quel mondo, Sabo avrebbe saputo come agire.

    Si pentì della scelta di far prendere le decisioni a Kaz nel momento in cui, nel tentativo di scappare quasi inosservati, finirono per precipitare in un fiume che circondava il palazzo nei suoi sotterranei, che non solo era gelido (poco male) ma era un fiume con una corrente fortissima, capirete bene che per un possessore di un frutto del diavolo non era l'ideale. Per fortuna Matthias riuscì a tirarlo fuori di peso prima che affogasse definitivamente.
    "Com'ė che sai combattere così bene ma non sai nuotare?"
    "Purtroppo non dipende da me," rispose Sabo, tossicchiando acqua e tentando di riprendere una respirazione regolare. "Tutti quelli che mangiano un frutto del diavolo perdono la capacità di nuotare, non riescono proprio a stare a galla."
    "Ah capisco," disse Matthias. "Suppongo che ci sia un perché... se diventate così forti, dovete avere una debolezza altrettanto forte. Una specie di scambio equivalente."
    Sabo rifletté un attimo su quella scelta di parole. In effetti, perché anche Nina era stata scambiata di posto? Aveva senso che Trek avesse usato il suo potere in modo da scampare a un'eventuale lotta contro Sabo, ma Nina non c'entrava. Inizialmente Sabo pensava che fosse solo una casualità, che fosse nel posto sbagliato mentre Sabo veniva spostato... ma se invece non fosse stato così? Se il potere di Trek, per funzionare, avesse bisogno di fare una sorta di scambio equivalente con un'altra persona?
    "Quanto forte è Nina?"
    "Be' è una corporarlki, che a livello di gerarchia grisha è sul livello più alto, e per di più era nell'esercito di Ravka... sa il fatto suo."
    "Bene, non credo avrà problemi allora," e la cosa sembrò rilassare appena Matthias (difficile da dire con la faccia sempre seria che aveva).
    "Se avete finito di chiacchierare," disse Kaz, che sembrava aver anche lui subito la caduta in acqua quanto loro, anche se non lo faceva notare (Bo, come Sabo, stava dando una mano a riscaldare tutti coi poteri del fuoco). "Dobbiamo andare. Trovare gli altri e scappare."
    Risalirono la china del fiume e trovarono un modo per uscire dai sotterranei, seguendo le indicazioni di Matthias, che a quanto pare era originario di lì e per quanto non fosse mai stato nei sotterranei aveva un'idea più chiara delle distanze e delle direzioni rispetto a loro. E come aveva infatti previsto spuntarono in una piazza al di fuori da una seconda cinta muraria che era l'accesso al palazzo principale. Lí c'era l'armeria e al momento la zona era tenuta in scacco da un particolare carro armato che stava seminando il terrore.
    "Non esattamente la maniera di passare inosservati," disse Kaz, e voleva sembrare annoiato ma in realtà aveva un leggero sorriso divertito sul volto, probabilmente involontario perché fra lui e Matthias facevano a gara a chi era più imbronciato.
    "Quelli sono amici vostri?" Chiese Sabo, che invece aveva un ghigno ampio sul viso. "Hanno stile, mi piace." E pensò fra sé che probabilmente Hack e Koala non avrebbero approvato.

    Non ci fu grande tempo per le presentazioni. Saltarono tutti sul carro armato appena possible, appena riuscirono a mettersi in una zona da dove si potesse salire a bordo senza essere colpiti dall'esercito che stava arrivando. Quindi Sabo non poteva ancora dire chi fossero il rosso, il ragazzone e la ragazza, ma si stavano facendo in quattro per farsi strada tra l'esercito e sfondare la porta. Da parte sua, essendo praticamente intoccabile, Sabo rimase all'esterno del carro armato, agganciato solo con un braccio pieno d'haki, nel caso ci fosse bisogno di lui.
    "Qual è il piano?" Gridò poi, indirizzandosi non proprio a qualcuno.
    "Dobbiamo raggiungere il porto," rispose Kaz. "Una volta a bordo non potranno raggiungerci in tempo."
    "Suppongo che quell'enorme esercito tra noi e il porto non sia una buona notizia, vero?" Disse, parlando una delle poche volte, Bo. La sua frase fu seguita da un coro di imprecazioni e maledizioni.
    Sabo guardò di fronte a sé: era notte, anche se la luna e le stelle bastavano a illuminare la distesa bianca su cui stavano viaggiando e, più in là' c'erano le luci del porto, le vele delle navi che si muovevano al vento e alla risacca, il sapore del sale e, ancora più in là, la distesa nera e mossa dell'oceano. Quella vista lo rinfrancò. Ma fra loro e il mare c'era un intero esercito, una distesa di persone con i fucili spianati e i poteri pronti.
    "Ferma questo coso."
    "Ci arrendiamo?" Domandò il ragazzone, ma rivolto a Kaz.
    Gli occhi di Kaz si ridussero a due fessure. "Che cosa vuoi fare?"
    "Aprirci la strada verso la nave, ovviamente."
    "Sono troppi uomini," disse Matthias. "E tra loro riconosco sicuramente dei Grisha, Inferno, ma non solo. Fabrikator, anche, e probabilmente anche qualche Korporalki. E sono sotto l'influenza dello jurda parem, senza dubbio."
    La notizia scosse tutti, tranne Sabo, che ci accigliò. "Prima di tutto, abbiamo poca scelta, quindi o vi fidate di me o tirate fuori un'altra soluzione per abbattere quell'esercito." Nessuno parlò, anche se tutti fissarono Kaz, quasi sperando che tirasse fuori una soluzione del suo taschino. "Secondo, io dei poteri della vostra gente non ne so niente, quindi fatemi il favore di spiegarmi che cosa sanno fare così posso provare a difendermi."
    Cosí Sabo venne a conoscenza di tuti i tipi di Grisha: i primi due non erano preoccupanti (lui stesso aveva il potere del fuoco, ma meglio di tutti era fatto di fuoco, cosa che non si poteva dire dei Grisha, che il loro elemento lo manipolavano soltanto), mentre il terzo sí, avrebbe potuto essere un problema anche per lui stesso.
    "Devono vedermi, per fare le loro magie?" Chiese Sabo.
    "Sí, ma non so dirti se con la jurda parem valga lo stesso discorso."
    "Correrò il rischio," affermò Sabo. "Ferma il carrarmato."
    Si lasciò scivolare nella neve, i suoi stivali che affondavano nella sostanza bianca. Fece qualche passo in avanti, per togliersi dalla traiettoria del carro armato che si stava lasciando alle spalle. L'esercito era ancora abbastanza lontano, ma poteva sentire lo sguardo dei grisha su di sé, il modo in cui lo seguivano e lo percepivano. Ma lui stesso poteva farlo, poteva usare l'Haki della percezione per capire chi si stava muovendo, chi stava effettivamente usando il suo potere su di lui. Camminò ancora in avanti, sempre più lontano dal carro armato e poi dagli occhi dell'intero gruppo.
    E poi lo sentì, il potere dei Kolporalki su di lui, era come un breve tiro, all'inizio, che gli stava stringendo il cuore. Si fermò, studiò per un attimo i dintorni, prima che il tiro diventasse troppo forte. Quindi si tramutò interamente in fuoco. Una colonna di fiamme fendette la notte, alzandosi fino al cielo, e già quello bastò per gettare nel panico l'esercito. Ma Sabo non si fermò, si mise a correre, lasciando dietro di sé la neve sciolta e il terreno già bruciato sottostante. L'Haki gli riempi la mano, il pugno, che poi lui buttò a terra con forza e fiamme assieme. Il terreno di fronte a lui su spezzò in due, l'esercito tremò e si disgregò sotto la sua forza. Ma a lui il movimento non fece alcun male: ancora completamente tramutato in fuoco continuò a correre, fino a trovarsi nel mezzo di quello che non era più un esercito ordinato, ma una massa informe di gente che correva, gridava, cercava di colpire alla cieca quelle fiamme che continuavano a guizzare attorno a loro. Gli Inferno tentavano di usare quelle fiamme a loro vantaggio, ma quelle fiamme erano vive, erano parte di Sabo, a lui tornavano se erano gettate contro di lui e lui continuava a comandarle anche quando tentavano di strappargliele.
    Sconfisse prima i Korporalki, riconoscibili dalla loro aura, luminosa ma estremamente calma e composta, e dal modo in cui si guardavano attorno, ma non con gli occhi: ma la figura di Sabo, nascosta tra le fiamme, continuava a sfuggire loro. Il resto dell'esercito fu una passeggiata, molti fuggirono da soli, altri finirono preda delle fiamme e del crepacci, Sabo sconfisse gli ultimi che rimanevano in piedi, generalmente grisha distrutti dalla droga che li potenziava. Quando riprese la sua forma originaria, era fermo in un crepaccio, la neve completamente sciolta attorno a lui a creare un macabro cerchio, con i corpi svenuti o feriti che si dipanavano da quel centro. Era un aspetto desolante della vittoria.
    Il carro armato passò al suo fianco.
    "Vieni," gli disse Kaz. Nessuno esultò.

    Solo quando furono al sicuro sulla nave, ben lontani dalla coste di Fjerda, Wylan - il rosso - tirò fuori una mappa. "Ecco, disse, questo è il nostro mondo." E gli fece notare dov'era Fjerda, che avevano appena lasciato, e dov'era Ketterdam, dove si stavano recando.
    Sabo la osservò, aveva studiato cartografia da piccolo, al punto che Ace voleva che diventasse un navigatore. Con la punta del suo dito guantato, percorse i contorni della terraferma, una terraferma più grande di quella a cui era abituato lui, e un mare che sembrava solo accessorio.
    "Sí," disse alla fine. "Non c'entra niente con il posto da cui vengo io."
    Si fece dare un foglio: non era più preciso nel disegno come una volta, e non aveva il tempo di disegnare mappe così precise, ma abbastanza pre mostrare l'enorme differenza con il suo mondo, i quattro mari e la Red Line che le divideva, e la Rotta Maggiore in mezzo, e le sole isole che costituivano tutto quello su cui Sabo viveva.
    Wylan si mostrò incredibilmente interessato alla questione, mentre Jesper - il ragazzone - fece un fischio ammirato. Ma allora da dove vieni esattamente?" Domandò. "Sei un alieno? Un viaggiatore del tempo? Un altro universo?"
    "Non ne ho idea," ammise Sabo. "Dovrei chiederlo alla persona che mi ha mandato qui, ma sfortunatamente viene da dove vengo io, quindi è off limits al momento."
    "C'è una cosa più importante," disse Matthias. "Come ti rimandiamo a casa e riportiamo qui Nina?"
    "Non c'è niente da fare ma aspettare," disse Sabo.
    "Aspettare cosa?"
    "Come ho detto, la persona che può rimediare a questa cosa sta nel mio universo, o pianeta, o quello che è. Non credo ci sia una persona simile anche qui. Ma al posto mio adesso c'è Nina, e poi là ci sono i miei compagni. Basterà aspettare che piglino quello che mi ha fatto questo e lo convincano a rimandarmi indietro. A quel punto, Nina tornerà qui."
    Matthias non sembrava convinto, ma c'era da dire che nulla era semplice in quella situazione, e a nessuno veniva in mente un potere tale (la jurda parem era esclusa, per ovvie ragioni) da riportare Sabo nel suo universo. E anche se ci fosse stato, non avrebbero saputo come riportare Nina indietro.
    Non c'era niente da fare se non aspettare. La persona più seccata di questa situazione era proprio Sabo stesso.

    Sabo passava il tempo seduto sul parapetto della nave, guardando il mare. Il viaggio sembrava proseguire senza troppi scossoni, ma ovvio che poteva capitare guai all'improvviso (anche se sembrava che non ci fossero mostri in quelle acque, non come nella Rotta Maggiore almeno) e che magari i Fjerdan li stavano ancora inseguendo, quindi Sabo aveva l'abitudine di stare all'erta, considerando che si trovava in un mondo estraneo.
    Con l'haki dell'osservazione notò subito che Jesper si stava avvicinando di soppiatto a lui; aveva intenzioni divertenti, ma non del tutto malevoli, quindi Sabo fece finta di nulla ma lasciò che il suo corpo diventasse intangibile. Scherzosamente, Jesper tentò di dargli un pugnetto sulla schiena, ma la sua mano entrò nel nulla: Sabo aveva lasciato il suo corpo aprirsi in parte anche per evitare che Jesper di bruciasse nel toccarlo.
    "Woaw, woaw," Jesper esclamò, ma non era davvero spaventato, più divertito. Si accomodò sul parapetto seduto accanto a lui. "Quindi tu sei proprio fatto di fuoco?"
    "Esatto."
    "Ma non dovrebbe tipo prendere fuoco il legno dove stai seduto? Come funziona? Come riesci a toccare le cose?"
    "Non è che posso darti una vera spiegazione, nemmeno noi sappiamo poi così tanto dei frutti del diavolo. Sostanzialmente, il nostro corpo di carne esiste ugualmente, come su un piano uguale ma diverso rispetto ai nostri poteri. Non so se è chiaro, ma esistono dei sistemi per superare il potere e toccare il vero corpo del possessore. Ovviamente quando è nostro, possiamo controllare il passaggio fra il corpo vero e il potere che possediamo."
    "E non potete nuotare."
    "No."
    Jesper ridacchiò. "Sei letteralmente in grado di sbaragliare un esercito e creare bombe di fuoco ma non puoi nuotare. Non lo trovi ridicolo?"
    "Matthias ha parlato di scambio equivalente," rispose Sabo con una risatella. "Ma c'è una spiegazione, o almeno viene detto che il mare ti rifiuta quando mangi un frutto del diavolo perché sei maledetto."
    "I poteri come una maledizione..." e questa volta Sabo capí che non si stava riferendo ai frutti del diavolo.
    "Nel mio mondo però i frutti del diavolo sono molto ricercati," Sabo disse. "Certo, c'è chi ha delle riserve riguardo alla questione del non nuotare, e molti hanno pregiudizi perché certi poteri sono terribili, e in altri casi non è conosciuto il potere che il frutto del diavolo ti può dare, quindi può essere un rischio. Ma tutti, nelle grandi potenze del mio mondo, hanno un frutto del diavolo, o almeno quasi tutti. È un vantaggio notevole nella maggior parte dei casi."
    "Quindi nel tuo mondo non c'è discriminazione."
    "Non nei confronti di chi mangia un frutto del diavolo." Sabo fece una piccola pausa. "Ma evidentemente la discriminazione è una componente fondamentale dell'esistenza dei mondi."
    "Quindi dobbiamo rassegnarci?"
    "Scherzi?" Sabo gli rivolse un sorrisetto. "Io passo il tempo a combattere contro quelle discriminazioni." Poi rifletté, "se pensassi a un gruppo che combatte qui le discriminazioni contro i grisha, a chi penseresti?"
    Jesper ci pensò su. "Direi il regno di Ravka. Cioè, non è che li non siano visti un po' di malocchio, ma almeno non sono più così apertamente discriminati, almeno è loro permesso di fare carriera nell'esercito, anche se appunto in generale è il loro unico ruolo. Io non ci sono mai stata, ma Nina viene da là e ne ha sempre parlato come il posto migliore per un grisha dove vivere. A Fjerda, come hai visto, non sono solo discriminati ma proprio perseguitati, e così a Shu e da dove vengo io. A Ketterdam sono tollerati perché a Ketterdam i soldi contano più di qualsiasi cosa, ma è un brutto posto, non un posto dove è bello vivere."
    "E allora perché voi ci vivete?"
    "Perché anche noi siamo brutte persone," risposte Jesper. "E chi non lo è se ne andrà, come Inej, Nina o Matthias."

    Tra tutti i membri di quella strana banda, quello con cui Sabo si trovava più in sintonia era Wylan. Scherzosamente Jesper aveva detto che era perché entrambi facevano esplodere le cose, ma Sabo sentiva che c'era qualcosa di più. Non era il fatto che fra tutti Wylan sembrasse quello più fuori dall'ambiente, ma forse erano le ragioni di quella estraneità.
    "Kaz, posso parlarti?" Disse un giorno Wylan, mentre stavano ancora navigando verso Ketterdam.
    Sabo era poco lontano, e percepì l'inizio del dialogo. Non si avvicinò troppo da essere parte della conversazione inizialmente, ma abbastanza da sentire e da vedere Kaz che annuiva.
    "Io rispetto molto la tua intelligenza," disse Wylan, "ed è grazie a questa ci hai portato dentro la fortezza e poi anche fuori. E per questo non riesco a pensare che tu ti stia davvero fidando di Van Eck."
    "Non mi fido, infatti," confermò Kaz, "ma Van Eck è un mercante, e i mercati mettono il commercio e il denaro sopra di tutto. Il nostro alla fine è uno scambio commerciali."
    Wylan scosse la testa. "Questo è vero, ma hai vissuto a Ketterdam abbastanza a lungo ler sapere che la gente come te non è mai considerata degna a prescindere. Quello che fanno per te è un favore, una gentile concessione. Non sei pari a Van Eck, questo è quello che lui pensa. Non gli importerà distruggere io vostro accordo, perché ne andrebbe di più nella sua reputazione e fare accordi con te che non a non rispettarli."
    "In ogni caso, ho i miei piani. Finora hanno sempre funzionato."
    "Con un po' di fortuna. Non so come saremo usciti da Fjerda senza Sabo e il suo fuoco."
    Una leggera ombra passò sul volto di Kaz, ma non rispose nulla.
    "Io ho capito cosa vuoi fare, e non funzionerà," continuò Wylan. "A mio padre non importa nulla di me. Anche se minacci la mia vita, non gli importerà e continuerà ad agire unicamente secondo il suo interesse. Quindi non basare la tua teoria su quello."
    "Tu sei il figlio di Van Eck?" Esclamò Sabo, entrando finalmente nella conversazione, quasi senza farci caso.
    "Purtroppo sí," rispose Wylan cupo.
    Adesso era chiaro perché Sabo si sentisse così legato a lui, o per lo meno rivedeva in Wylan una parte di se stesso, entrambi avevano l'esperienza con un padre ricco o nobile che non aveva minimamente a cuore la vita del figlio, se non come estensione di sé stesso per acquistare ancora più ricchezza e potere. E quando quello non si poteva fare, il ramo secco poteva essere tagliato senza troppe remore. Per quanto il padre di Sabo potesse essere venuto a salvarlo, aveva poi reso ben chiaro che Stelly era lì per sostituirlo se qualcosa fosse andata storta, e c'era ben poco da interpretare in quella frase, non era casuale che suo padre gliel'avesse detto di straforo.
    "Concordo con Wylan," disse allora Sabo. "Io questa gente la conosco, non mette la propria ricchezza davanti nemmeno ai propri parenti. Specie se questi parenti scappano di casa e diventano dei mezzi pirati o avventurieri. O peggio."
    Wylan gli scoccò un'occhiata di straforo, e Sabo su sicuro che aveva capito che si stava rivolgendo più a se stesso che a Wylan, ma decise di non indagare, non al momento. "Se vuoi possiamo fare una scomessa," disse invece a Kaz.
    "Non scommetto se non sono sicuro di vincere," rispose Kaz. "Magari mi fido, ma che cosa suggerite? Abbiamo fatto tutto questo per i soldi di Van Eck, non avrebbe senso rinunciarci adesso che siamo così vicini. E vale anche per te, Wylan, volevi questi soldi."
    "Si..." ma era chiaro che non era convinto, e Sabo aveva già capito che per lo meno per Wylan tutta quella faccenda era più un probabile che l'avesse fatto per provare qualcosa a lui personalmente, e forse pure a suo padre. Diverso da Sabo, quindi, il cui obiettivo era sempre e solo essere diventato libero.
    "Sabo, tu pensi di poterci dare ancora una mano?" Kaz disse. "Credo che Van Eck si aspetti Nina, se lo sa, e quindi abbia dei grisha per contrastarla. Ma di sicuro non si aspetta te."
    "Penso di si," rispose Sabo. "Ma non lo farò."
    Kaz strinse i suoi occhi su Sabo. "Perché?"
    "Io non credo dovremo consegnare Bo a nessuno, men che meno per denaro," risposte Sabo. "Non penso che Van Eck terrà Bo, o meglio la sua conoscenza del jurda parem, per se stesso. La sfrutterà per guadagnarci, per venderlo al miglior offerente mettendosi contemporaneamente al sicuro dalle conseguenze. Abbiamo già visto cosa stavano facendo i Fjerdan con i grisha utilizzando la jurda parem, e da quello che mi dite, non penso che gli altri popoli saranno diversi. Se non ci sarà una guerra, cosa di cui dubito altamente, ci saranno molti grisha che soffriranno. Io non ho intenzione di partecipare in qualcosa del genere."
    "Che cosa intendi fare, allora?" Kaz chiese, e aveva un tono di voce basso, pericoloso. "Hai intenzione di passare il tempo a fare da baby-sitter a Bo da solo per tutta la vita, quando non sei nemmeno da queste parti?"
    "Lo farei, se venissi da questo mondo. O se fossimo nel mio, saprei a chi affidare Bo," risposte Sabo. "Ma forse qui la soluzione migliore è portare Bo a Ravka. Da quello che ho capito, è l'unico posto dove non userebbero la droga sui grisha, e anzi, a loro converrebbe persino trovare un antidoto."
    "Ravka è piena di debiti dopo la guerra, tu non puoi saperlo perché non sei di qui," ribatté Kaz. "Non avremo mai soldi da loro. E senza Nina, poi."
    "Non è che devi farlo per soldi, devi farlo perché è la cosa giusta da fare."
    Ci fu un attimo di silenzio imbarazzato, poi Kaz mormorò, "fare la cosa giusta è la strada migliore per essere imbrogliati. Qui noi dobbiamo campare, e magari farlo in maniera decente."
    "Tutti quei soldi sono ben più del decente."
    "E che male c'è? Abbiamo fatto quello che nessuno aveva mai fatto, e ora vogliamo goderci il frutto di questo. Avevamo un accordo con Van Eck, non è forse corretto che lo rispetti, o che glielo facciamo rispettare?"
    "Van Eck non è certo una persona che ha il mio rispetto," ammise Sabo. "Ma tu riesci a vivere con la coscienza di tutti i grisha sulle spalle?"
    "Senza alcun problema."
    "Nina la penserebbe allo stesso modo se fosse qui?" Domandò Sabo. "Lei è una grisha, no?"
    "Lei era parte dell'accordo."
    Sabo premette le labbra: lui sapeva una cosa che Kaz evidentemente ignorava, cioè il piano suo e di Matthias per uccidere Bo. Non credeva Kaz avrebbe mai consentito, quindi in quel gruppo tutti usavano tutti, e non c'era la fiducia a cui Sabo era abituato. Inoltre sospettava grandemente che anche Kaz avesse delle ragioni per comportarsi in quella maniera, qualunque essere fossero. Ma non lo conosceva abbastanza bene da capirle, e anche se gliele avesse chieste Sabo dubitava Kaz avrebbe risposto, per cui era inutile.
    Poiché non aggiunse nulla, Kaz disse, "non aiutarci, se non vuoi, ma se non lo fai probabilmente Bo finirà comunque belle mani di Van Eck, l'unica differenza sarà la morte di tutti noi nel frattempo, quindi..."
    Non aggiunse nulla, se ne andò con il suo solito passo claudicante e non si aspettò che gli altri avrebbero avuto qualcosa da aggiungere. Difatti non aggiunsero nulla, ma attesero che si fosse allontanato prima di parlare fra di loro.
    "Ci aiuterai comunque, vero?" Chiese Wylan.
    "Non ho molte alternative." Sabo scosse le spalle. "Ma tanto noi due sappiamo bene che non c'è una sola possibilità che Van Eck rispetti il suo accordo, quindi nemmeno Kaz gli consegnerà Bo se non avrà i suoi soldi, e non succederà a breve. Poi capirò bene che cosa fare dopo."
    "Sembri conoscere bene quelli come Van Eck."
    "Sfortunatamente sí."
    Wylan lo guardò con un curioso interesse. "Che cosa facevi nel tuo mondo? Che cos'eri?"
    "Il mio mondo funziona in maniera molto diversa dal vostro," disse Sabo. "Ti basti sapere che c'è un governo mondiale totale e che non è composto da persone molto lontane dal comportamento di Van Eck o dal pensiero dei Fjerdan."
    "E tu stai facendo qualcosa contro di loro, nel tuo mondo?"
    "Sí."
    Wylan annuí. "Io da un lato ti capisco. Però sai, qui non è il tuo mondo. Tu a una certa te ne andrai, e saremo noi a dover raccogliere i cocci."
    "Che io non stia qui per sempre è vero, ma Nina speranzosamente tornerà. Boh, magari sono io, ma penso che lei qualcosa voglia fare. Mi pare l'unica che non stia facendo questo per vendetta o interesse personale. In ogni caso è vero che io non ci sarò più. E inoltre," aggiunse, "non sono del tutto estraneo al concetto di vendetta. Le mie sono comunque un po' meno elaborate."
    Avrebbe voluto parlare con Wylan un po' di più, ma si rese conto di essere stanco. Aveva la netta impressione che avrebbe rivisto troppo si se stesso in Wylan e non era sicuro che la cosa gli sarebbe piaciuta.

    Anche Ine gli piaceva. A differenza di Wylan, che sentiva molto vicino a se stesso, Inej gli ricordava Koala. Ovviamente erano particolarmente diverse nell'aspetto e nel carattere, ma guardandola non poteva non venirgli in mente Koala. A questo punto pensò che non ci fosse molto da fare, che le persone che avevano sofferto in un modo particolare, avessero attorno a sé un'aura particolare che si percepiva anche all'esterno.
    Lei gli si avvicinò nel pomeriggio dopo la discussione con Kaz.
    "Ti piace stare qui," gli disse.
    "Mi piace il mare."
    "Dev'essere perché il tuo mondo è composto solo da oceani."
    "A te non piace?"
    Inej sembrò improvvisamente sorpresa dalla domanda. "Non credo di aver particolari sentimenti a riguardo," disse infine. "La mia gente è nomade, non possediamo una patria, al contrario di Jesper o Nina. Non ho mai guardato a qualcosa per trovare un senso di appartenenza."
    "Allora tu cosa cerchi da tutto questo?"
    "Che cosa intendi?"
    "Io sono un po' stupido," disse Sabo allora. "Ma nel corso del tempo ho imparato a riconoscere i caratteri, è un tratto distintivo del mio lavoro, altrimenti sarei già morto. E da quello che ho capito qui, Kaz po fa per vendetta, i soldi sono il mezzo con cui la vuole ottenere, ma non ciò che desidera veramente. Wylan vuole dimostrare di essere qualcuno, Jesper ama il rischio. Matthias si è ritrovato in mezzo al casino e non sa come venirne fuori, però sta seguendo Nina, il che naturalmente adesso è un po' complicato da tutta la faccenda dello scambio."
    Inej rimase in silenzio, ma lo guardò con interesse. "Se pensi che ti dica che vendetta sta seguendo Kaz, la risposta è no. E non penso nemmeno di conoscerla, a dire la verità."
    "Non è quello che ti ho chiesto," risposte Sabo con gentilezza. "Volevo capire se cercavi qualcosa anche tu. Stai seguendo Kaz, per lealtà? Sicuro. Altrimenti non saresti qui a parlarmi. Non ti preoccupare, quello che posso fare lo farò. Ma non assicuro altro a parte tirarvi tutti fuori vivi da qualsiasi casino."
    "Mi pare già sufficiente."
    "Allora, cosa vuoi? C'è qualche desiderio che stai cercando? Qualcosa per cui valga la pena sacrificare Bo?"
    Inej si accomodò sul parapetto al suo fianco. "C'è stato un periodo in cui non ero sicura di quello che volessi. Era un insieme di tutto, sai, tornare dalla mia famiglia, essere libera. Non avevo un vero obiettivo oltre questo."
    Era una situazione familiare a Sabo. Annuí. "E invece adesso?"
    "Ho deciso che con i soldi che otterremo da questa storia mi comprerò una nave e ingaggerò un equipaggio e darò la caccia a tutti i pirati dell'oceano. Forse non sarà nulla, ma per quanto possibile voglio impedire loro di fare ad altri quello che è successo a me."
    A quella dichiarazione, Sabo rise. Ma non era una risata di scherno, era una risata in piena allegria, di gioia per quello che lei gli aveva raccontato e anche di simpatia. A Sabo mancava ridere di cuore così, con tutto quello che vedeva ogni giorni spesso era difficile anche guardarsi allo specchio.
    "È un bel sogno," le disse.
    "Pensi che sia assurdo? Utopico?" Inej doveva aver capito che La risata di Sabo non era cattiva, ma quella era una insicurezza sua.
    "No," scosse la testa lui. "Nel mio mondo io sto combattendo contro delle persone che detengono il potere da mille anni. Stiamo combattendo con l'intero ordine costituito, con cose che sono date per scontate, e per ragioni non molto lontane dalle tue. La tua missione è nobile." Poi le sorrise. "La mia migliore amica è come te."
    "Vuole combattere i pirati?"
    "No, è stata schiava e adesso vuole che nessun altro lo sia."
    Inej lo guardò di straforo, come se volesse chiedergli di più, volesse sapere di più di questa migliore amica che aveva vissuto cose simili. "Mi piacerebbe conoscerla," disse invece.
    "Credo che ti piacerebbe," disse Sabo. "Anche a lei tocca spesso fare da babysitter a qualcuno che tende a fare pazzie."
    "Questo qualcuno saresti tu?" Sorrise Inej.
    "Così dicono loro," rispose Sabo, fingendosi fintamente offeso dalla situazione.
    "Grazie per questa chiaccherata," disse Inej alla fine. "Non giudicare Kaz, non è quello che sembra."
    Dentro di sé Sabo si ricordò di Law, si come anche lui si fosse fatto prendere dalla vendetta ma alla fine avesse fatto la cosa giusta. "Non lo farò," disse, "ma promettetemi che se c'è un modo per voi di guadagnare senza sacrificare Bo e i grisha, voi lo userete."
    Inej lo guardò intensamente e annuí. "Prometti che ci darai una mano a trovarlo, questo modo."
    "Non sono mai stato granché nei piani," disse Sabo. "Ma farò del mio meglio."

    L'ultima persona da cui ebbe confidenze durante quel viaggio fu Matthias. Non era venuto a cercarlo molto durante il viaggio, anzi, Sabo l'aveva visto raramente in giro, era chiaro che non aveva grande confidenza con gli altri, così come Bo che tendeva a starsene nella sua cabina, ben consapevole che era merce di scambio e poco più.
    Da parte di Matthias, c'era anche il problema che aveva definitivamente lasciato alle spalle la sua patria, e da traditore nientemeno, e la persona per cui l'aveva fatto era al momento dispersa in un altro universo senza alcuna certezza che potesse tornare indietro (questo nonostante Sabo fosse sicurissimo che Koala e Hack avrebbero trovato un modo, li conosceva e si fidava di loro).
    Insomma, Matthias aveva poco da dire in generale, e poco da dire a Sabo ma apparentemente il fatto che Sabo passasse il suo tempo in solitaria seduto sul parapetto, le gambe a ciondoloni sul vuoto, con il vento che gli faceva ondeggiare i capelli e il mantello, il cappello a cilindro mollemente tenuto nelle mani, dava a Sabo l'impressione di essere una specie di santone che possedeva tutte le risposte.
    "Ciao," disse solo Matthias, sedendosi a fianco a lui come se non avesse davvero qualcosa da dirgli.
    Sabo studiò il suo profilo duro. "Sono sicuro che Nina stia bene," gli disse. "Non posso dire che il mio mondo sia il più sicuro del mondo, ma l'isola in cui ero si, e poi c'erano i miei compagni con me. E nessuno perseguiterà Nina per essere grisha, da me."
    Matthias annuí, ma era chiaro che non era quello che voleva sentire, che non gli sarebbe bastato a rassicurarlo. "E se non ci fosse modo per te di tornare?"
    "Dev'esserci per forza," risposte Sabo con sicurezza. "Non ho mai visto un frutto del diavolo di cui un possessore non potesse riportare indietro gli effetti. Anche di cose più complicate di queste. Ho visto frutti in grado di trasformare la gente in giocattoli e cancellare la memoria di quella persona da chiunque. E si poteva tornare indietro da quello."
    Ancora una volta, Matthias non sembrò così rassicurato. Ma forse era solo la sua faccia standard, che era accigliata e preoccupata normalmente. D'altronde, Sabo gli sembrava forse troppo tranquillo, vista la situazione, ma c'era poco da fare: Sabo era abituato alle stranezze del suo mondo e un passaggio di universo non rientrava nemmeno tra le prime tre. E proprio per questo motivo sapeva anche che poteva contare su gente che con le stranezze sapeva come fare e come agire.
    "Che cosa c'è che ti preoccupa?" Domandò allora Sabo.
    "Quando Nina è sparita... pensava l'avessi tradita," confessò infine Matthias. "Eravamo dentro quelle segrete, il mio es comandante aveva capito tutto... pensavo che se avessi finto di essere dalla sua parte avrebbe abbassato la guardia permettendomi di salvare Nina."
    "Il mio arrivo ha scombinato un po' le cose," capí Sabo.
    Marthias annuí. "La faccia con cui lei mi ha guardato... non credo che me la scorderò mai più. Ma se l'avessi tirata fuori da lí, avrebbre capito. Avrebbe saputo. Ma adesso..."
    "Potrai spiegarglielo quando tornerà."
    "E se non dovesse tornare?" Replicò Matthias. "Non voglio che il suo ultimo ricordo di me sia quello." Accasciò la testa nelle spalle e nelle grandi mani, senza piangere ma spargendo attorno un grande dolore.
    "Mio fratello è morto pensando che anche io lo fossi," disse allora Sabo. "È morto mentre io avevo perso la memoria e non sapevo nemmeno che esistesse, che fosse mio fratello e che era in pericolo. Ho ricordato tutto solo quando ormai era troppo tardi, per me e per lui. Non ci vedevamo da dieci anni."
    Matthias lo guardò, ed era un misto di sorpresa per quella rivelazione imprevista e di orrore per quello che era successo.
    "Questo per dire," disse Sabo, "che non permetterò che una cosa del genere succeda a qualcun altro. E di certo non a te e a Nina."

    Come volevasi dimostrare, Van Eck li tradì. Tentò di prendersi Bo, e di non dare loro alcunché, anzi, di arrestarli tutti utilizzando la scusa che gli avevano rapito il figlio. Non era proprio la cosa più carina del mondo, Sabo dovette riconoscerlo, e Van Eck entrò nel club dei peggior padri dell’anno assieme al suo perché prima utilizzò il figlio in un modo, ma poi disse a Kaz che per quanto gli interessava lo poteva anche ammazzare, tanto era un figlio inutile di cui avrebbe fatto volentieri a meno.
    A quelle parole Kaz non dovette nemmeno chiedere aiuto a Sabo, perché fu Sabo stesso a precipitarsi nella mischia, e fu con grande piacere che tirò un bel pugno assestato con anche un po’ d’Haki a Van Eck, con il quale sperò di avergli rotto sia naso sia mascella. Poi si dedicò al resto della guardia che Van Eck aveva portato con sé, mentre Kaz, Inej, Wylan e Jesper coprivano la fuga di Bo accompagnato sulle spalle da Matthias.
    La nave salpò e quando fu a una distanza di sicurezza ragguardevole Sabo saltò, usando sia la forza sia la spinta che il fuoco gli dava per saltare di nuovo sopra il ponte. Era parte del piano, ovviamente, Wylan se ne era accertato e di questa cosa Sabo gliene era grato.
    “E adesso?” disse.
    Ci fu un attimo di pausa in generale, e poi tutti gli occhi si voltarono verso Kaz. Poteva anche essere quello che badava più ai soldi e alla vendetta, ma era anche quello che aveva le idee e che finora le aveva portate a termine, più o meno. Anche Sabo stesso li rispettava per quello, avrebbe soltando preferito vederlo mettere in pratica tutte queste sue caratteristiche più per una nobile ragione.
    Ma aveva smesso di tentare di convincerlo, seguendo il consiglio di Inej. Avrebbe agito come sempre, quando il momento l’avrebbe richiesto.
    “Abbiamo fatto quello che Van Eck ci ha chiesto, e i soldi ci spettano,” disse Kaz infine. “Sono sicuro che tutti voi al momento siate arrabbiati con lui e vogliate fargliela pagare. Possiamo provare a farlo, elaborare un piano, ma sicuramente siamo in svantaggio. Dovremo procurarci dei mezzi, in nascondiglio momentaneo per Bo…”
    “A questo punto, ritorna il mio piano di non consegnare Bo a nessuno,” disse Sabo. “In fin dei conti, non è lui che farà avere a voi i soldi indietro, e questo potrebbe risparmiare un sacco di grattacapi. Da parte mia, sarò sempre favorevole a qualsiasi piano che involta questa cosa.”
    “Sì, lo sappiamo,” disse Kaz, ma non sembrava intenzionato a replicare su quel punto. “Tu ci hai tirato fuori un sacco di volte da casini seri, Sabo, e questo è indubbio. Ma purtroppo non possiamo più fare affidamento si di te.”
    “Perché?” si intromise Wylan. “Io sono d’accordo di non consegnare Bo a nessuno.”
    “Anche io,” aggiunse Matthias.
    “Non è quello,” rispose Kaz. “È che non possiamo rischiare di basare tutti i nostri piani su Sabo, quando non sappiamo se se ne andrà. Insomma, tutti noi immaginiamo che Nina tornerà a prendere il suo posto, no? Solo non sappiamo quanto. E se succederà nel momento in cui avremo basato tutto sulla presenza di Sabo, saremo spacciati.”
    Aveva ragione, nessuno poteva negarlo. Improvvisamente Sabo si sentì completamente impotente, in balia degli eventi. Si fidava di Koala e Hack, sapeva che l’avrebbero riportato a casa, ma non poter comunicare con loro, non poter capire che cosa facevano, era un handicap serio a quel punto. E gli ritornarono in mente anche alcune parole che Kaz gli aveva detto precedentemente: lui non poteva far niente per quel mondo, perché prima o poi se ne sarebbe andato.
    Ed era sostanzialmente vero, Sabo non veniva da quel mondo. Doveva ricordarsene.
    “Non dico che Sabo non debba più aiutarci,” aggiunse Kaz. “Ma non possiamo elaborare piani sulla sua presenza, come abbiamo fatto adesso con Van Eck. Dobbiamo trovare degli altri modi, e dobbiamo farlo come truffatori, come siamo abituati a fare le cose qui a Ketterdam.”
    Sabo annuì. “Ma allora, io cosa posso fare?”
    “Starai nelle retrovie, pronto a intervenire se dovesse succedere qualcosa,” disse Kaz. “Potrai controllare Bo, che non manderemo certo in giro. In questa maniera dovresti essere più tranquillo che non lo consegneremo.”
    “In questa maniera saremo sicuri che anche se Nina dovesse apparire improvvisamente, si troverà in una situazione di calma e non nel mezzo di un caos senza esserne stata avvertita.”
    Scoccò un’occhiata a Matthias, per fargli capire che in quel modo pretendeva però che lui non facesse più da guardia del corpo a Sabo ma diventasse parte attiva del piano. Anche Matthias sembrò capire le implicazioni di quella situazione, perché annuì, ma comunque aggiunse, “ricordiamoci che Sabo non sa nuotare, per cui dovremo sempre avere un controllo anche su quello.”
    Sembrarono tutti d’accordo anche su quel punto, ma mentre Kaz passava a illustrare la parte successiva del suo piano, Sabo aveva altri pensieri. Sarebbe tornato nel suo mondo, questo era certo. Ma ci sarebbe stato poco: ormai si era fissato con quel mondo e, se c’era una cosa per la quale si era impuntato, era mettere al sicuro Bo in modo che nessun altro potesse impadronirsi della jurda parem per sfruttarla.
    D’altronde, era già finito in quel mondo una volta. Avrebbe potuto tornarci un’altra, in maniera più conscia.
    Con quel pensiero in testa, seguì con più voglia i pensieri di Kaz.
  5. .
    Il tradimento di Matthias la colpì come un fulmine, era l’ultima cosa che si aspettava. Lei non poteva dire di non averlo mai ferito (quando l’aveva venduto era stato sì per proteggerlo, ma ciò non cambiava davvero la realtà delle cose, non cambiava come lui avesse sofferto della prigionia) ma pensava che il tempo che avevano passato assieme significasse qualcosa.
    Che lei significasse qualcosa per lui.
    Non era solo stato il viaggio fino a Ketterdam, ma anche quest’ultima avventura con tutta la banda. Lo aveva visto diverso, più sciolto, come se si rendesse conto finalmente della prima volta che la persecuzione dei grisha era un errore di fondo. E che se anche non capiva, li avrebbe aiutati comunque perché in quel momento importava solamente di evitare il diffondersi dello jurda parem.
    E invece eccolo lì, dall’altro lato della finestra della cella dove Nina era finita rinchiusa, a guardarla con espressione impassibile, dura, fredda come all’inizio, a fianco del suo maestro che invece ghignava soddisfatto perché un druskelle non si piegava, non si innamorava, non credeva nella libertà dei grisha ma solo nel loro sfruttamento, non importava quanto i fatti gli avessero mostrato il contrario.
    La visione le fece venire il vomito, si sentì in preda al panico, ma non dal pensiero che presto avrebbero rilasciato la jurda parem all’interno della stanza, cosa che l’avrebbe resa schiava per sempre, no, quello che le faceva male davvero era il sapere di aver sbagliato a portare Matthias in quel posto. Avrebbe dovuto tenerlo lontano, al sicuro, in un posto dove non sarebbe potuto cadere nei vecchi vizi… ma ormai era troppo tardi.
    Continuò a fissarlo senza che la sua espressione cambiasse minimamente, e poi, la finestra tremò appena e svanì, il volto di Matthias si perse nell’oscurità della cella e d’improvviso il sole tornò a esplodere negli occhi di Nina, caldo e accecante. Per la sorpresa lei cadde all’indietro, urlando appena, e la sabbia si alzò attorno a lei. Immediatamente si coprì gli occhi per riprendere a vedere nonostante la luce intensa e improvvisa.
    C’era un uomo di fronte a lei, con una divisa bianca che non le ricordava quella di nessun paese, sicuramente non dei druskelle, ma nemmeno dei Ravkan, né degli Shun. Forse non era nemmeno una divisa, eppure lo sembrava, per l’ampio mantello che sventolava sulle spalle dell’uomo, e le mostrine sulle spalle e le medaglie al centro del petto.
    Aveva un viso lungo, come un ovale, ma con il mento molto appuntito che terminava in una piccola barbetta nera con un ricciolo. Le labbra erano grandi, carnose, il naso aquilino, e gli occhi stretti e neri, da topo. I capelli erano neri, corti e unti, quasi tutti nascosti da un cappello con la visiera.
    E, notò solo all’ultimo, una spada in mano.
    “Mi dispiace, signorina,” disse l’uomo, “Non ho facoltà di scelta per lo scambio, altrimenti lo farei e non avrei mai scelto te. Almeno, sii consapevole che la tua morte libererà per sempre questa terra da un pericoloso criminale.”
    Doveva reagire, concentrarsi e usare i suoi poteri da grisha per fermargli il cuore, o almeno rallentargli il battito abbastanza per parlargli, capire di che stava parlando e perché Nina doveva morire. Ma era troppo disorientata, i vestiti pensanti da festa la stavano facendo sudare sotto quel sole caldo, e lei non riusciva a pensare chiaramente, nella sua mente c’era ancora il viso duro di Matthias e la cella scura e non capiva se fosse già sotto l’effetto del jurda parem oppure no.
    Ma quanto la spada fu levata sopra di lei, una ragazza atterrò delicatamente da sopra, probabilmente da uno dei tetti, dietro le spalle dell’uomo, e lo colpì con quella che sembrava una mossa di karate ma che contemporaneamente spruzzò acqua attorno. Qualunque cosa fosse, fu efficace, perché l’uomo venne scaraventato oltre Nina, dall’altra parte della strada, contro il muro che la delimitava.
    Un'altra persona atterrò dietro di lei e la afferrò, prendendola nelle sue braccia muscolose, come una bambola di pezza. Lei non si sottrasse, ancora disorientata dalla scena così diversa che le si presentava davanti.
    Solo in quel momento Nina si rese conto davvero che non erano passati nemmeno due minuti da quando la scena era cambiata a quando la ragazza era arrivata per lei. Il suo disorientamento aveva fatto il resto, facendole vedere al rallentatore tutto ciò che invece si era svolto in maniera estremamente rapida.
    Solo in quel momento i suoi sensi tornarono a funzionare appieno, il calore divenne insopportabile, gli occhi si adattarono a quella luce intensa, riprese a sentire e a percepire attorno a sé. Usò i suoi poteri su se stessa, in un attimo, cercando di calmare il cuore per non disorientarsi di nuovo.
    “Andiamo,” disse, ed era una voce gutturale da uomo. “Mettiamoci al sicuro per ora.”
    La ragazza annuì, ed entrambi, portando con sé Nina, saltarono di nuovo sul tetto e poi, di tetto in tetto, si allontanarono dalla scena e soprattutto dall’uomo, che si stava per riprendere. Nina non si oppose: non sapeva cosa stava succedendo, ma quelle due persone l’avevano salvata, per qualche ragione, per cui potevano essere le uniche a darle una qualche spiegazione.
    Si voltò appena per guardare al suo salvatore e sbiancò: mentre la ragazza appariva totalmente umana, con la pelle chiara, i capelli corti rossi e gli occhi grandi azzurri, l’uomo che la stava trasportando non sembrava davvero un uomo. Ne aveva le caratteristiche principali: due braccia, due gambe, una faccia con bocca, occhi, naso e orecchie. Ma la pelle era gialla e squamosa come quella di un pesce, branchie gli spuntavano ai lati del collo e al posto dei capelli aveva una folta criniera blu che ricordava molto i tentacoli di un anemone.
    Si agitò un secondo e lui, credendo che temesse l’altezza, la rassicurò.
    “Tranquilla, non ti faccio cadere.”
    Quella voce la calmò un attimo, le consentì di pensare che l’aspetto non doveva contare nel giudicare una persona, ovviamente, ma non poteva negare di essere rimasta spaventata da quella visione. E dentro di lei non poteva far altro che pensare che potesse essere un effetto dello jurda parem, o dell’azione di un grisha sotto jurda parem, che magari aveva alterato completamente l’aspetto di un uomo in quella maniera.
    Non si agitò, ma tremò nonostante i numerosi strati di vestiti che la avvolgevano, e dentro di sé ripenso a Matthias, alla cella buia, allo scienziato che aveva creato la droga e al fatto che, in qualche modo, doveva fermarla.

    Una volta che si furono allontanati abbastanza, ritornarono a camminare nelle strade normalmente, ma continuando a essere circospetti dei dintorni. Non c’erano troppe persone attorno, per fortuna, sembrava essere troppo caldo. Non dissero niente a Nina, e per il momento lei non chiese nulla, ma la portarono a riposarsi in una locanda. Lei approfittò del bagno per rinfrancarsi un attimo e togliersi la maggior parte dei vestiti, restando in una comoda sottoveste che però non nascondeva nulla delle sue abbondanze. Temendo di essere troppo appariscente, oltre a cancellare totalmente il segno del trucco, arrabattò il mantello in modo da poterselo tenere sulle spalle e eventualmente coprirsi la testa se fosse stato necessario.
    Quando tornò nella sala da pranzo principale, notò subito il tavolo che la ragazza e l’uomo avevano occupato, e anche che l’uomo si era messo il cappuccio sulla testa e dava volutamente la schiena alla porta: evidentemente la sua stranezza non era comune nemmeno dove si trovavano in quel momento. Con passo deciso, ora che aveva ripreso in parte il controllo di sé, camminò verso il tavolino e si sedette come se avesse la situazione sotto controllo.
    “Stai bene?” le chiese gentilmente la ragazza, e Nina annuì.
    “Sì, grazie… mi avete salvato da quell’uomo, anche se non ho idea del perché mi volesse uccidere.”
    “Nemmeno noi,” rispose lei, “ma sospettiamo che tu sia finita in quel guaio per colpa di Sabo – un nostro amico. A proposito,” allungò la mano verso di lei, “io sono Koala e l’amico che è con me è Hack.”
    “Nina,” disse lei, prendendole la mano. Fissò Hack un po’ troppo intensamente, e lui se ne accorse perché le sorrise.
    “Prima volta che vedi un uomo pesce?” le domandò.
    “Sì,” rispose lei immediatamente, e dentro di sé pensò che era un nome perfetto per descrivere quell’uomo, ma allo stesso tempo sembrava parlare come se lui fosse una cosa che esisteva, e non una qualche creatura creata dalla magia grisha. Forse la jurda parem non c’entrava.
    “Comprensibile. Non usciamo molto fuori dalla Rotta Maggiore,” continuò Hack, confondendola ancora di più. “Ma ti assicuro che le leggende su di noi sono totalmente infondate, noi non siamo le creature bestiali di cui parlano in molti.”
    “Oh, no, non lo credo,” rispose Nina immediatamente, nonostante non avesse la minima idea di che leggende stavano parlando. Ma lei era stata vittima di dicerie sulla sua natura grisha, e improvvisamente provò affetto per quell’uomo dallo strano aspetto. Non dubitava che stesse dicendo la verità.
    Poi si rivolse verso Koala. “Io non conosco nessun Sabo,” disse, a meno che non fosse un qualche nome in codice per Kaz, chissà cosa passava dentro la testa di quell’uomo, “perché avrebbe dovuto mettermi nei guai? Al punto che un altro uomo stava tentando di uccidermi?”
    “Non abbiamo risposte certe nemmeno noi,” disse Koala, con un lungo sospiro. “Guarda, ti dico come sono andate le cose. Sabo, questo nostro amico, stava inseguendo Trek, l’uomo che ha tentato di ucciderti. Noi li abbiamo seguiti dai tetti, cercando di raggiungerli. Quando siamo arrivati, la scena che abbiamo visto è stata questa: Sabo era di fronte a Trek, erano entrambi fermi, e un secondo dopo, nemmeno il tempo di sbattere le palpebre, tu eri al posto di Sabo, come se vi foste scambiati di posto.”
    “Ha senso,” ammise Nina. “Io ero da tutt’altra parte,” rabbrividì appena ricordandosi di dov’era, “ e poi mi sono trovata improvvisamente lì. Ma come può essere accaduto?”
    “Probabilmente Trek ha utilizzato il potere del suo frutto del diavolo,” ipotizzò Hack. “Non sappiamo bene che cosa faccia o come, ma probabilmente è stato quello. Il fatto che abbia tentato di ucciderti è strano. Forse, una volta fatto lo scambio, se uno dei due muore l’altro non può più tornare indietro? Non può farlo nemmeno Trek?”
    “Ma dove sarà finito Sabo? Nel senso, comunque potrebbe uscire e tornare alla base da solo, se l’avesse buttato in acqua Sabo sarebbe morto a prescindere… a meno che appunto non temesse che saremo andati a cercarlo e voleva il sistema per non riportare Sabo indietro… magari l’ha rinchiuso da qualche parte…”
    Adesso Koala e Hack parlavano fra di loro, quasi ignorando Nina, e lei rifletté immediatamente. Parlavano di frutti del diavolo come se lei ne dovesse sapere qualcosa, per cui decise di non contraddirli. L’avevano salvata, è vero, ma allo stesso tempo si trovava in un posto completamente estraneo e, temeva, non semplicemente un’altra città o un altro regno del suo mondo.
    Aveva senso gettare una persona in un altro mondo e poi impedirgli di tornare indietro togliendo di mezzo l’ancora per l’altro mondo? Sì, per quanto pazzo potesse suonare alle stesse orecchie di Nina.
    “Il vostro amico è un grisha?” chiese Nina improvvisamente, e sia Koala sia Hack la guardarono perplessi. Nina decise che non conveniva che approfondissero, quindi disse, “direi di noi, quindi questa è una cosa positiva per il vostro amico.”
    “Giusto,” Koala disse. “Tu vieni dall’altra parte, da dove Sabo sarà finito. Tu puoi dirci dove ritrovarlo. In cambio noi ti accompagneremo indietro.”
    Nina rifletté velocemente: una parte di lei voleva fidarsi, l’altra aveva paura a farlo, perché non conosceva niente né di quella gente né di quel mondo, e questa cosa le faceva paura. “Ero in una cella,” confessò allora, “in un palazzo di un regno freddo di cui non ricordo il nome. Io sono una viandante, sapete, e insomma, ogni tanto faccio dei lavoretti per campare. A quella gente non sono piaciuti, mi hanno dato della strega, e sono finita in quella cella.”
    “Ha senso,” disse Koala infine, dopo che entrambi ebbero ascoltato la sua versione. “Mettere Sabo in una cella, intendo. Ti ricordi se era di agalmatolite?”
    “Sono sicura di no,” rispose Nina, ben consapevole che non sapesse che cosa fosse. Ma proprio per quello di certo non poteva essere il materiale delle celle di Fjerda.
    “Allora Sabo ne può uscire da solo,” concluse Koala. “Certo, chissà dov’è adesso, speriamo riesca a contattarci, ma magari ci metterà un po’. Non posso fare a meno di preoccuparmi.”
    “Ma posso dire una cosa?” disse Nina. “Perché non andiamo a ricercare la persona che ha fatto questo? Se ha tentato di uccidermi perché potevo riportare Sabo indietro, vuol dire che può farlo, no? Basterebbe prenderlo e costringerlo.”
    “Non hai tutti i torti,” ammise Hack. “Sarebbe più facile per noi, e prima che Sabo combini qualche guaio là dov’è finito.” Poi guardò Nina. “Quel tipo è un marine, anche se della parte peggiore di quel gruppo, quindi in generale è un problema anche solo dargli la caccia. Siamo scappati per quello… ma alla luce di queste spiegazioni, sicuramente è la soluzione migliore.”
    Dentro di sé, Nina tirò un sospiro di sollievo. La sua scusa poteva funzionare, ma non poteva essere lasciato da sola come la viandante che fingeva di essere. Doveva tornare nel suo mondo grazie al potere di quell’uomo, qualunque fosse. Doveva convincerli a tenerla con sé, contemporaneamente capire bene come funzionasse quel mondo quanto bastava a sopravvivere.
    “Come troviamo Trek?” disse Koala. “Qui non c’è una base della marina, per cui non può essere andato lì. Era chiaramente solo di passaggio, a questo punto potrebbe anche aver già lasciato l’isola.”
    “Potremo prendere la nostra nave e andare al rendes vouz con gli altri,” propose Hack. “Loro di sicuro potrebbero avere più tecnologia di noi per dirci come trovare Trek in fretta, e aiutarci a raggiungerlo.”
    “Sì, è la soluzione migliore.” Ma Koala scoccò comunque un’occhiata a Nina, per essere sicura che lei fosse d’accordo con la questione. “Ma ti devo avvertire,” aggiunse, “tu sai chi siamo?”
    Nina scosse la testa. “Non ne ho idea.”
    “Facciamo parte dell’armata rivoluzionaria.”
    Ovviamente a Nina quella frase non diceva nulla, ma dal tono con cui l’avevano pronunciata e tutto, sospettò che non fosse qualcosa di molto legale, ed era detto con un tale tono cospiratorio che Nina sospettava fossero abbastanza conosciuti nel mondo, quindi finse un improvvisa sorpresa.
    “Già.”
    “Be’, è uguale. Non sono la persona più integerrima del mondo nemmeno io,” Nina disse. “E voglio solo tornare a casa mia. Ma per voi va bene che venga con voi?”
    “Massì, certo, dopotutto questa storia è tutta colpa di Sabo.”
    “Grazie, allora.”
    Pagarono le bevande che non avevano nemmeno consumato (topologia di monete che Nina non aveva mai visto, notò) e camminarono verso il porto. Ma prima che lo raggiungessero ci fu un’agitazione generale, la gente che commentava e borbottava attorno, anche se non nei loro confronti, e alcuni che scappavano da una parte. Koala e Hack si misero immediatamente sull’attenti, e Nina notò che si stavano moltiplicando le persone che indossavano pantaloni azzurri e una maglietta bianca.
    Marine? Si chiese. Probabilmente la risposta era sì.
    Poi Koala si affacciò e prese Hack per il braccio. “Guarda.”
    “Maledizione. Che ci fa qui?”
    Nina seguì il loro sguardo e individuò un uomo altissimo, più alto di lei e più alto di qualsiasi druskelle che lei avesse mai visto. Indossava lo stesso mantello di Trek, ma il vestito era diverso, giallo a righe nere. Non aveva armi con sé e camminava sicuro, ignorando il bordello che la sua presenza poteva generare, anzi, come se quella confusione lo confondesse ancora di più.
    “Attenzione!” gridò uno degli uomini che erano con lui. “Siamo stati informati della presenza di rivoluzionari in quest’isola! Chiunque abbia informazioni utili deve venire a riferire immediatamente!”
    “Chi è?” domandò Nina.
    “L’ammiraglio Kizaru,” rispose Hack, e Nina ringraziò il fatto che non si facessero domande sulla sua ignoranza. “Non abbiamo speranze di batterlo. Dobbiamo solo raggiungere la nostra nave e scappare prima che sia troppo tardi.”
    Hack si sistemò ancora meglio il cappuccio sulla schiena, Koala si appiattì contro di lui, calandosi il cappello sugli occhi. Nina li imitò, camminando qualche passo dietro di loro. Non potevano restare nella via principale, ma c’era il rischio che muoversi in una via laterale proprio quando passava l’ammiraglio potesse essere visto con sospetto.
    “Dov’è il porto?” chiese ancora Nina.
    “Proprio alla fine di questa strada, dove termina la discesa,” disse Koala. “Volendo potremo prendere la strana parallela, ma non vorrei attirare l’attenzione.”
    “Voi andate,” disse Nina. “Prendete la via laterale, io vi raggiungo dalla principale. Andate!”
    Improvvisamente si rese conto che loro non avevano alcuna ragione per crederle, per fidarsi, ma lei aveva delle necessità di stare con loro e farsi potare da Trek, ed erano disposti a farlo, di sicuro più di quell’ammiraglio o di qualsiasi cosa fosse.
    “Guarda che è pericoloso,” disse Koala. “Quell’uomo…”
    “Non farò niente di pericoloso, lo prometto. Lo distrarrò solo un attimo così non si accorgerà che voi avete preso la via laterale.”
    Poi non aspettò che acconsentissero, ma prese a camminare sicura per la strada. Finse di non prestare molta attenzione a quello che le stava succedendo in giro, ma colse l’occasione appena il momento fu propizio per spostare un secondo la gamba quando un marine si voltò, facendo in modo che sembrasse che lui involontariamente le avesse fatto lo sgambetto. Cadde a terra in maniera meno elegante di quanto avrebbe preferito, ma fu sufficiente.
    L’attenzione dell’ammiraglio in un attimo fu su di lei, e il marine era al suo fianco la fece alzare, chiedendole scusa innumerevoli volte.
    “Non fa niente,” disse lei, con voce soave. “Sul serio, lo capisco che siete molto impegnati, che fate un lavoro importante, è tutto a posto…”
    Ma accettò volentieri il momento in cui l’ammiraglio le tese la mano, con un piccolo sorriso, e in quel momento poté sentire il battito del suo cuore chiaro nella sua mente. Lo rallentò, con calma, non abbastanza a fargli perdere i sensi, nemmeno così velocemente da fare in modo che se ne accorgessero, ma abbastanza per rilassarlo completamente, smettere di fargli passare in circolo l’adrenalina che lo avrebbe reso più vigile.
    Quando Nina finalmente si allontanò, era sicurissima che non avesse fatto minimamente caso ai due che si erano allontanati dalla stradina laterale.

    La nave di Koala e Hack era piccola, sufficiente per massimo quattro persone e per quel motivo assolutamente maneggevole da un gruppo di persone così ridotto. Nina non aveva grandi conoscenze in materia di navigazione, né le era capitato di stare in una nave così piccola (aveva sempre viaggiato come ospite su navi grandi, con il proprio equipaggio), ma sia Koala sia Hack sembravano essere a loro agio all’interno della nave, e non sembrarono intenzionate a chiederle aiuto.
    Così Nina, per un po’, rimase seduta contro il parapetto, a godersi il vento che le scuoteva i lunghi capelli rossi. C’era qualcosa di diverso, in quel mare, non era il mare che vedeva in lontananza da Ketterdam, quello che la separava da Ravka e dal ritorno a casa.
    Adesso che era più tranquilla, e che aveva capito bene che cosa doveva fare per tornare a casa, dentro di lei tornò la paura, e contemporaneamente dovette attivare il suo potere per tenere il suo cuore sotto controllo.
    Temeva per la situazione che aveva lasciato indietro. Per Kaz, Inej, Jesper e Wylan. Loro non sapevano del tradimento di Matthias, lei non era riuscita ad avvertirli, e questo significava che avrebbero potuto essere traditi e catturati tutti. Per quanto Kaz avesse sempre un piano, dubitava che avesse previsto specificatamente quella situazione. E inoltre, Nina era sparita, ed era possibile che Inej non l’avrebbe abbandonata, anche se dicevano sempre di lasciare indietro chi non riusciva a farcela.
    Insomma, ma sparizione di Nina li aveva messo in pericolo tutti.
    Temeva per Sabo, anche se non lo conosceva. Lei era finita in una situazione in cui un uomo voleva ucciderla, ma non era una situazione senza scampo, ed era anche stata aiutata. Sabo era finito dentro una cella nelle segrete dei druskelle. Non era un grisha, questo avrebbe dovuto giocare a suo favore, soprattutto per l’immunità al jurda parem, ma ovviamente non era detto che i druskelle gli credessero. Koala e Hack sembravano convinti che Sabo potesse scappare, ma si sarebbe ritrovato nel centro di una grossa cospirazione su cui non aveva nessun controllo né conoscenza.
    Forse era stato proprio l’obiettivo di Trek, cacciarlo in una situazione da cui non ne sarebbe uscito vivo.
    Temeva anche per Matthias, per quanto fosse irrazionale. Lui l’aveva tradita, li aveva traditi tutti, eppure lei non pensava che lui meritasse di tornare dai druskelle a uccidere grisha. Lui era meglio di così e lei si rammaricava di non aver potuto salvarlo meglio di come aveva fatto.
    “Tutto bene?” le domandò Hack, una volta che furono in mare aperto, l’isola dov’erano stati fino a qualche tempo fa già solo un’ombra all’orizzonte.
    “Sì, solo un po’…” si fece aria con le mani, “…frastornata per tutto quello che è successo.”
    “Comprensibile. Vuoi andare un po’ a riposare? Tanto qui ci pensiamo noi.”
    “Grazie, sì.”
    Erano troppo gentili, e lei si rammaricava di non aver detto loro la verità. Ma come fai a dire a qualcuno che vieni da un altro mondo? Passeresti per pazza, e lei non voleva rischiare di restare intrappolata lì. Doveva tornare ad aiutare gli altri – sempre se fosse possibile farlo, sempre che Sabo fosse ancora in vita da poter farla tornare indietro.
    Scese sottocoperta, c’erano due stanze, ciascuna con due amache e due piccole scrivanie con libri, giornali e mappe. Nina scelse quella con i libri che le sembravano più interessanti. Fu attratta soprattutto dalle due taglie appese sopra una delle scrivanie, e benché non sapesse quanto un berry valesse, immaginava che le taglie fossero per cifre ragguardevoli. Raffiguravano due ragazzi dai capelli neri e i sorrisi ampi, uno di loro aveva anche le guance spruzzate di lentiggini. Di certo non sembravano pericolosi criminali.
    Ma ancora, Matthias lo sembrava, ed era stato un druskelle, forse lo era ancora, una di quelli che uccidevano grisha solo in quanto grisha.
    Prese uno dei libri, poi uno dei giornali, poi un altro libro, sfogliandoli, cercando di assimilare per quanto possibile le informazioni che potevano esserle utile in poco tempo. Si convinse definitivamente che non si trovava nel suo mondo. Che fosse su un altro pianeta, o in una realtà parallela, questo non lo sapeva, e si chiedeva come fosse stato possibile una cosa del genere.
    Venne anche a capire com’era la geografia e la geopolitica di quel mondo, e rimase incantata dall’idea di un mondo unificato, anche se immaginava che non fosse tutto oro quello che luccicava, sia da come Hack aveva parlato, sia dalla stessa esistenza dell’armata rivoluzionaria.
    Non c’erano ovviamente libri su di loro, solo qualche articolo sparso di giornale che li definiva degli essere abbietti, dei nemici della libertà e dell’ordine, che tentavano di sovvertire un governo che durava dopo secoli e secoli. Spesso erano accusati di attacchi terroristici, di assassinii, e qualunque cosa venisse utile alla propaganda per screditarli.
    Perché sì, Nina si era fatta convinta che l’armata rivoluzionaria avesse qualche forma di ragione. Lei stessa, come aveva detto a Koala, non era esattamente la persona più integerrima del mondo, e allo stesso tempo sapeva che ci vogliono certe persone per fare certe cose, come entrare in una fortezza iper sorvegliata per uccidere uno scienziato che aveva inventato una formula che poteva sovvertire l’ordine costituito nel mondo come lei lo conosceva.
    Nella sua mente, la banda che Kaz aveva costruito e l’armata rivoluzionaria non erano così diversi, anzi. Forse l’armata era meglio organizzata, più numerosa e più attrezzata, ma certo avevano parecchie cose in comunque, o almeno Nina la pensava così. Una parte dei lei rifletté se fosse il caso di provare a dire loro la verità: magari li avrebbe spronati a cercare Trek in maniera ancora più rapida.
    Per il momento, però, non lo fece, anzi, finse quasi si svegliarsi quando Koala entrò nella stanza.
    “Non volevo svegliarti, scusami.”
    “No, tranquilla, stavo solo sonnecchiando.” La guardò mentre si accomodava alla scrivania, e solo allora accennò ai due manifesti appesi alla parete. “Che cosa rappresentano?”
    “Sono i fratelli di Sabo,” disse Koala, e un leggero sorriso le increspò il volto.
    “Una famiglia di rivoluzionari,” disse Nina, ipotizzando che fosse quella la ragione per cui avevano una taglia.
    “No, loro sono pirati.”
    Nina non aveva una buona esperienza con i pirati, non che lei ci avesse avuto personalmente a che fare, ma conosceva bene la storia di Inej. Improvvisamente, temette di aver commesso un errore a fidarsi di queste persone. Erano criminali conclamati, e adesso sembrava avessero dei riferimenti anche alla pirateria. Forse non erano gli avventurieri che Nina riteneva.
    “Una mia amica è stata rapita dai pirati quand’era ragazzina,” disse quindi, cercando di risuonare casuale e soprattutto non dire cose che non corrispondevano a quel mondo. “L’hanno venduta come schiava in un bordello. Be’, in teoria la schiavitù non esiste più laggiù, ma le hanno fatto firmare con la forza un modulo in cui lei diceva di darsi volontariamente al bordello e che doveva pagare una certa somma per recidere il contratto. Ma sì, non cambiava molto.”
    “Mi dispiace per la tua amica,” disse Koala, e sembrava sincera, si era anche voltata a guardarla apposta, e aveva ascoltato il racconto con molta attenzione. “La schiavitù dovrebbe essere abolita ovunque, ma di fatto non lo è. Anche se la storia del falso contratto non l’avevo mai sentita, di solito non si mettono nemmeno a fare inganni del genere, se ne sbattono delle regole e basta.”
    “E’ una delle ragioni per cui sei diventata rivoluzionaria?”
    Lei annuì. “Il sistema è marcio dalla punta, e i più marci sono proprio i Draghi Celesti, quindi dobbiamo partire da lì.”
    “Eppure a Sabo va bene che i suoi fratelli facciano i pirati? O hanno litigato per questo?” Nina diede un’altra occhiata alle due taglie, cercando di vedere all’interno di quei visi quello che poteva essere il volto del Sabo di cui aveva preso il posto.
    “Uno dei due è morto, giustiziato dalla marina,” fece presente Koala, non in tono polemico, e si limitò a indicare con un cenno della mano la foto di quello con le lentiggini.
    “Mi dispiace, ma… quelle sono le regole?”
    “Indubbiamente,” Koala tirò un lungo sospirò, pesante. “Ma non tutti i pirati sono cattive persone, e spesso se li si paragona ai governi, sono anche meglio.”
    “Non quelli che hanno rapito la mia amica.”
    “E nemmeno quelli che hanno rapito me,” aggiunse Koala, con un lieve sorriso. “Ma questo non significa nulla. Io sono stata rapita da pirati, e salvata da pirati. Ho visto entrambe le prospettive, e ti assicuro che come sempre le cose non sono come vengono mostrate.”
    “Anche tu sei stata rapita dai pirati?” si stupì allora Nina. La guardò bene in volto, cercando di coglierne le specifiche che vedeva sul volto di Inej, ma non ce n’erano. Anche esteticamente, Koala e Inej non potevano essere più diverse, eppure, pensò Nina ricordandosi di come Koala aveva steso Trek senza problemi, di sicuro hanno in comune la loro forza.
    Koala si alzò e le voltò la schiena, poi si alzò la maglietta. Nella mezza oscurità della stanza, Nina poté vedere l’enorme tatuaggio che somigliava a un sole che le occupava praticamente tutta la schiena. Ma, guardandolo meglio, Nina si accorse che non era affatto un tatuaggio, ma un marchio a fuoco che le aveva bruciato la pelle.
    “Questo è il simbolo dei pirati del sole,” disse Koala, poiché Nina rimaneva in silenzio.
    “Ti hanno marchiata a fuoco…”
    “Guarda meglio. Tocca, se vuoi.”
    Inej non amava molto essere toccata, per ovvie ragioni. Nina allungò lentamente le mani verso Koala e le sue dita tremavano mentre sfioravano per la prima volta quella carne bruciata; poi prese confidenza e iniziò a tastare meglio i bordi, finché non notò che c’erano delle parti in cui la pelle sembrava sprofondare maggiormente, come se il marchio a fuoco visibile ne avesse coperto un altro. Cercò di tastare con le mani per capire che forma avesse, ma riconobbe solo un cerchio e un piccolo triangolo, nulla che potesse ricondurre a una forma di cui si ricordava.
    “Hai un marchio che copre un altro marchio,” disse allora.
    “I Draghi Celesti marchiano sempre a fuoco i loro schiavi, con il loro simbolo, una zampa di drago,” le spiegò allora Koala, rimettendosi a posto la maglietta e voltandosi nuovamente verso di lei. “Quando Fisher Tiger, che era un uomo pesce, mise a ferro e fuoco Mariejoa per liberare tutti i suoi fratelli schiavi, anche gli schiavi umani, o di altre razze, scapparono. Anche io scappai. Avevo otto anni.”
    “Otto anni!”
    “Fisher Tiger mi portò a bordo della sua nave, di cui era il capitano. Erano tutti uomini pesce, e pirati, e mi accolsero. Questo loro simbolo io lo porto sempre con onore.”
    “Lo capisco,” disse Nina sinceramente.
    Questo mondo era diverso dal suo, c’erano molte cose che non le erano chiare, e sicuramente nel suo non aveva mai sentito di pirati che aiutavano gli schiavi, ma d’altro canto non c’erano nemmeno gli uomini pesce. Però c’erano i grisha, e c’era Ravka, che nonostante tutto era l’unico posto dove si potessero sentire al sicuro. No, niente di tutto quello era familiare a Nina, eppure poteva esserci un punto di contatto, un qualcosa.
    Chissà se Nina era stata scelta a caso, oppure no.
    “Ti devo dire una cosa.”
    Koala si risedette sulla sedia e attese.
    “Io credo di venire da un altro mondo.”
    Incredibilmente, Koala non sembrò stupita. “Non sarebbe la cosa più strana capitata nella Rotta Maggiore. E giustificherebbe meglio il comportamento di Trek. Certo sarebbe difficile ritrovare Sabo se nemmeno Trek può farlo tornare dall’altro mondo.” Poi rifletté. “Com’è la storia veramente?”
    Attese Nina che le raccontò di come funzionava quel mondo, dell’esistenza dei grisha e di come funzionavano, della guerra civile di Ravka e delle circostante che l’avevano fatta finire a Ketterdam, anche se Matthias rimase al momento solo una piccola nota a piè di pagina. Iniziò poi a narrarle di Inej, di Kaz, e degli altri, e della missione che stavano svolgendo, nascondendole solo il suo proposito di uccidere lo scienziato.
    Forse i rivoluzionari erano pronti a fare cose malvagie per il bene superiore, ma Nina non poteva ancora esserne sicura. Era pronta a dirle le circostanze vere in cui si trovava prima di essere scambiata con Sabo, ma fu interrotta dal rumore di un’esplosione che proveniva da fuori.
    Le due ragazze si guardarono, poi corsero immediatamente sul ponte principale. Hack era già in azione, difendendo la loro piccola nave dalle cannonate di un’altra nave, più grande, che si stava inesorabilmente avvicinando. Sulla punta più alta dell’albero maestro svettava chiaro, con il suo sfondo nero, un jolly roger.
    “Immagino che questi non siano i pirati buoni,” disse Nina. “Con loro che facciamo?”
    “Be’, se Sabo fosse qui,” disse Koala, con un piccolo sorriso, “direbbe che dobbiamo fargli il culo.” E poi saltò sul parapetto e da lì si diede la spinta per atterrare sul ponte dell’altra nave, come se nulla fosse. Ricordava i grisha abili di controllare il vento, ma era tutto merito suo. Hack continuò a respingere le palle di cannone, che però arrivavano in numero sempre minore.
    Nina guardava in lontananza Koala che combatteva e pensava che doveva in qualche modo aiutarla, anche se così a distanza e con così tante persone, era difficile colpirli. Allora concentrò lo sguardo su di lei, e focalizzò il battito del suo cuore, in modo da tenerlo sotto controllo affinché non sentisse la stanchezza durante la battaglia. Quando le palle di cannone terminarono, Hack si gettò in mare e nuotò velocissimo verso la nave. Nina rimase da sola sulla nave.
    Il suo unico momento di spavento fu quanto tre pirati, con le tute da sub, spuntarono da dietro spaventandola. Evidentemente avevano lasciato la loro nave prima che Koala si scatenasse, per tentare di prenderli alla sprovvista da dietro, soprattutto Hack, in modo che le cannonate colpissero la nave. Ma da quella distanza, e in numero così ristretto, per Nina era uno scherzo. Ignorò completamente le loro prese in giro e tirò un lungo sospiro per calmarsi, dopodiché si concentrò sul loro battito cardiaco. Strinse il pugno e quello di tutte e tre si bloccò immediatamente. Lei lo rilasciò immediatamente, in tempo per non ucciderli, ma comunque abbastanza per farlo battere più lentamente e per farli rendere immobili e inoffensivi.
    Troneggiò su di loro con il pugno pronto finché Koala e Hack non tornarono, e allora ci pensarono loro a cacciarli direttamente fuori dalla nave, e poi si preoccuparono di far allontanare la nave il prima possibile.
    Una volta che la nave fu al sicuro, Hack le domandò, “come hai fatto?”
    “È che sono una grisha. Una Kolporalki.”
    Spiegare che cos’era nel suo mondo a persone totalmente estranee non era cosa facile, ma apparentemente loro erano così abituati a persone con i poteri strani che una che poteva controllare lo stato del cuore di qualcuno non era poi qualcosa di così assurdo, anzi, disse a una certa Hack, “sono abbastanza sicuro che da qualche parte ci sia un frutto del diavolo con un potere simile.”
    “Di certo c’è già chi controlla gli elementi ed è in grado di modificare la materia,” aggiunse Koala. “Quindi è in effetti probabile. A meno di non voler considerare quello di Law.”
    “Cosa può dare quello di Law?”
    “Modifica e taglia i corpi umani ma senza uccidere. Ti può strappare il cuore dal petto senza ucciderti.”
    “Almeno posso ancora nuotare,” disse Nina sorridendo.
    Quello era un mondo strano, apparentemente più pericoloso di quello dove Nina viveva, ma appunto lei aveva il vantaggio di esserne totalmente estranea. Ora che anche Koala e Hack sapevano di lei, si sentiva un attimo più a suo agio, e avrebbe potuto imparare ancora di più del loro mondo senza sembrare sospetta, in maniera da poter intervenire in caso di pericolo.
    “C’è solo una cosa che mi preoccupa,” disse Nina, alla fine. Era un elefante nell’armadio che dovevano affrontare prima o poi. “Abbiamo supposto che Sabo possa tornare indietro solo scambiandosi di nuovo con me, e quindi io non posso morire, e Trek voleva uccidermi. Ma se Sabo dovesse morire nel mio mondo, nemmeno io sarei in grado di tornare indietro.”
    “Lo so che sembriamo poco preoccupati, ma Sabo è uno che se la sa cavare,” disse Hack. “Cioè, sono un po’ preoccupato perché spesso è uno scavezzacollo e spesso non ragiona quando c’è qualcosa che gli sta veramente a cuore ma non sarebbe il capo di stato maggiore della nostra organizzazione se non sapesse cosa fare in certe situazioni.”
    “È davvero molto forte,” aggiunse Koala. “E non parlo solo del suo frutto del diavolo, che gli dà l’incredibile capacità di essere intangibile, essendo fatto di fuoco.”
    “Oh, questo in effetti potrebbe essere utile,” ammise lei, dato che gli Inferno potevano sì controllare il fuoco, ma non erano certo fatti di fuoco, e non lo creavano nemmeno. “Il fatto è che la situazione in cui mi trovavo era un pochino… non dico senza speranza, ma ecco, ci andava molto vicino.”
    “Eri in una cella, vero?” si ricordò Koala.
    Nina annuì. “Ma non era una cella comune. Era una cella nelle segrete del palazzo dei Fjerdan, controllata dai druskelle, che sono letteralmente cacciatori di grisha. Non credo vedano favorevolmente uno come Sabo se davvero sa produrre fuoco. Probabilmente penseranno che si tratti di un altro tipo di grisha, o di un grisha potenziato in qualche modo.”
    “L’unica prigione che può contenere Sabo dev’essere fatta di agalmatolite,” gli fece presente Hack, “che non credo esista come materiale nel tuo mondo. Esiste nel nostro perché siamo un mondo completamente fatto d’acqua, al contrario del tuo.”
    “Sono abbastanza sicura che fosse fatta di normale metallo, ma allo stesso tempo era costruita per contenere i grisha. Magari c’è qualche trucco per cui anche Sabo non riuscirebbe a uscire da lì.”
    “In questo caso, ancora meglio,” disse Koala. “Non andrà in giro a fare danni mentre noi cerchiamo Trek per riportarlo indietro.”
    “Già, sarebbe quasi meglio così,” gli fece presente Hack. “Meno danni anche per il tuo mondo, intendo. Tanto, a detta tua, non ti avevano catturata per ucciderti, no? Probabilmente non uccideranno nemmeno Sabo, vorranno scoprire che cos’ha di speciale rispetto agli altri grisha. E nel momento in cui lo tireranno fuori da lì, sarà finita per loro.”
    “Tu sei preoccupata più per i tuoi compagni,” notò allora Koala. “Non sanno sicuramente dello scambio, potrebbero scoprirlo ma non è sicuro.”
    “Sapevamo che era difficile, ma le cose sono andate completamente male,” disse Nina, e di nuovo il pensiero le tornò a Matthias e al suo tradimento. Ma ancora non aveva la forza di dirlo ad alta voce, non voleva dare peso e forma a qualcosa a cui ancora, tutto sommato, si rifiutava di credere. “E ora sono là, dispersi chissà dove. Potrebbero essere stati uccisi nel mentre che io sono qua, potrei tornare e non ritrovarli più…” si bloccò, rendendosi conto di una cosa, “e se torno, e se Sabo è ancora in quella cella, la mia vita sarà comunque finita. Non uscirò mai più da lì.”
    “Secondo me è sicuro al cento per cento che Sabo se ne andrà con le sue gambe. Chissà, potrebbe anche aiutare i tuoi amici, conoscendolo.” Koala le prese la mano e sorrise. “Quando troveremo Trek, gli chiederemo tutte le informazioni possibili e immaginabili sul suo potere. Magari c’è un modo per capire dove si trovi Sabo prima di rimandarti indietro. Magari c’è un modo di comunicare con lui per dirgli cosa fare nel frattempo. Magari c’è un modo per mandare qualcun altro di noi ad aiutarlo, prima di effettuare lo scambio definitivo.”
    “Purtroppo le informazioni sui frutti del diavolo sono poche e scarne,” disse Hack. “Ce ne sono alcuni che sono più conosciuti, ma altri… spesso e volentieri la gente li mangia senza sapere che poteri potrebbe acquistare. È un rischio, ma che spesso paga, per questo la gente lo fa e per questo i frutti del diavolo sono ricercati e considerati merce preziosa.”
    “La maggior parte dei comandanti, che siano pirati, marine o rivoluzionari, li ha.”
    “Lindbergh potrebbe saperne qualcosa in più, ma non è certo. Glielo chiederemo. Al momento la soluzione migliore è trovare Trek, cosa che faremo non appena raggiungeremo Limdbergh.”
    Nina annuì. “C’è un’altra cosa che mi preoccupa, però.”
    “Che cosa?” domandò Koala.
    “In quel laboratorio segreto facevano esperimenti con la jurda parem. La jurda è una tipologia di droga, nulla di che, la usano spesso anche solo per sballarsi un po’. La jurda paremo è una formula rivista, differente, sugli umani normali non ha effetto, ma sui grisha… Aumenta i loro poteri in maniera esponenziale. Non ho avuto il piacere,” fece una smorfia, “di vederla in azione su un grisha, ma ne ho sentito parlare e le reazioni sono veramente straordinarie.”
    “Qualcosa mi dice che c’è un ma,” disse Hack. “Sembra troppo bello per essere vero.”
    “L’effetto dura solo finché la jurda parem è in circolo. E quando non lo è, causa una terribile assuefazione, al punto di trasformare i grisha in ombre di se stessi, specie di zombi che obbedirebbero a qualunque ordine pur di avere una dose. Sotto astinenza, poi, non avrebbero nemmeno la forza di ribellarsi.”
    “Trasformandosi in delle macchine da guerra temibili,” dedusse Koala. “Mi ricorda qualcosa…” ma non approfondì l’argomento.
    “Be’, i grisha in quelle celle erano così,” continuò Nina, “e non ho alcun dubbio che puntassero a trasformare così anche me. Credo che facciano delle iniezioni tramite gas direttamente nella cella… potrebbero farlo anche con Sabo.”
    “I poteri di Sabo sono già abbastanza forti anche senza questa jurda parem,” disse Hack. “Sinceramente ho difficoltà a immaginare una versione dei rogia ancora più potente di quanto non siano. Questo lo dico perché i poteri dei grisha che non siano Kolporalki come te mi paiono molto più limitati.”
    “Questo può essere, è che non so assolutamente come funzioni la jurda parem, o perché abbia quell’effetto sui grisha. Non abbiamo fatto in tempo a trovare lo scienziato e quindi nemmeno ad avere spiegazioni a riguardo. Magari si attacca ai poteri… e si attaccherebbe anche a Sabo, in quel caso.”
    “Be’, questo sarebbe un problema nel tentativo di contattarlo, se fosse sotto l’effetto della droga o sotto astinenza,” disse Koala, e per la prima volta da quando quella storia era iniziata Nina la vide veramente preoccupata per Sabo. “Anche se sfortunatamente non c’è molto che noi possiamo fare in questo momento, solo prenderne atto.”
    “Già.”
    “Parliamo anche di questo con Lindbergh, lui è uno scienziato, potrebbe capirci qualcosa più di noi,” terminò Hack, e con quello la conversazione terminò, ma il resto della giornata fu cupo e senza troppa allegria attorno.

    La notte non portò alcun consiglio, anzi, fu piena di incubi, la maggior parte dei quali riguardava Matthias e il suo tradimento. Nina si chiese se parlarne avrebbe potuto portare una qualche forma di giovamento, ma ne dubitava. Koala era ancora sveglia, stava compilando alcune cose su un suo diario, a quanto le aveva detto aveva l’abitudine di leggere il giornale e segnarsi le notizie che le sembravano più rilevanti, in modo da controllare quanto false fossero, quanto il governo li controllava.
    Accanto a lei, c’era appoggiata una taglia. Raffigurava un ragazzo dal sorriso furbo, un po’ arrogante, con riccioli biondi seminascosti da un cappello a cilindro e una cicatrice, che sembrava una bruciatura, che si allargava dall’occhio sinistro sulla sua faccia. Nina non aveva nemmeno bisogno di leggere il nome sulla taglia per capire che si trattava di Sabo.
    Egoisticamente, sperò che fosse davvero così forte come avevano detto, che potesse uscire da quella cella prendendo a pugni tutti i druskelle (sì, anche Matthias, magari) e salvare i suoi amici, nel qual caso Nina si sarebbe rammaricata per non essere presente a godersi lo spettacolo. Meno egoisticamente, sperò che si salvasse, che la jurda parem non avesse effetti su di lui e che sarebbero riusciti a portarlo indietro.
    Lei, Nina, alla fine era finita in una situazione migliore. Non in un posto migliore, quello dubitava esistesse.

    Arrivarono finalmente da Lindbergh, che aveva la sua base segreta nascosta sotto una grande quercia, al di sotto, in parte scavata nel suo tronco. Era una via di mezzo tra la tana di uno gnomo e il laboratorio di uno scienziato pazzo, considerando la quantità di strumentazione strana che c’era in giro, tra anche boccette che sembravano pozioni magine.
    Lindbergh stesso era un soggetto strano, più castoro che umano, anche se aveva una forma umanoide e camminava e parlava a gesticolava come un umano. Koala e Hack lo ritenevano completamente normale, e Nina aveva ormai imparato che quel mondo era così, dove nemmeno uno spostamento di universi era visto in maniera strana, per cui non fece nemmeno domande sulla strana creatura che in teoria era uno dei comandanti dell’armata rivoluzionaria.
    “Certo quello che mi avete raccontato è incredibile,” disse Lindbergh, ma non con il tono di chi è davvero sorpreso dall’avvenimento, ma con il tono di chi non si aspettava una tale distrazione dal normale corso della propria vita. “Purtroppo non ho mai sentito parlare di un frutto del genere. Probabilmente è di quelli rari, con dei poteri così strani che spesso, in passato, nemmeno il possessore si era accorto del suo potere. Succede.”
    Magari era per quello che quel mondo era così strano. Magari la gente in passato aveva fatto scambi da vari posti nell’universo, finendo per radunare in un unico posto tutte le stranezze del mondo. Nina lo pensò, ma non lo disse. Molte di quelle che lei riteneva stranezze erano la normalità.
    “Be’, era un tentativo,” disse Hack. “La cosa importante adesso è trovare Trek e rimettere a posto le cose.”
    “Questa è una cosa che si può fare facilmente,” disse Lindbergh. “Non c’è nulla che possa sfuggirmi nel South Blue. Sguinzaglierò i miei uomini che capiranno dove si è rifugiato e che rotta ha intenzione di prendere, così potrete raggiungerlo senza problemi.”
    “Grazie mille. So che eravamo qui per altri motivi ma recuperare Sabo mi sembra la priorità adesso.”
    “Indubbiamente.”
    “C’è un’altra cosa,” disse Nina. “Tu riusciresti a capire se una droga che agisce sul corpo umano dei grisha come me potrebbe funzionare anche su un possessore del frutto del diavolo?”
    “Hai la droga con te?”
    “No. Ho solo la sua versione edulcorata… di cui non so dire la differenza di composizione però.”
    “Hai qualcuno con te, o un campione di un grisha sottoposto alla droga?”
    “No.”
    “Che cos’hai allora?”
    “Me?”
    “Quindi tu vorresti che io provassi a capire gli effetti che una droga di cui non conosco alcuna componente, né gli effetti che questa ha sul corpo umano, che potrebbe avere su un possessore di un frutto del diavolo.”
    “Non c’era bisogno di essere così sarcastico,” ribatté Nina, con un piccolo broncio.
    Lindbergh ghignò. “Oh, no, non lo sono. Lo posso fare.”
    “Davvero?”
    “Non ho studiato dal miglior scienziato del mondo per niente. Ma avrò bisogno di fare delle analisi su di te, e anche vedere quel surrogato di droga che hai con te.”

    Lindbergh rispettò la parola data. Ci mise una settimana – una settimana di preoccupazioni e tormenti, per Nina, nonostante lo scienziato le avesse confermato che lo jurda parem non avrebbe avuto alcun effetto su Sabo, e che quindi le probabilità che fosse uscito da quella cella e avesse fatto macelli in giro era molt, molto alta – ma trovò la rotta adatta per intercettare Trek. Certo dovevano fare attenzione perché Trek era comunque un marine e sarebbe stato difficile beccarlo da solo come Sabo era riuscito a fare quella volta, e allo stesso modo non dovevano rischiare che usasse ancora il suo potere su di loro, però almeno avevano una via d’uscita nei sui confronti: era un punto di partenza.
    Ripartirono sulla barca con Nina che aveva in tasca due sacchettini di quelle che sembravano caramelle, una alla menta e una alla fragola, e che in realtà erano lo jurda parem e il suo antidoto. In realtà, Lindbergh le aveva chiaramente spiegato, lui non poteva avere la certezza che si trattasse dell’autentico jurda parem della sua realtà, perché non aveva avuto modo di studiarlo.
    Ma aveva studiato lei, comparandola ai possessori del frutto del diavolo, aveva studiato la jurda normale ed era uscito con una formula (che le aveva prontamente consegnato) che era ragionevolmente vicina alla realtà. E con il suo complementare antidoto.
    “Non posso garantirti che l’antidoto funzioni anche sulla jurda parem del tuo mondo,” le aveva detto Lindbergh, “ma funziona su quello che ho creato io. Quindi tu puoi prendere il mio, rinforzarti, e poi prendere l’antidoto in tempo per non avere l’assuefazione. Ed è sicuramente ragionevolmente vicino a quello che è stato creato nel tuo mondo, quindi con quella formula, gli scienziati del tuo mondo potrebbero trovare in fretta un antidoto anche a quella.”
    Nina non sapeva davvero come ringraziarlo, e più volte nel corso di quella avventura si ritrovò a pensare che non le sarebbe dispiaciuto rimanere in quel mondo, dove le persone con i poteri erano viste come importanti e assurgevano a ruoli di comando invece che essere perseguitate o sfruttate.
    Ma poi pensava a Ravka, al suo mondo, e capiva che doveva tornare, anche solo per loro, per portare la formula che Lindbergh aveva creato per lei. Le venne in mente Kaz, che probabilmente avrebbe voluto utilizzarla per farci dei soldi. Ma non stavolta: stavolta Nina avrebbe fatto del bene, e non sarebbe nemmeno stato necessario uccidere lo scienziato che aveva creato la jurda parem.
    “C’è un’ultima cosa che devo dirti,” disse Nina una sera a Koala, il giorno prima che raggiungessero l’isola dove doveva trovarsi Trek.
    “Sul tuo mondo?”
    “Su qualcosa che è capitato a me,” rispose Nina. “Su Matthias.”
    E per la prima volta da quando era arrivata in quel mondo, fece il nome di Matthias. Raccontò a Koala, che rimase ad ascoltarla senza interromperla nemmeno una volta, del fatto che era un druskelle, di come si erano incontrati in malo modo ma erano stati costretti a collaborare, e di come lui addirittura l’avesse salvata quando lei non credeva potesse cambiare. Le disse di come lei l’aveva tradito solo per salvarlo, e poi aveva lavorato sodo per tirarlo fuori, e di come Kaz l’aveva coinvolto in tutta la storia del salvataggio dello scienziato, poiché era l’unico Druskelle disponibile sulla piazza.
    E poi le raccontò di come li aveva traditi tutti, soprattutto lei, di come l’aveva guardata, di nuovo come se non fosse altro che una strega non meritevole di alcuna pietà. Per la prima volta, ammise ad alta voce quello che era successo, diventò reale, pianse.
    Koala si sedette al suo fianco, e la strinse a sé, le sue braccia sulle sue spalle. Poi, lentamente, le fece raccontare ancora la storia, una, due, tre volte, finché Nina non si ricordò di particolari che nemmeno lei credeva di sapere.
    “Forse non ti ha tradito,” disse infine Koala, e Nina sentì tutto il peso che le ricadeva sulle spalle. Era un desiderio che non aveva osato esprimere ad alta voce.
    “Cosa te lo fa pensare?” le chiese.
    “Hai detto che quell’altro druskelle ti aveva riconosciuta, giusto? Quindi non aveva bisogno che Matthias gli dicesse di te, lo sapeva già. Saresti finita in quella cella anche senza l’intervento di Matthias.”
    “E quindi?”
    “È solo un’ipotesi, ma magari Matthias ha pensato che l’unico modo di salvarti fosse fingere di essere dalla parte dell’altro, invece che di attaccarlo direttamente. Se l’avesse imbrogliato, magari avrebbe abbassato la guardia, gli avrebbe rivelato cose, e avrebbe potuto portarti fuori di lì.”
    “Però mi ha guardato con una tale faccia…”
    “Ma tu sei finita in questo mondo prima che ti dessero la jurda parem, no? Quindi non possiamo sapere se effettivamente non avrebbe agito prima che tu rischiasse veramente.” Koala si alzò: “comunque, è solo l’ipotesi, magari è vero che non ha mai smesso di essere un druskelle. Ma nel caso, credimi, probabilmente Sabo l’avrebbe già sconfitto, quindi non serve che ti preoccupi troppo per lui.”
    Nina sorrise. “Grazie,” e lo pensava veramente. Non si sentiva così leggera da un po’ di tempo.

    Avevano bisogno di un piano per portare Trek all’esterno, in una zona isolata. In quell’isola c’era una base della marina, e lui era al suo interno, ben protetto dai pericolo esterni, e sicuramente anche una qualsiasi mossa sarebbe stata preceduta da un contingente della marina prima che Trek si facesse vivo. L’unica alternativa che avevano è che vedesse Nina: di certo non poteva ucciderla di fronte ai suoi uomini, ma sarebbe venuto a cercarla, in qualche modo.
    “Te la senti?” le chiese Hack.
    “Sono un soldato, lo devo fare.”
    In loro aiuto arrivò una nave di pirati che incrociarono sul loro cammino il giorno prima di arrivare. Li sconfissero, ma presero con loro uno degli uomini, uno di quelli che aveva una taglia sulla testa, per quanto labile. Il giorno dopo, Nina, vestita di tutto punto in maniera da essere decisamente indimenticabile – cosa che le riusciva benissimo, era felice di essere di nuovo nel suo elemento – si presentò alla base della marina per consegnare l’uomo e ritirare la taglia.
    Fu un processo lungo, verboso e noioso, ma che consentì a Nina di flirtare con ogni marine che le capitasse sotto mano, in modo alla fine da attirare l’attenzione della maggior parte dei soldati presenti. Trek non fu immune da questo, e Nina lo vide passare nel corridoio, lanciando un’occhiata dentro la stanza dove lei si trovava.
    Ne vide lo sguardo prima sorpreso, poi impassibile, come a tenere sotto controllo i suoi istinti.
    “Io alloggio alla locanda Miranda,” esclamò allora Nina, con una risatella allegra, rivolgendosi al marine di fronte a lei, ma stando ben attenta a fare in modo che Trek la sentisse. “Stanza quattordici. Potete consegnarmi lì il denaro con tutta calma. O anche passarmi a trovare se volete,” e fece un piccolo occhiolino.
    Il marine arrossì e tossì leggermente. “In effetti, dobbiamo fare delle verifiche riguardo alla taglia e tutto… ma sapremo dove trovarla appena avremo risolto.”
    Nina uscì in pompa magna dalla base della marina e tornò immediatamente alla locanda, ordinò la cena in camera e si chiuse all’interno. Non aveva visto nessuno nella strada, ma sapeva che Koala e Hack stavano pattugliando la zona per controllare i movimenti di Trek. Non sarebbe uscito dalla base senza che loro lo notassero.
    Era appena passata mezzanotte quando la chiamarono: Trek era uscito in maniera molto circospetta, non in divisa ma con un mantello nero, e sicuramente stava andando nella direzione della locanda Miranda. Nina si preparò: ficcò della roba sotto il lenzuolo, come a fingere che ci fosse qualcuno che ci stava dormendo dentro, e poi si nascose nel bagno, attendendo.
    L’uomo entrò direttamente dalla porta, probabilmente aveva pagato il portiere o si era presentato come marine. Nella stanza era buio, ma Nina aveva lasciato la finestra aperta in modo che la luce le consentisse abbastanza manovre. Dentro di sé avvertì già il battito di Trek, alzò la mano e strinse il pugno. Trek ebbe un mancamento, annaspò e poi cadde a terra.
    Nina non uscì dal suo nascondiglio, ma parlò, con voce chiara e decisa, “il tuo cuore è nelle mie mani, posso chiedergli di fermarsi immediatamente e lo farebbe. Ma non voglio farlo. Non ancora, non se risponderai alle mie domande.”
    Trek annaspò ancora, il battito che gli stava tornando ma non abbastanza per farlo riprendere.
    “Hai mandato Sabo in un altro mondo, vero?”
    “S-sì…”
    “Puoi riportarlo indietro?”
    “S-sì… se lo scambio di nuovo… con la persona… con cui l’ho scambiato…”
    “Puoi vedere dove si trova? Puoi comunicare con lui?”
    “N-no… posso solo scambiarli di posto… non posso nemmeno decidere con chi, sceglie da solo… so solo che scambia in qualche modo…” E poi, quando Nina gli strizzò il cuore un po’ più forte, “non sto mentendo, lo giuro!”
    Nina voleva solo esserne sicura: Lindbergh le aveva detto che a volte nemmeno i possessori sapevano bene come funzionava la situazione, e lei non aveva motivo di pensare che Trek mentisse, non in quella situazione. Non aveva altra scelta, doveva tornare senza sapere in che situazione di sarebbe trovata. Sabo meritava di tornare a casa, e lei già sapeva che stava compiendo un’impresa che le sarebbe costata la vita nel momento in cui aveva accettato di entrare nella fortezza dei Fjerdan.
    Era un rischio calcolato. Ma se fosse sopravvissuta, avrebbe portato con sé la soluzione allo jurda parem.
    “Ascoltami bene,” disse, uscendo dal bagno sempre con il pugno alzato. “Il tuo cuore sta smettendo di battere. E smetterà di battere nei prossimi cinque minuti, se qualcuno non ti rianima. Ma ci sono i miei amici, qui,” Nina poteva avvertire i battiti di Koala e Hack al di fuori della porta, “che ti potranno aiutare. Ma solo se, nei prossimi cinque minuti, Sabo sarà qui al posto mio. Siamo d’accordo?”
    “Come faccio a fidarmi?” ansimò lui.
    “Non puoi,” rispose Nina, “ma i cinque minuti passeranno lo stesso.”
    Trek era ormai accasciato al suolo, si prese comunque un attimo per riflettere e riuscì persino a scoccarle un’occhiata carica d’odio. “Devi essere più vicina, e io devo poter stare in piedi per aprire la porta per lo scambio.”
    A quel punto, gli altri due entrarono. Hack tirò su malamente Trek, Nina tenne ancora di più la presa sul suo cuore, ma Trek non sembrava voler contrattaccare, quindi Nina si avvicinò. Alzò debolmente la mano e fece un gesto, come a disegnare un’invisibile porta.
    Un secondo dopo, Nina si trovo immersa nell’acqua ghiacciata. Non si aspettava un tale cambiamento improvviso, nonostante l’avesse già vissuto una volta, e all’inizio stava ancora respirando, l’acqua che e le entrava appieno nei polmoni. Rilasciò il pugno e annaspò, cercando aria, cercando di nuotare ma finendo per affondare sempre di più.
    Di certo era proprio un modo indegno di morire, e si ricordò che Sabo anche non poteva nuotare. Spero che l’avessero riportato nell’altro mondo appena in tempo.
    Poi due braccia forti la presero da dietro, la trascinarono su e la spinsero sulla banchina. Nina tossì, si spinse il corpo per espellere tutta l’acqua e poi respirò a pieni polmoni. Era completamente zuppa, faceva freddo di nuovo, ma riconobbe immediatamente dove si trovava. Non erano più all’interno della terribile corte di Fjerda, ma di nuovo nelle familiari, per quanto pericolose, strade di Ketterdam.
    Quindi Sabo ce l’aveva fatta? Li aveva portati tutti in salvo?
    “Nina…” disse una voce dietro di lei, e il suo cuore prese a battere all’impazzata. Si voltò e Matthias era dietro di lei, completamente zuppo con i capelli biondi che gli si appiccicavano alla fronte. La sua espressione era strana, un misto di incredulità, sollievo, ammirazione. La abbracciò improvvisamente, e fu così sorprendente che Nina non si sottrasse. Era una presa calda, e lei vi affondò dentro.
    “Sabo aveva detto che i suoi amici dell’altro mondo ti avrebbero riportata indietro in qualche modo, ma io non sapevo se crederci, e quando te n’eri andata...”
    “Matthias,” disse lei, con più compostezza di quanta ne avesse, “tu non mi hai tradita, vero?”
    “No, non l’ho fatto. Gli ho mentito perché mi desse accesso all’area, l’avrei fermato prima ma poi tu sei scomparsa e Sabo è apparso e…”
    “Shh, non dire più niente,” e si concesse ancora qualche attimo nel suo abbraccio, prima di divincolarsi e dire, “gli altri?”
    Matthias fece una smorfia. “Ancora vivi, per ora, ma le cose non vanno bene. Abbiamo trovato Bo, che però è solo un ragazzino, non ho avuto il coraggio di ucciderlo, mi dispiace.”
    “Va bene così,” disse lei.
    “Sabo ci ha dato una grossa mano a scappare da Fjerda, ma nemmeno lui è riuscito a convincere Kaz a non consegnare Bo a Van Eck, che però ci ha tradito e adesso ci ha praticamente rivoltato contro tutta Ketterdam, mercanti e criminali assieme. Senza contare naturalmente che gli eserciti di mezzo continente si sono ritrovati qui, gli shun stanno rapendo grisha impunemente e i Fjerda sono qui al completo…”
    Nina prese un sospirò e usò i suoi poter per calmarsi. Si toccò il lato del vestito, la cintura dove aveva appese le sacche con la jurda parem e il suo antidoto. Erano ancora lì, non si erano perse nel tragitto da un mondo all’altro.
    “E da Ravka?”
    “Credo che siano qui anche loro, ma si tengono alla larga dalla confusione perché sono deboli, in tante maniere. Credo che Kaz abbia un piano, lo ha sempre, ma per ora sta funzionando poco. E adesso abbiamo perso anche Sabo… che aveva un potere che ci ha salvato più volte,” ammise Matthias. “Ti sarebbe piaciuto.”
    “Lo credo anche io,” disse Nina, “ma anche se non possiamo contare più su di lui, la gita nel suo mondo è stata utile. Gli altri sono al sicuro?”
    “Penso di sì, siamo scappati tutti in direzioni diverse… abbiamo una base che è ancora segreta, per ora. Ti ci porto.”
    “No,” lei scosse la testa. “Dopo. Prima dobbiamo andare dai Ravka. In questo momento, sono i grisha quelli che hanno più bisogno d’aiuto, e io posso darglielo. Se portiamo i Ravka dalla nostra parte, potremo aiutare anche Kaz e gli altri. Sono sicura che Kaz avrà un piano per ottenere qualcosa da Van Eck o dai mercanti, ma al momento io devo proteggere la mia gente.”
    “Ti capisco.”
    Pensò a Inej, e al suo sogno, e a Jesper con i suoi debiti e a Wylan che voleva staccarsi dal padre. Li avrebbe aiutati tutti, in un modo o nell’altro, magari Kaz avrebbe elaborato un nuovo piano per guadagnarci dalla situazione imprevista che Nina aveva portato con sé.
    Ma forse Nina era stata un po’ troppo coi rivoluzionari dell’altro mondo, e adesso doveva fare la cosa giusta.
    Nina gli prese la mano. “Vieni con me?”
    “Sempre.”
  6. .
    L’immagine che lo specchio gli restituiva era sempre la stessa da ormai sessant’anni, da quel momento in cui si era svegliato dalla capsula al suono della voce di Keith era rimasta sempre la stessa, quel viso comunque un po’ invecchiato dall’età ma non così tanto, non così da poter veramente indicare che, secondo gli standard terrestri, era un anziano con un piede nella fossa.
    All’inizio non ci aveva fatto così caso – i capelli bianchi lo rendevano quasi un anziano precoce rispetto ai suoi coetanei ancora con la chioma fulva – ma anno dopo anno divenne sempre più evidente. La cosa che gli diede la certezza definitiva era l’incontro annuale con i paladini. Alcuni di loro Shiro li vedeva solo in quell’occasione, e di anno in anno si vedeva che loro invecchiavano: era un po’ il modo in cui la pelle era meno tirata, più molla, gli occhi più appannati, la camminata stanca, i capelli che si ingrigivano.
    Shiro si guardava allo specchio e non riusciva a notare gli stessi cambiamenti.
    Era stato ancora più difficile notarlo con Curtis, che era al suo fianco ogni singolo giorno, ma alla fine la differenza nel loro modo di invecchiare era diventata sempre più chiara, e la cosa era peggiorata con figli, nipoti e bisnipoti. Se adesso Shiro guardava i loro album, il modo in cui tutti cambiavano tranne Shiro era ancora più evidente.
    (Prima o poi penseranno che io abbia fatto un matrimonio con un toy boy, e che tu abbia fatto un matrimonio d’interesse con un vecchio militare in pensione)
    Era stato divertente allora, adesso che Curtis era morto dopo essersi praticamente spento a fianco di Shiro, iniziando a perdere la memoria, a riesumare un passato che non c’era e a diventare l’ombra di se stesso, molto meno.
    L’unica differenza, come tutto nella vita di Shiro, era stato ovviamente Keith. Con l’età era diventato più alto, e anche più muscoloso, assumendo una fisionomia del corpo più simile a quella di un Galra, ma a livello di età non era invecchiato. I capelli erano rimasti soffici e neri, gli occhi vispi, e nessuna ruga sul suo viso di porcellana.
    (Sono i geni Galra. Probabilmente non vivrò a lungo come loro, ma considerando le due differenze lunghezze, per loro a sessant’anni è come se fossi a malapena adolescente. E va bene, eh, almeno i miei colleghi nelle Lame non mi vedranno invecchiare come sta invece succedendo a noi.
    Pensi che invecchieremo assieme?
    Abbiamo appena stabilito che né io né tu possiamo invecchiare.
    Intendo in futuro.
    Keith era rimasto in silenzio, e Shiro si era reso conto che sembrava quasi una proposta. Non gliel’aveva fatta allora, non era giusto che gliela facesse ora)
    Con un sospiro, Shiro lasciò perdere lo specchio e finì di sistemarsi la giacca. Sarah si era già occupata di tutto, anche di parlare con le pompe funebri, di preparare Curtis per la cerimonia finale. Probabilmente stavano finendo di caricare la bara in macchina in quel momento. Shiro temeva il momento in cui sarebbero stati in chiesa a celebrarlo, in cui i pochi amici ancora in vita avrebbero guardato a Shiro con quel misto di ammirazione e ribrezzo a cui era ormai abituato.
    (Io non piaccio agli amici di Curtis.
    Sono sicuro che non è vero, tu piaci a tutti.
    Una volta, forse, adesso ho perso del tutto il mio fascino. Saranno i capelli bianchi.
    Aveva riso, ma Keith no, come sempre.
    Se non gli piaci non ti meritano.
    Shiro non glielo disse, ma invidiava i rapporti che lui aveva stabilito all’interno delle Lame, quando lui a malapena conosceva i nomi delle persone che frequentavano il club di golf)
    “Nonno,” chiamò la voce di sua nipote Claudia alla porta. “Siamo pronti a partire.”
    “Arrivo.”
    Ignorando lo specchio un’ultima volta, uscì e venne accolto da un sorriso freddo di Claudia: aveva trentacinque anni, e ne dimostrava qualcuno di più. Al suo fianco, Shiro sembrava più giovane. E andava ancora peggio con sua figlia Sarah, che ormai di anni ne aveva sessantotto. Erano già in macchina, con i mariti di entrambe, che l’avevano sempre trattato con soggezione.
    (Non pensavo fosse così complicato essere padre.
    Mi risulta difficile crederlo, sei sempre stato bravo coi ragazzini. Soprattutto quelli difficili, tipo me.
    Forse sono troppo gay per occuparmi di una figlia femmina.
    Non dovrebbe essere il contrario?
    Così pensavo. Ma forse sono proprio io, Curtis è ottimo. È molto più figlia sua che mia.
    Mi dispiace, non posso aiutarti. Io non so come sia crescere con due parenti.
    Non volevo intristirti.
    Non l’hai fatto, sono io che non posso aiutarti in questo campo.
    Non hai intenzione di avere figli?
    Chissà, magari un giorno… c’è tempo. Vedo tanti bambini che hanno bisogno di una famiglia ogni giorno, ma non posso adottarli tutti io. In un certo senso, però, è come se lo facessi quando li aiuto a trovare una famiglia.
    Secondo me un giorno ne incontrerai uno e saprai che la famiglia giusta sei tu.
    Forse… Mi piacerebbe una figlia femmina. Vorrei chiamarla Calypso.
    Shiro non gli aveva mai rivelato che anche lui avrebbe voluto chiamarla così, ma Curtis aveva insistito per un nome più normale perché già essere figlia di Takashi Shirogane sarebbe stato pensante.
    Lì, nella tranquillità del pianeta Daibazaal, Shiro si era lasciato ad immaginarsi come sarebbe potuto essere Keith come padre)
    Apparentemente, l’unico felice della sua presenza era il figlio di Claudia, Roy, un quindicenne che lo accolse con un grosso sorriso.
    “È tua quella hoverbike parcheggiata fuori?” commentò, quando raggiunsero l’ingresso della chiesa. Si riferiva a un’hoverbike parcheggiata fuori, rossa fiammante, un ultimo modello che non era chiaramente di fabbricazione terrestre.
    “Credo sia dello zio Keith,” rispose Claudia.
    “Cosmico. Pensi che mi farà fare un giro, dopo?”
    “Non farai nessun giro in hoverbike il giorno del funerale del nonno,” ribatté Claudia secca.
    Sarah si avvicinò un po’ di più a Shiro e gli sibilò, “hai invitato Keith al funerale?” Aveva smesso di chiamarlo zio da anni ormai.
    (Che cosa c’è?
    Curtis è morto. Lo so che era ormai una questione di mesi, ma comunque…
    Mi dispiace tantissimo, Shiro.
    Grazie. Volevo dirtelo per primo… non sembrava reale prima di dirtelo.
    Vengo subito.
    No, no, Keith, non è necessario. So che sei impegnato…
    Posso prendermi un paio di giorni. Quand’è il funerale?)
    “Dovevo pur dirgli della morte di Curtis,” rispose Shiro. “Ed è il mio migliore amico, per cui ha voluto venire al funerale. Lo conosco da una vita, e anche tu. Ti ha tenuto sulle gambe quand’eri neonata.”
    Sarah sbuffò. “A volte penso che avresti preferito che fosse lui mio padre invece che papà.”
    “Non dire sciocchezze.” E si trattenne solo per un attimo dal risponderle: sei tu che non vuoi essere più figlia mia.
    (Sarah ha chiesto di poter cambiare nome all’anagrafe.
    Perché?
    Dice che il cognome Shirogane è troppo pesante, tutti si aspettano troppo da lei e lei non lo sopporta. Ha tenuto solo quello di Curtis. Forse è meglio così, per tutti.
    Mi dispiace, è colpa mia.
    Perché mai dovrebbe essere colpa tua?
    A quella domanda, Keith non aveva mai risposto)
    Il funerale non era molto affollato. C’era qualche amico di Curtis, quelli che passavano da lui spesso il fine settimana, e molti amici di Sarah che erano venuti per lei, qualcuno di Claudia, nessuno per Roy, che si era accomodato sbuffando nell’ultima panca della chiesa. Shiro ringraziò assente chiunque per le condoglianze, ma per la maggior parte lo lasciavano stare, preferendo chiacchierare fra di loro o con Sarah e Claudia e i rispettivi mariti.
    I paladini non c’erano. Pidge e Hunk erano stati i primi a lasciarci, a poca distanza l’uno dall’altra, colpa del lavoro pesante che facevano. Matt viveva lontano, e non sarebbe arrivato in tempo, e altri come gli ormai non più MFEs erano persone con cui aveva perso i contatti da anni. Lance era ancora vivo, ma bloccato a letto delirante: a quanto pare, il potere da alteano che gli aveva passato Allura non serviva a lasciarlo giovane, anzi, gli aveva invecchiato precocemente la mente. Coran lo vegliava giorno e notte, dopotutto erano rimasti loro due.
    Allura era ancora una ferita aperta. Se fosse viva, sarebbe stata nel novero di quelli che non invecchiavano mai. I tre leader, insieme ancora una volta.
    (Siamo ancora in tempo per trovarla.
    Credi che sia una buona idea? È passato così tanto tempo… per lei sarebbe come riviverle il suo risveglio un’ulteriore volta.
    Non è stato giusto. Avevamo promesso di uscirne tutti assieme. E poi ci siamo arresi.
    Tu non ti sei mai arreso.
    Invece sì. Sapevo che non avevo speranza di trovarla da solo, ma non sono stato abbastanza forte da convincere voi ad aiutarmi.
    Rimpianti, ancora rimpianti. Shiro si chiese quando aveva smesso di vivere solo di rimorsi, di cose che aveva fatto a dispetto di qualunque cosa.)
    C’era una piccola delegazione della Garrison, per pro forma, dato che Curtis non era più un loro dipendente da anni; o forse erano lì per Claudia e Sarah. Ogni tanto si dimenticava che sia Sarah sia Claudia erano andate alla Garrison, ed era proprio lì che avevano conosciuto i loro mariti. Il fatto è che nessuno di loro ne era uscito diplomandosi con i voti necessari per entrare nella gerarchia, e alla fine tutti loro avevano accettato blandi, grigi lavori impiegatizi. Nessuno di loro aveva mai volato per davvero.
    (I voti di Sarah alla Garrison non sono buoni. Credo che sia stato un errore mandarla lì.
    Era stata una delle poche decisioni su cui Curtis si era voluto impuntare, nonostante Shiro dicesse che non era poi così importante che seguisse le loro orme.
    Forse sono i professori che pretendono troppo da lei, perché è tua figlia.
    Sicuramente lei lo vive molto male. Ogni tanto penso che se non mi fossi dimesso per lei sarebbe stato anche peggio, i cadetti mi avrebbero visto tutti i giorni e l’avrebbero additata ancora di più.
    Perché lo pensi?
    Perché facevano la stessa cosa con te, quando era il mio studente. Tu non te ne sei mai accorto perché vivevi diritto come la traiettoria di un pianeta, ma c’erano tantissime voci su di noi.
    Keith l’aveva guardato fisso negli occhi.
    Le sapevo, quelle voci, ed erano disgustose. Ma io non ero tuo figlio.
    Ed eri talentuoso, più di quanto Sarah lo sarà mai. Quindi per lei sarebbe stato peggio.
    No, non lo sarebbe stato.
    Anni dopo, al matrimonio di Sarah, Keith aveva reiterato il concetto quando si era accorto che nessuno degli invitati era non terrestre, a parte Coran, Lance – se tale lo si voleva considerare – e Keith, tutti invitati per Shiro e non certo per Sarah.
    Sai, non si è mai mossa dalla Terra, a parte quei viaggi che abbiamo fatto a Daibazaal. Volevo mandarla alll’accademia della Coalizione, ma Curtis aveva preferito la Garrison, ma be’, poi è andata com’è andata. Meglio che se fossi rimasto Ammiraglio.
    Se fossi rimasto Ammiraglio, quest’ora Sarah sarebbe cresciuta a bordo dell’Atlas, visitando pianeta in pianeta, e sarebbe venuta in contatto con mondi nuovi e diversi. Forse non sarebbe mai diventata la pilota migliore del mondo, ma di certo non sarebbe stata grigia e chiusa di mente come adesso.
    Era la prima volta che criticava la figlia di Shiro, nonostante i rapporti si fossero raffreddati di recente, e così aspramente. Ma Keith era sempre rimasto così, schietto come sempre. Allora Shiro aveva sorriso, guardando Sarah col vestito bianco, e aveva sospirato. Shiro non aveva la forza di difenderla, non quando aveva chiaramente scelto, senza nemmeno un’oncia di rimorso, che fosse solo Curtis ad accompagnarla all’altare.
    Tua figlia verrà su meglio.
    Ed avrebbe potuto essere la loro figlia)
    Keith era proprio lì, con la sua solita divisa da Lama, e scambiava due parole con uno degli ufficiali, sicuramente qualcosa di lavoro. Ma interruppe bruscamente la conversazione, quando vide Shiro avvicinarsi. Si alzò in piedi e gli riservò un sorriso dolce prima di abbracciarlo.
    “Mi dispiace moltissimo,” gli disse.
    “Grazie per essere venuto.”
    “Non avrei potuto mancare.”
    Erano circa sei mesi che non si vedevano, Curtis era già malato all’epoca ma Shiro si era preso un paio di giorni per raggiungere Keith su Nuova Altea per una conferenza che stava tenendo. Keith non visitava la Terra ormai da anni, e aveva contatti con la Garrison solo via video saltuariamente.
    (Da quando è morta Pidge, non ho altri legami qui.
    Ehi, e io?
    Tu sei un mio legame per tutto l’universo.)
    “Ciao, Keith.” Sarah si era avvicinata e lo salutò fredda.
    Ci mise un attimo a riconoscerla, Shiro gli aveva mandato delle fotografie ma praticamente non si erano più visti da quando Claudia si era sposata; un altro evento dove era stato invitato più per Shiro che per altro.
    “Ti trovo bene. Mi dispiace per la tua perdita.”
    “Grazie.”
    Si scambiarono un abbraccio altrettanto freddo. Poi Sarah lo reintrodusse a suo marito, a suo genero e anche alla stessa figlia Claudia, dicendogli un secco, “non so se ti ricordi…” come se fosse stato Keith a lasciarli fuori dalla sua vita e non il contrario. Shiro fu sul punto di puntualizzarlo, ma poi lasciò perdere, non voleva litigare proprio al funerale di Curtis.
    L’arrivo di Keith fu l’unica cosa che scosse Roy dalla sua apatia. “Zio Keith!” lo salutò con entusiasmo, anche se non l’aveva mai visto. “Senza offesa, eh, ma tu sei lo zio più figo di tutti, non posso credere finalmente di beccarti. Sai, ho letto tutto di te.”
    Keith si schernì un poco. “Tutte brutte cose, immagino.”
    “Seeeh,” fischiò Roy. “Alla Garrison hanno ancora tutti i tuoi record, lo so, li ho visti una volta. Tu e il nonno siete tipo delle figure mitologiche lì, è fantastico. E poi sei mezzo Galra, vero? Io di alieni non ne ho incontrato mezzo, ma mi piacerebbe, sai, mi sono scaricato un documentario sulla guerra e cavoli se mi sarebbe piaciuto guidare uno di quei leoni. E poi-”
    Fu Sarah a interrompere quel monologo, con un sibilo. “Ti sembra il momento, al funerale di tuo nonno?”
    “Il nonno era una noia mortale. Ha rovinato il nonno, alla Garrison lo pensano tutti.”
    Gli occhi di Sarah brillarono di rabbia e Shiro pensò fosse sul punto di tirare uno schiaffo a Roy, ma poi non lo fece. Con uno sguardo quasi di sfida, disse, “il matrimonio è quello che ha salvato il nonno. Tu non sai com’era una volta.”
    Per tutta risposta, Roy si volto verso Keith e disse, “è vero?”
    Tutti gli sguardi furono su Keith, ma fu Shiro a intervenire, e stavolta fu lui a dire, “vi pare il momento, a tutti, adesso?” E quello sembrò funzionare soprattutto su Sarah, che scosse la testa e si allontanò dal gruppo con una scusa leggera.
    “Il prete è arrivato, credo dovreste tutti prepararvi.”
    Roy ne approfittò immediatamente. “A proposito, è tua quella hoverbike? Mi fai fare un giro? Va bene anche se guidi tu.”
    “Adesso basta,” disse Claudia. “Ne abbiamo già parlato. Andiamo a sederci.”
    E mentre la famiglia si allontanava per prendere posto nelle prime posizioni, Roy si trattenne ancora un secondo, e disse piano, non troppo perché Shiro non potesse sentirlo, “è vero o no?”
    Shiro non si aspettava che Keith rispondesse, invece sentì la sua voce chiara: “No, non è vero.”
    (Credevo scherzassi quanto mi hai detto che ti ritiravi.
    Lo so, non è da me. Ma diciamo che non avrei mai pensato di superare i trent’anni, e di non essere più in grado di pilotare dopo i venticinque. Adesso ho la possibilità di avere una nuova vita, e magari di prendermi qualcosa che non pensavo avrei potuto avere. E poi, diciamolo, non credi che io abbia vissuto abbastanza vite, con tutto quello che mi è capitato?
    Io non ti ho salvato perché ti rovinassi così.
    Shiro ci era rimasto male – si sposava con una persona buona a cui voleva bene, voleva vivere una vita felice, avere dei figli, magari dei cani e gatti. Era la prima volta che Keith gli rinfacciava il fatto di averlo salvato, e a Shiro non era piaciuto. Lo ripagò con la stessa moneta.
    Allora forse non avresti dovuto rubarmi Black e il posto da leader di Voltron.
    Probabilmente no. Ma io non posso più farci niente, tu invece sei ancora in tempo.
    In un attimo di timore, Shiro temeva che la loro amicizia sarebbe finita in quel momento, nel momento in cui Shiro aveva rivelato alcuni suoi pensieri segreti, ma non quelli che forse avrebbero cambiato il corso della sua vita, e Keith aveva fatto trapelare tutta la sua irritazione.
    Invece Keith gli aveva scritto il giorno dopo, si era offerto di dargli una mano a trasferirsi, a patto che lo avvertisse per tempo, e Shiro lo aveva candidamente accettato di nuovo nella sua vita)
    Il funerale fu una cerimonia intima, molto bella. Sarah tenne un discorso molto sentito sul padre, facendo riferimento al fatto di essere stata adottata, ma proprio per questo si era sentita ancora più amata. Quand’era bambina il padre lavorava ancora, ed era un piacere vederlo tornare a casa e rivolgerle il sorriso più ampio che avesse, solo per lei. Ricordò le vacanze che avevano fatto assieme loro due quando Shiro era via per la visita annuale ad Allura (e con malizia Shiro pensò che era una frecciata a lui stesso), il giorno del matrimonio e la nascita della figlia.
    Adesso sono rimasta sola, concluse il discorso. Sono vecchia, sono io la capofamiglia, eppure mi sento ancora bambina in questo momento, e avrei bisogno di mio padre. Ma so che continuerà a vegliare su di me da lassù.
    Si era anche premurata di non lasciare uno spot disponibile per Shiro, non l’avrebbe fatto parlare al funerale di suo marito. È imbarazzante che sembri così giovane, gli aveva detto, e poi aveva fatto un commento durante il discorso in cui diceva che era troppo preso per poter parlare, ma che ringraziava tutti i presenti.
    Shiro si sentì defraudato del suo stesso matrimonio. Keith, che era tornato a sedersi su una delle ultime panche, aveva uno sguardo serio sul viso, ma Shiro riconobbe la leggera irritazione dal modo in cui stringeva le braccia.
    Quando le cose tra Shiro e Sarah avevano iniziato ad andare così male?
    (Eh, niente, ero veramente commosso, manco l’avessi partorita io. Tre chili e mezzo di puro amore, un parto facilissimo.
    Sono contento per te, nonnino.
    Mamma mia, non dirmelo, ancora non posso crederci che è successo. Mi sento ancora così giovane.
    Per me tu giovane non lo sei mai stato, old timer.
    Ah ah, divertente. Ma dimmi, riesci a passare uno di questi giorni? Appena hai finito la missione.
    Non sono sicuro che a Sarah faccia piacere.
    Ma dai, perché? Lo so che ultimamente vi siete un po’ persi di vista, ma…
    Tu chiediglielo. Se vuole vengo a conoscere tua nipote, altrimenti no.
    Shiro l’aveva chiesto a Sarah, che era sembrata quasi infastidita dalla cosa. Alla fine, Keith non era mai venuto, e Claudia l’aveva conosciuta solo molto più avanti, quando era troppo tardi).
    Dalla chiesa andarono al cimitero, a seppellire la bara. A quel punto sia Claudia sia Sarah singhiozzavano visibilmente. Shiro era al loro fianco, immobile. Era certo che avrebbe sentito la mancanza di Curtis, c’era come un vuoto dentro di sé che non riusciva a spiegarsi, ma allo stesso tempo non era abbastanza triste da piangere. Forse perché era abituato alla perdita, si era indurito con gli anni. O forse, speranzosamente, gli sarebbe arrivata la botta dopo, tutta assieme.
    Keith era rimasto per tutto il tempo in disparte, ben lontano dalla famiglia ma anche da qualsiasi gruppo del funerale. Una volta che la gente iniziò a disperdersi, con gli ultimi saluti e le ultime condoglianze ormai poco sentite, si avvicinò e mise una mano sulla spalla di Shiro.
    “Ti accompagno a casa?”
    Shiro annuì. “Volentieri. Tu devi ripartire subito?”
    “Posso fermarmi qualche giorno, non è un problema. Davvero,” aggiunse, con uno sguardo eloquente, impedendo a Shiro di protestare.
    Non lo fece. Non voleva tornare nella casa vuota. “Grazie.”
    “Starai da papà, Keith?” domandò Sarah.
    Invece di rispondere, Keith si voltò verso Shiro, che disse, “se vuoi, certamente.”
    “Pensavamo di stare noi un po’ con te, papà,” disse allora Sarah, rivolgendosi unicamente a Shiro. “Ma evidentemente, come sempre, hai di meglio da fare.”
    “Non è che la presenza di Keith vi impedisca di venire,” le fece presente Shiro gentilmente.
    “Invece sì.” E se ne andò, ricongiungendosi con la sua famiglia. La vide agitarsi mentre parlava con suo marito, e poi Claudia tirò uno schiaffo a Roy e lo trascinò via. Non passarono nemmeno a salutare Shiro, e lui pensò che, ora che Curtis era morto, non aveva davvero nessun legame con la sua famiglia.
    “Lo rovineranno, quel ragazzo,” commentò Keith, ed era strano che si lasciasse andare a commenti del genere. Come quello di prima.
    “Così come Curtis ha rovinato me?”
    Non si aspettava che l’avesse sentito, e la sorpresa fu chiara sul suo volto, ma poi non disse nientr’altro, solo annuì. “Sono sicuro che pensasse di agire per il tuo bene, ma è così.”
    (A te Curtis non piace.
    Non è vero.
    Stasera hai parlato solo con me.
    Ho giocato anche con Sarah.
    Ignorando Curtis quando lei cercava di parlarle.
    Uno sbuffo seccato.
    Non è che Curtis non mi piaccia… è okay. Solo che non ho niente in comune con lui.
    È mio marito.
    Non ha niente in comune nemmeno con te infatti.)
    Alla fine ritornarono a casa silenziosamente, con la hoverbike di Keith, Shiro che stava dietro e si aggrappava a lui, e mentre il vento gli passava tra i capelli, rimpianse le corse che si facevano quand’erano più giovani e più liberi.
    Era il giorno del funerale di suo marito, e non voleva essere arrabbiato anche con Keith. Quindi, quando parcheggiarono davanti a casa di Shiro e scesero, Keith con il suo zaino sulle spalle, disse, “ti chiedo scusa io per il comportamento di Sarah. Sai che era molto affezionata a Curtis, più che a me alla fine, forse non è mai riuscita a smettere di vedermi come l’eroe che tutti attorno a lei consideravano. È un po’ fuori di testa per questo.”
    “Non è così.” Keith scosse la testa. “Sono anni che Sarah mi odia, so anche il momento esatto in cui ha iniziato. Ho cercato di essere civile perché è tua figlia, ma francamente, non so se me la sento ancora di esserlo dopo tutto quello che ti ha fatto. La realtà è che sono sempre stati la famiglia di Curtis, non la tua.”
    “Sono sicuro che non è così,” rispose Shiro. “Certo Curtis aveva legato con lei in una maniera che non mi è mai riuscita, ma è pur sempre mia figlia.”
    “Nemmeno più di nome ormai,” puntualizzò Keith. “Shiro, lo sai che ti voglio bene e farei qualsiasi cosa per te, e per questa ragione non mi sono mai intromesso negli affari fra te e Curtis, ma lui ti ha plasmato come voleva, e tu l’hai lasciato fare perché era quello che pensavi fosse necessario. Adesso però Curtis è morto. Non voglio davvero ballare sulla sua tomba, è stato una persona molto importante per te, ma adesso hai la possibilità di andare avanti.”
    Tutte quelle frasi gli sembrarono ingiuste, e ancora di più nei confronti di un morto. Dentro di sé Shiro si rammaricava perché, se era davvero tutto ciò che pensava, avrebbe dovuto dirglielo prima. Avrebbe dovuto dirglielo prima che si sposasse, prima che adottassero Sarah, prima che fosse troppo tardi.
    Invece se n’era andato. Si era preso la leadership di Voltron, si era preso il compito di riunire i Galra, e Shiro era rimasto indietro, a ricostruire i cocci della sua vita che lui aveva salvato. Non gliel’aveva chiesto, a dirla tutta.
    Invece disse, “non è vero, quelle tra me e Curtis sono stati compromessi. Si fa così, nel matrimonio.”
    Keith non rispose finché non furono in casa.
    “Chi ha deciso quando e dove sposarvi? Chi ha deciso che era meglio se ti ritiravi per fare terapia? Chi ha deciso dove andare ad abitare? Chi ha deciso di adottare Sarah, e di chiamarla così? Guarda caso, Claudia ha il nome della sorella di Curtis, non di qualcuno legato a te. E Roy anche.” Agitò il braccio per indicare la casa attorno a sé. “Guarda questa casa. C’è qualcosa di tuo qui? Di quello che tu sei sempre stato?”
    “Perché mi dici queste cose adesso?” chiese infine Shiro. “Mio marito è appena morto, e tu mi stai dicendo che ho buttato la mia vita. Non è giusto.”
    Si sentì tremare, ma non era la rabbia, e nemmeno la tristezza. Era una sensazione, quella, orgogliosa, di voler aver ragione a tutti i costi. Ma dovunque si girava, vedeva l’impronta di Curtis, di quello che lui era, di come si era preso Shiro quasi come un marito trofeo e di come Shiro gliel’aveva lasciato fare perché, per una volta, voleva qualcosa di tranquillo, comprensibile. Curtis lo era, era facile.
    Keith non era mai stato nulla di tutto ciò. Per diventare suo amico aveva dovuto scavalcare dei muri quasi invalicabili, e aprire i suoi a lui. Keith era difficile, era pericoloso. Eppure, a vederlo adesso, riusciva a immaginarsi tutta un’altra vita, una vita in cui non era bloccato sulla terra con una famiglia, in una casa col giardino e i vicini normali (il cane era morto un paio di anni prima).
    No, la vita con Keith sarebbe stata nomade, a dormire nel freddo del pavimento della nave che Keith chiamava casa, o all’addiaccio su qualche pianeta, e i loro vicini sarebbero stati alieni, blu, rossi, verdi, persone diverse. E lui non sarebbe stato Takashi Shirogane, salvatore della Terra, marito e padre devoto, ma solo Shiro il pilota, l’esploratore.
    Era una vita che aveva sempre avuto paura di affrontare, proprio lui, perché significava andare oltre quello che Keith rappresentava e che gli aveva sempre dato.
    “No, no, Shiro, non stavo dicendo questo.” Ora Keith lo stava abbracciando stretto, gli stava trasmettendo il suo calore, e lentamente il tremore cessò. Keith lo trascinò a sedere sul divano. “Sicuramente sei stato felice con Curtis, e con Sarah, e con Claudia. Ma loro hanno preso la loro strada, hanno preso le loro decisioni. Tu sei ancora libero di decidere che cosa vuoi.”
    “Vorrei te,” ammise Shiro. “Fare quello che fai tu.”
    La sorpresa venne sostituita subito dalla tristezza. “Non è una buona idea essere me, Shiro. È colpa mia se il tuo rapporto con Sarah è rovinato, e probabilmente Curtis era troppo innamorato perché rovinassi anche il tuo rapporto con lui.”
    “Ma che stai dicendo…” La voce di Shiro andò scemando mentre si ricordava di quello che Keith aveva detto prima. “Da quando Sarah ha iniziato a odiarti?”
    “Ti ricordi l’estate che siete venuti a trovarmi a Daibazaal?” gli disse Keith, non con qualche imbarazzo. “Io e te eravamo andati a fare quella gita nel deserto con le hoverbike, Curtis e Sarah non avevano voluto venire…”
    “Oh, sì, mi ricordo, Sarah aveva circa quattordici anni,” Shiro rise. “Eravamo stati beccati da una tempesta di sabbia e siamo rimasti fuori tutta la notte… Ci ho messo giorni a liberarmi di tutta quella sabbia…”
    “Be’, quello è stato il momento in cui Sarah ha iniziato a odiarmi.”
    “Non capisco.”
    Keith sospirò. “È stato il momento in cui ha capito che tu non avresti mai amato Curtis come amavi me, e che io ti amavo nella stessa maniera, e che io sarei stato sempre al primo posto nella tua lista di priorità. E allora lei decise che sarebbe stata dalla parte di Curtis sempre, anche contro di te.” Scosse la testa. “È inutile negarlo, è stata proprio lei a dirmelo, anni dopo, quando ero venuto a vedere Claudia. Non mi voleva nella sua vita, perché non mi voleva nella tua.”
    Shiro si ricordò di quando Keith era venuto a vedere Claudia, e di come poi se n’era andato improvvisamente in tutta fretta, con la scusa di un’emergenza improvvisa delle Lame. E Shiro gli aveva creduto, forse perché era più facile farlo.
    “Sarebbe stato meglio che me le avesse dette in faccia, forse avrebbe sofferto di meno.”
    “Sei pur sempre suo padre, credo temesse che parlarne con te avrebbe rovinato il matrimonio con Curtis, e lei non voleva questo. Ero io il nemico, io la persona da allontanare.” Scosse le spalle. “Ma io sapevo che si sbagliava, e quindi sono stato egoista e sono rimasto tuo amico.”
    “Claudia non si è sbagliata,” disse allora Shiro. “Ha capito le cose prima di tutti, prima ancora di me. Ma quello che ha detto è vero: io non ho mai amato e amerò mai una persona quanto te, Keith.”
    Il rossore si spanse immediatamente sul viso di Keith, e lui distolse lo sguardo. “Non me l’avevi mai detto.”
    “No. Ero incazzato dopo tutto quello che era successo, e tu ti comportavi come se niente fosse. Ti amavo e ti odiavo assieme, e poi tu te ne sei andato e io ho pensato che fosse semplicemente più facile dimenticare tutto. Ma non sono mai riuscito a farlo, nonostante tutto.”
    “Nemmeno io.” Keith sorrise. “Sono contento che tu non l’abbia fatto.”
    “Posso venire con te?”
    “Dove?”
    “Dovunque?”
    “Domani?”
    “Domani, dopodomani, per sempre.”
    Erano anni che non vedeva Keith piangere, da che si ricordasse l’aveva fatto solo una volta, alla morte di Allura, ma di nascosto a tutti, anche a lui. Invece adesso stava piangendo in piena luce, lacrimoni che gli riempivano gli occhi e scorrevano velocemente sulle guance, senza che lui potesse fare nulla per fermarli.
    Shiro gli accarezzò il viso, i capelli, si baciarono con il sale delle lacrime che si mescolava sulle sue labbra, e finalmente tutto tornò al suo posto. Il buco che Shiro sentiva nel petto si era improvvisamente dissolto, come se fosse sempre stato per la mancanza di Keith, e fino a quel momento ci aveva infilato dentro Curtis, la famiglia, solo per rimediare a quella mancanza.
    “Sì, sì, sì.”
    Era l’inizio di una nuova vita.
  7. .
    Capitolo 1

    Quando Lance uscì sbattendo la porta, il vetro quasi tremò per la forza. I passi nervosi ci misero un po’ a scomparire, e quando l’ebbero fatto Keith tirò un sospiro, non sapeva nemmeno lui se seccato o rilassato, e poi si risedette alla scrivania e, come se nulla fosse, riprese a lavorare.
    Purtroppo i ritmi di lavoro in quel periodo alla Voltron Corp. Erano terribili e Keith comprendeva che fossero tutti sotto stress, e che lavorare in fretta non era l’idea, per cui si lasciò a un angolo della mente la sfuriata di Lance all’ennesimo controllo con una scrollata di spalle.
    Era al termine della terza videoconferenza della giornata, quando bussarono dolcemente alla porta del suo ufficio e, ancora prima di aspettare il suo permesso, Allura, come al solito elegantissima nel suo tailleur blu, entrò. Keith le fece segno con il dito poggiato sulla bocca di non parlare, mentre cercava di accelerare i saluti finali al computer. Lei si sedette sulla poltrona e attese pazientemente che lui si liberasse.
    “E’ successo qualcosa?” chiese immediatamente, una volta interrotta la comunicazione, mentre si toglieva cuffie e microfono.
    “No,” lei scosse la testa, “a meno che per qualcosa tu non intenda Lance chiuso in bagno a piangere.”
    Non era quello che intendeva, si riferiva più a problemi con la produzione, con il pubblico, a qualsiasi intoppo che avrebbe rallentato il lavoro generale dell’azienda, ma in ogni caso si preoccupò: Lance non era mai stato quello che si dice un appartenente alla classica virilità (una delle cose che Keith apprezzava di lui, a dir la verità), ma anche per lui un atteggiamento del genere era insolito.
    “Gli è successo qualcosa?”
    “Dimmelo tu,” rispose Allura con dolcezza.
    “Non che io sappia.” Keith rifletté sugli avvenimenti della giornata, e sulle mail che aveva letto – anche se forse ne erano arrivate altre mentre era in videoconferenza.
    “Non l’hai chiamato in ufficio oggi?”
    “Sì, aveva fatto un errore banalissimo su uno dei documenti. Solo che è la terza volta questa settimana, probabilmente ha il file scritto male. Gliel’ho fatto notare e si è arrabbiato. Non capisco cosa ci sia da piangere.”
    “Dice che hai intenzione di licenziarlo.”
    “Non ho mai detto una cosa del genere!” Stavolta, Keith rimase davvero stupefatto. “Perché dovrei farlo? Lance è un ottimo ingegnere, solo che a volte ha la concentrazione di una mosca. Ma quella è una cosa rimediabile. Ci sono persone che vanno in giro a dire che lo voglio licenziare?”
    “No.” Allura ridacchiò, rendendo tutta la situazione ancora più surreale. “Ma capisci che non è carino dire a una persona che ha la concentrazione di una mosca.”
    “Ma è la verità. Come può migliorare se non se ne rende conto?”
    “Quante volte hai chiamato Lance nel tuo ufficio questa settimana, per dirgli che aveva fatto male qualcosa?”
    Keith fece un rapido calcolo. “Tre. Quattro se consideri la volta in cui è venuto lui.”
    “E quante volte l’hai chiamato per dirgli che aveva fatto bene il suo lavoro?”
    “Fare bene le cose è il suo lavoro,” replicò Keith. “E la dimostrazione è che l’azienda va bene, è merito di tutti.”
    “E questo l’hai mai detto?”
    “Certo, alle riunioni di chiusura bilancio.”
    Allura sospirò, e in questo caso sembrò che la sua pazienza vacillasse un attimo. “Tu pensi di essere un buon capo, Keith?”
    “Tu pensi che io lo sia?” le rigirò la domanda Keith. Si fidava di Allura, non era la responsabile del settore acquisti per niente.
    “Sì dal punto di vista operativo,” rispose lei immediatamente, era chiaro che si fosse preparata il discorso. “Le tue decisioni sono sempre ottime, hai un buon intuito e sai cogliere i cambiamenti del mercato. Da questo punto di vista sei impeccabile.”
    “Ma?”
    “Umanamente sei un disastro,” disse lei, con un leggero sorriso. “Sai accettare le opinioni altrui, te ne do atto, ed è una cosa positiva, ma non sai parlare alle persone individualmente. Pensi che siano tutti come te, che sei abituato ad avere le cose dette in faccia. Non tutti sono così. E quanto tu li critichi, la prendono sul personale. Lance, poi, è molto insicuro da questo punto di vista.”
    Keith fece un lungo sospiro. “Hai ragione. Io non sono bravo con le persone, non lo sono mai stato. Ogni volta che facevano quei corsi di comunicazione ci provavo, ma mi sembrava tutto così falso. Ma perché devo esserlo, in questo lavoro? Non basta che io sia bravo in quello che faccio per l’azienda?”
    “No, Keith, non lo è.” Allura era seria. “Se continui così, rischi di alienarti tutti, e le persone che non stanno più bene nel posto di lavoro lo lasciano. Dopo che tu, pur con i tuoi consigli fatti male, le hai fatte migliorare. Vuoi che se ne vadano?”
    “Ovvio che no.”
    “Bene.” Si frugò qualcosa in tasca e ne estrasse un biglietto da visita. “Questo ti può aiutare.”
    “Non voglio andare da una psicologa.”
    “Non è una psicologa.”
    Allora Keith prese il biglietto da visita e guardò meglio. Arrossì alle parole che c’erano scritte sopra, un misto di sesso, piacere, e trasgressione.
    “Non voglio nemmeno andare da una prostituta,” mormorò.
    “Non è nemmeno quello,” disse Allura divertita. “E’ una società seria di Dom e Sub qualificati e di competenza, molti di loro lo fanno per piacere ma sono laureati. Tu hai bisogno di imparare cosa significa avere potere e autorità su qualcuno, e anche di rilassarti. Quella è la soluzione ideale.” Si alzò e si riassettò il vestito. “Dai un’occhiata, non ti deluderà.”
    Se ne andò, lasciandolo lì con il biglietto da visita in mano e un’espressione perplessa in viso.

    Non pensò più al biglietto da visita fino al fine settimana, quando lo ritrovò all’interno del suo completo prima di portarlo in lavanderia. Se lo rigirò fra le mani, e alla fine non lo gettò. Una volta tornato a casa, nella quiete del suo attico il cui silenzio era interrotto solo dal respirare leggero di Kosmo, si decise ad aprire il portatile e a dare un’occhiata al sito.
    Come gli aveva detto Allura, era un sito estremamente professionale, con tanto di regole, contratti seri da firmare, e necessità di analisi in caso si scegliesse l’opzione comprensiva di rapporti sessuali. I prezzi erano quasi proibitivi, ma non per Keith, il che supponeva che anche la loro clientela fosse di un certo livello.
    Keith non temeva uno scandalo – dell’opinione degli altri non gliene era mai fregato molto – eppure si sentì un po’ in imbarazzo mentre scorreva il sito. C’era una pagina per chiedere informazioni, in forma assolutamente anonima, così Keith buttò giù velocemente una richiesta.

    Gentilissimi,
    sono il Direttore Generale di un’importante azienda, e non sono capace di trattare con i miei sottoposti.
    Non voglio che se ne vadano, quindi avrei probabilmente necessità di un Sub che mi insegni dove sbaglio e cosa posso fare per migliorare.
    E anche di rilassarmi.
    Non ho precedente esperienza nel campo.
    Ho ventisette anni.
    Sono single, mai stato sposato, non ho figli. Vivo da solo. Ho un cane.
    Per contatti il mio num di telefono è xxx2345677

    Chiuse il computer di scatto, quasi a volersi dimenticare di quello che aveva scritto. Era una mail assurda piena di cose ridicole, non sapeva nemmeno lui perché l’aveva scritta in quella maniera. Probabilmente l’avrebbero preso per un mitomane, perché come faceva uno che scriveva così a fare il Direttore Generale? Era assurdo.
    Si lasciò cadere sul divano e si coprì il viso con il cuscino.
    Cinque minuti dopo, il suo cellulare squillò. Era un numero non registrato.
    “Pronto?”
    “Buongiorno.” Era una voce maschile, estremamente sexy. “Scusi per il disturbo, chiamo dall’Atlas, l’azienda di BDSM, per la mail di informazioni che ha appena inoltrato.”
    “Oh… salve.” Non si aspettava lo chiamassero così presto, non era pronto.
    “Io sono uno dei Dom che lavora per l’azienda, ho chiesto di poterla chiamare perché sono interessato al suo caso,” continuò la voce. “Sono anche io il Direttore Generale di un’azienda, e posso comprendere lo stress che ne deriva. Penso di poterla aiutare.”
    “Be’… fantastico.” Era un poco stupito che all’interno di quell’azienda lavorassero persone che avevano anche altri tipi di lavoro, pensava fossero dedicati solo a questo.
    “Lo so che nella mail lei fa riferimento a un sub, ma anche al fatto che non ha precedenza pregressa in questo campo, ed essere un Dom non è così facile, richiede grande preparazione. Non voglio mettere in dubbio che lei sia in grado di imparare, ma se volesse una cosa più rapida e meno duratura…” La voce si interruppe un attimo. “Potremo parlarne a voce, se per lei va bene. Viene meglio che spiegarsi per telefono.”
    “Sì, va bene. Certo.”
    “Non voglio metterla in imbarazzo nel caso non se ne faccia nulla,” la voce continuò, “per lei può andare bene per le quattro di oggi pomeriggio? Mi può inoltrare un indirizzo di un locale dove le potrebbe andare bene vederci.”
    “Va bene, lo faccio subito.”
    Interruppe la comunicazione con il cuore in gola: in cosa si stava cacciando?

    Come locale aveva scelto Sal’s, un piccolo baretto sull’ottantanovesima, che frequentava all’epoca della sua laurea. Poiché era vicino al tribunale, nessuno faceva caso che ci fosse qualcuno con un completo elegante, per cui era nel suo ambiente. Si fece accomodare al tavolo, ordinò un frullato energetico e diede ordini al cameriere se qualcuno fosse arrivato chiedendo di lui.
    Stava terminando di leggere la notizia sull’ultimo spettacolo di teatro, quando la sedia di fronte a lui si spostò e un uomo vi si accomodò.
    “Mi scusi se l’ho fatta attendere, non trovavo parcheggio.”
    L’uomo dalla voce sexy era tutto sexy, almeno un metro e novanta di muscoli e gnoccaggine, chiaramente visibili sotto il completo elegante. Curiosamente, aveva una cicatrice sul naso, che quasi gli tagliava il viso, e, quando allungò la mano per stringerla, notò che era di metallo.
    “Takashi Shirogane,” si presentò, e Keith non lo ricordava tra nessuno della gente con cui aveva a che fare, nonostante il nome gli fosse in qualche modo familiare. “Ma di solito mi chiamano Shiro.”
    “Keith.” Attese che anche Takashi ordinasse per lui – un cappuccino – prima di aggiungere, “allora, per questa cosa…”
    Shiro sorrise rassicurante. “Mi rendo conto che sembri una cosa imbarazzante, soprattutto le prime volte, ma solo perché c’è molto pregiudizio attorno. L’importante è, come in tutte le cose, ricordarsi le tre regole: sicuro, sano e consensuale.”
    “Sì, ecco…” Keith prese un sorso del frullato. “Io non so esattamente che cosa voglio. È una vita che non faccio sesso, non ne ho mai avuto bisogno. Voglio solo imparare a trattare i miei dipendenti in modo che non abbiano paura di me, ecco. Se lei pensa…”
    “Diamoci pure del tu,” disse Shiro, e poi rifletté fra sé e sé. “Qual è il problema con i suoi dipendenti?”
    “Non sono in grado di parlare con loro. Cioè, gli parlo, ma non li capisco, e a quanto pare questo non mi rende un bravo direttore. Temono il mio giudizio.”
    “E tu temi quello di qualcuno?”
    Keith alzò le spalle. “Ho imparato a fregarmene. Sono bravo nel mio lavoro, ecco tutto.”
    “Da quanto sei Direttore Generale?”
    “Un paio d’anni.”
    “Prima cosa facevi?”
    “Lavoravo in una start up di mia invenzione. La società per cui lavoro adesso mi ha pagato per acquisirla.”
    “Ho capito.” Shiro annuì. “Il motivo per cui ho pensato che potesse esserti utile avere un Dom piuttosto che un Sub è perché immagino che tu possa avere difficoltà a comprendere quanta autorità tu possa avere sugli altri, e da quello che mi hai raccontato potrebbe essere proprio così.”
    “Una specie di Boss in incognito?”
    “Una specie.” Shiro rise. “Diciamo che hai bisogno di lasciarti un attimo andare nelle mani di qualcun altro, di capire che cosa vorresti quando sei tu a dipendere da un altro, e anche quando ti vuoi fermare. Non è ovviamente lo stesso rapporto che hai con i tuoi dipendenti, ma ci va abbastanza vicino da poter essere una buona esperienza.”
    “Sono molto indeciso, lo ammetto.”
    “Non devi deciderlo adesso.” Shiro prese la cartellina che aveva con sé e ne estrasse un fascicolo di fogli ben organizzati. “Questi sono i miei limiti, le mie regole, il mio contratto e ovviamente le mie analisi che certificano che sono completamente sano. Puoi leggerle con calma e chiamarmi per qualsiasi dubbio.”
    “E poi?”
    “Se diventare un mio sub ti può andare bene, dovrai compilare la lista dei tuoi limiti personali, firmare il contratto e, ovviamente, fare le analisi se accetti anche un rapporto di tipo sessuale. Poi potremo iniziare. Suggerisco comunque che la prima sessione sia fatta a casa tua: è la più difficile, ed essere in un ambiente familiare potrebbe aiutarti.”
    Keith accettò i fogli con un po’ di timore.

    Passò il weekend e la settimana a studiarli. Cercò tutto l’elenco di limiti e preferenze che Shiro aveva messo sul foglio, per cercare di capire se potessero piacergli, ma alla fine scelse quasi a caso perché non aveva davvero idea di cosa desiderasse. Fece le analisi.
    Cercò anche il nome – Takashi Shirogane – in internet. Scoprì che se lo ricordava perché un paio di anni prima era stato al centro di un caso di cronaca nera di cui si era parlato molto, un rapimento ai danni suoi e di un esimio professore. Probabilmente era da quella vicenda che derivavano le sue ferite.
    Keith comunque non ne fece cenno, quando alla fine si decise a scansionare tutti i fogli e a inoltrarli a Shiro via mail la domenica sera. Non ebbe risposta e si scoprì deluso.
    Ma fu svegliato il lunedì mattina dallo squillare del telefono.
    Era Shiro.
    “Ho visto i fogli.”
    “Sì.”
    “Sono contento che tu abbia accettato.”
    “Quando possiamo vederci?”
    “Con calma,” rispose Shiro, con una voce improvvisamente suadente. “Devi andare al lavoro, oggi?”
    “Come sempre.”
    “Cosa indossi di solito? Il completo che avevi l’altra volta?”
    “Probabilmente non lo stesso, ma uno molto simile.”
    “Cos’hai nell’armadio che non siano completi? Descrivimeli.”
    Keith scese dal letto quasi gattonando e aprì la parte dell’armadio riservata ai pochi vestiti che aveva per i momenti ricreativi, che non erano mai molti. Prese a fargli un elenco distinto delle cose: un paio di jeans chiari, un paio di jeans scuri, magliette, camicie… A un certo punto, Shiro lo interruppe.
    “Oggi, per andare al lavoro, mettiti i jeans e il body nero.”
    “Ma…”
    “Hai scelto l’opzione 24h, giusto? Questo è parte dell’accordo,” e c’era un tono divertito nel modo in cui Shiro parlava. “E fatti la coda alta.”
    “Perché?”
    “Perché secondo me sarai adorabile così. E ricordati di mandarmi una foto. Ti richiamerò io.”
    Per qualche minuto, rimase a osservare il display ormai scuro del suo cellulare. Ovviamente, c’era la possibilità di ignorare ciò che Shiro gli aveva detto – ne sapeva abbastanza di giurisprudenza per sapere che il contratto che aveva firmato non aveva alcuna valenza legale – ma a quel punto l’intera idea della terapia che gli aveva proposto Allura sarebbe stata inutile.
    Con un sospiro, mise i vestiti che Shiro aveva scelto per lui, si fece la coda alta come faceva una volta, quando lavorava da solo al suo sistema, e poi andò al lavoro con un lungo sospiro.
    Come era facilmente preventivabile, tutti i colleghi che incontrò nel percorso dall’ingresso all’ufficio lo osservarono con guardo sorpreso, addirittura una delle guardie gli si avvicinò, non avendolo inizialmente riconosciuto, con grande imbarazzo da parte di entrambi.
    Allura passò dal suo ufficio con uno sguardo fin troppo divertito. “È successo qualcosa che non so?”
    “No comment.”
    Durante quella giornata, Keith scoprì due cose. La prima era che in realtà non amava per nulla l’idea che qualcuno potesse dargli degli ordini, e si sentiva umiliato dall’essere dovuto venire al lavoro con una divisa che non gli era propria. La seconda era che in realtà con quei vestiti si trovava più a suo agio rispetto a quando era con il completo, che aveva sempre trovato un po’ troppo da cassamortaro su uno con il suo fisico.
    Aveva letto studi sul fatto che l’abbigliamento potesse essere una componente fondamentale del lavoro, ma non l’aveva mai presa sul serio, considerandola una psicologia spicciola, e invece ora la vedeva realizzarsi di fronte ai suoi occhi.
    Lasciò l’ufficio per raggiungere il dipartimento tecnico. Pidge, che era il responsabile, si mise immediatamente sull’attenti, nonostante Keith sapesse bene che durante il suo lavoro tendeva a distrarsi fin troppo. La squadrò per un attimo dalla testa ai piedi: era bassa per la sua età, e quel completo addosso le stava malissimo.
    “Ti ricordi la volta che mi hai chiesto di poter venire al lavoro con le tue maglie da nerd?”
    Lei si accigliò. “Non sono maglie da nerd. Ma sì, come mi ricordo che mi hai detto di no perché la policy aziendale richiedere abbigliamento elegante per i responsabili.”
    “Ho cambiato idea. Vieni al lavoro come ti pare.”
    “Ma…” Le si allargarono gli occhi sotto gli occhiali. “E il presidente?”
    “Me la vedrò io con lui. A me basta che il tuo lavoro migliori.”
    Se ne tornò nel suo ufficio stranamente soddisfatto. Prese il suo cellulare e si scattò un rapido selfie alla scrivania, che inoltrò immediatamente a Shiro.
    La prima risposta fu un emoticon con il cuore.
    Poi:
    “Lo sapevo che stavi bene.”
    “Come sta andando?”
    E Keith ammise: “meglio di quello che pensavo.”

    Nei giorni successivi, Shiro continuò a dargli gli ordini più disparati, ma sempre senza fare accenno, in alcun modo, a un loro eventuale incontro. Keith fremeva, voleva chiedergli che cosa stesse aspettando, perché gli importasse di più obbligarlo a mangiare un budino al cioccolato piuttosto che fare cose da Dom come Keith se le immaginava dai film di 007.
    Allo stesso tempo, però, Keith doveva ammettere a se stesso che la terapia stava in qualche modo funzionando. Aveva continuato ad andare al lavoro seguendo le decisioni di Shiro ogni mattina, e doveva dire che non era così male lasciarsi andare alla preferenza di altri. Dopo Pidge, altre persone avevano chiesto di poter evitare un abbigliamento formale se non necessario (persino Allura era arrivata un giorno con un vestito rosa che le lasciava scoperte le gambe e che aveva causato un piccolo incidente tra vassoi in mensa), ed improvvisamente l’azienda sembrava aver acquistato allegria.
    Alcuni ordini di Shiro (limitarsi a due riunioni al giorno, proprio se necessarie, uscire almeno un giorno con un’ora in anticipo, prendersi almeno un’ora di pausa pranzo) gli avevano fatto temere un rallentamento del lavoro; poi però si era ricordato che Shiro stesso era Direttore Generale e non di un’azienda concorrente a quella di Keith, quindi probabilmente conosceva i trucchi per lavorare bene.
    La sua azienda, infatti (la Garrison), produceva un fatturato annuo notevole, ed era anche studiata nelle università di economia e commercio; tutte cose che Keith aveva scoperto indagando in segreto sul suo Dom. Shiro faceva molte domande, ma sulla sua vita privata era reticente.
    “Fai il bravo,” rise Shiro a una certa, dopo l’ennesima domanda di Keith. “Altrimenti ti dovrò punire.”
    “E se invece faccio il bravo?”
    “Allora ti premierò.”
    Non è che Keith fosse così curioso di natura, però sentiva che fra lui e Shiro si stava creando un rapporto particolare, o forse era solo lui a crederlo, per il modo in cui ormai si stava fidando dei suoi ordini, e si abbandonava a loro senza più protestare o chiedersi per quale ragione fossero dati.
    Finché, un giorno, Shiro lo chiamò, un venerdì sera. “Sei libero nel weekend?”
    “Sì.”
    “Allora vediamoci, sabato pomeriggio.”
    “A casa mia?”
    “Sì.”
    “Devo preparare qualcosa?”
    “Solo te stesso.”

    Fu una giornata di tensione. Era la prima volta che Shiro accettava di fare una sessione come si doveva, ed era la prima volta in assoluto per Keith, il quale temeva di non essere all’altezza. Aveva chiesto all’azienda di pulizie di fare un passaggio in più nel suo attico, si era fatto due docce, aveva lasciato Kosmo da Regris per l’intero weekend, aveva riempito il frigo di tutto ciò che potesse essere utile.
    Il portiere suonò. “Dottor Kogane, c’è un ospite per lei. Il Dottor Shirogane.”
    “Lo faccia salire.”
    Aprì la porta quando sentì il rumore dell’ascensore, e sperò di non essere risultato troppo sorpreso nel vedere Shiro che usciva dall’ascensore. L’unica volta che si erano incontrati dal vivo, Shiro aveva un completo non differente da quello di Keith, che gli dava un aspetto formale, ma elegante. Invece, quel giorno aveva un paio di jeans neri e una maglietta bianca sotto una giacca di pelle nera ed era, se possibile, ancora più bello.
    “Vivi in un bel posto,” gli disse Shiro, quando Keith lo fece accomodare. “Io mi sono trasferito dalla city, ma se abitassi ancora qui, questo quartiere sarebbe stata una delle mie scelte.”
    “Me l’ha consigliato il mio presidente,” rispose Keith, quasi grato di quella conversazione quasi semplice con cui avevano iniziato. “Ma se potessi mi trasferirei fuori anche io.”
    “Come mai non lo fai?”
    “Al momento è troppo comodo.”
    Shiro si guardò intorno nella grande sala, quindi senza chiedere permesso si mosse a esplorare il resto della casa, la cucina, il bagno, lo studio. Posò la borsa che aveva con sé solo quando raggiunsero la camera da letto: Keith aveva chiuso le tende, ma la luce penetrava abbastanza. Shiro aprì l’armadio e fece un controllo di tutti i vestiti che c’erano all’interno, scarpe comprese.
    “Non ti ho mentito sui vestiti che ho,” rise Keith.
    “Lo so,” Shiro rispose, con un sorriso. “Non mentiresti al tuo Dom, vero?”
    “Ovviamente.”
    “Ma hai pochi vestiti. Stasera a questo ci rimedieremo,” disse Shiro, in maniera casuale. “Per ora, spero che questo vada bene.” Frugò nel borsone che aveva portato con sé e ne estrasse un qualcosa di piegato, di colore nero lucido. “Mettiti questo.”
    Glielo passò, e Keith capì che si trattava di una tuta in latex.
    “L’ho comprata apposta per te,” aggiunse Shiro.
    “Grazie,” Keith si ritrovò a dire, con sincerità, arrossendo un po’. Poi si guardò intorno. “Vado un attimo in bagno…”
    “No,” lo bloccò immediatamente Shiro. “Cambiati qui. E Keith,” aggiunse, con un sorrisetto furbo, “va messa senza mutande.”
    Keith deglutì vistosamente, mentre Shiro si sedeva sul bordo del letto ed evidentemente aspettava di godersi lo spettacolo. Keith poggiò la tuta sull’alta cassettiera e iniziò a spogliarsi. Tolse le scarpe e le spinse via con la punta del piede. Poi, dopo essersi sbottonato la camicia, alzò le braccia per togliersela con più facilità. Slacciò la cintola, aprì la patta dei pantaloni e li lasciò scivolare a terra. Con un altro sospiro, trattenendo il fiato, spinse per le gambe anche le mutande.
    “Hai un culo spettacolare,” disse Shiro, senza alcun tipo di malizia, come se stesse valutando un immobile. “Mi stai mostrando la parte migliore?”
    “No, è che-”
    “Voltati.”
    Keith ubbidì, e arrossì sotto lo sguardo indagatore di Shiro. “Sei molto bello,” disse Shiro alla fine.
    “Grazie, anche tu,” venne naturale rispondere a Keith, e la reazione di Shiro lo sorprese, perché fu lui ad essere imbarazzato in quel momento, con gli occhi leggermente aperti dalla sorpresa. Keith approfittò di quel momento per mettersi la tuta: era stretta e aderente, faceva quasi una seconda pelle e non lasciava assolutamente niente del suo corpo all’immaginazione. Non che ci fosse qualcosa di cui vergognarsi a quel punto, dato che Shiro l’aveva già visto nudo.
    “Vieni qui.” Shiro gli fece cenno con due patte sul suo ginocchio, e Keith si avvicinò e capì che intendeva per Keith di appoggiare la testa sulla sua gamba, quindi si chinò e obbedì, rimanendo inginocchiato di fronte a lui, fra le sue due gambe un poco allargate.
    “Questa è la tua prima sessione,” disse Shiro, “quindi non durerà a lungo, e non faremo niente di esagerato. Voglio solo che tu abbia un assaggio di quello che potrà essere. È chiaro?”
    Keith annuì.
    “Ciò nonostante, se per qualsiasi ragione quello che ti chiederò non andrà bene, fermami.”
    “Va bene.”
    “Bravo gattino.” Frugò nuovamente nella sua borsa e ne estrasse quello che appariva come un foulard, di colore blu. “È seta. Lo faccio per abituarti alle corde poi.”
    Con delicatezza, prese le mani di Keith nelle sue e poi avvolse il foulard attorno ai suoi polsi, stringendoglieli e bloccandoli assieme, senza però fargli troppo male, o senza che Keith temesse di non potersi liberare. Poi, d’improvviso, tirò in alto un’estremità del foulard, trascinandosi dietro le braccia di Keith, che furono così volte verso l’alto, e allineando la colonna vertebrale, così che Keith si ritrovò sempre inginocchiato per terra, ma in qualche maniera instabile, tirato verso l’alto.
    “Guarda che cos’ho pescato oggi,” disse Shiro, e c’era un tono quasi malevole stavolta, nella sua voce. “Che cosa posso farti fare oggi?”
    Sempre di scatto, lasciò andare l’estremità del foulard e Keith si ritrovò ad accartocciarsi su se stesso, come se fosse una bambola di pezza. Shiro si tolse la cintura e si aprì i pantaloni, quanto bastava per liberare il suo pene. Era chiaro anche prima che avesse un’erezione che non era un pene di dimensioni nella media, e Keith osservò con gli occhi spalancati mentre Shiro si masturbava appena.
    Quasi non percepì l’ordine che gli arrivò. “Succhia.”
    “Ma io veramente…”
    Shireo gli accarezzò la testa. “Noi sei un bravo gattino?”
    “Sì, io…”
    “Allora succhia.”
    Con un lieve cenno del capo, Keith si avvicinò gattonando e appoggiò delicatamente le labbra sul pene di Shiro. Non è che non avesse mai fatto un pompino in vita sua, ma non si era mai ritenuto un grande esperto, ed era una vita che non li faceva. Shiro lo guidò, fra un gemito e un altro, sempre con la mano che gli accarezzava i capelli.
    Gli venne in bocca, senza preavviso, e Keith si sentì quasi soffocare, poi strinse le labbra per non vomitare, lo sperma ancora in bocca. Shiro lo osservò con un sorriso, le labbra rosse e lo sguardo un pochino lucido.
    “Sei un bravo gattino,” gli disse. “Te la senti di ingoiare?”
    Lentamente, Keith annuì. Poi deglutì tutto e tossì solo un attimo, alla fine. Shiro lo accarezzò ancora, a lungo, sui capelli e sulla guancia.
    “Bravo gattino,” ripeté, e Keith si rese conto di apprezzare tanto quei complimenti, di apprezzare che riconoscesse che era stato bravo e che lo lodasse. Voleva essere bravo per ricevere quei complimenti.
    Poi Shiro si alzò: “sistemiamoci, dobbiamo andare.”

    Per il resto del pomeriggio, Shiro lo portò in giro per la città, a scegliere dei nuovi vestiti. Keith perse il conto di quanti negozi girarono, e di quanti vestiti Shiro gli fece provare. Sembrava che si divertisse a vederlo con tipologie differenti di vestiti, e li analizzava tutti. Poi, quando trovava uno che a suo parere stava bene sul fisico di Keith, sorrideva e gli occhi gli brillavano appena. A Keith quei momenti piacevano, e pagava per il vestito che piaceva a Shiro senza fare alcuna domanda.
    Fu in generale un pomeriggio estremamente piacevole, eppure non era un classico appuntamento. Erano lì perché Shiro lo voleva, compravano i vestiti che piacevano a Shiro, ordinavano quello che Shiro voleva, e in generale andavano solo dove voleva lui. Era una cosa che Shiro non faceva presente spesso, ma quando si sporgeva a farglielo presente, era deciso, non ammetteva repliche. Keith scoprì che non gli dispiaceva l’idea di lasciarsi andare completamente.
    Era così preso dalla foga del suo lavoro, dalle preoccupazioni, dalle responsabilità che il lavoro portava con sé, che alla fine era bello, per un giorno, spegnere il cervello e lasciare guidarsi completamente da un’altra persona. E gli piaceva essere premiato per questo.
    “Bravo gattino,” gli disse Shiro al termine della serata, quando riaccompagnò Keith a casa sua. “Stasera, mettiti questo,” e indicò uno dei vestiti che avevano comprato, “e masturbati pensando a me. Saprò se non l’hai fatto.”
    “Lo farò.”
    Shiro sorrise. “Molto bene.”
    “Quando possiamo rivederci?”
    “Te lo farò sapere. Tu continua a comportarti bene.”

    Lance entrò nell’ufficio con una faccia torva. Aveva subito apprezzato la nuova policy aziendale di vestire casual, ma con i jeans chiari e la giacca leggera sembrava ancora più ragazzino della sua età, e a giudicare dalla sua espressione, un ragazzino capriccioso.
    “Che c’è?” sbuffò, al netto di qualsiasi regola di educazione, considerando che stava parlando con un superiore. Ma se lo poteva permettere, perché Keith non gli aveva mai fatto storie da quel punto di vista, il confronto gli era necessario di tanto in tanto.
    “Ho presentato il tuo progetto al consiglio amministrativo ieri,” disse Keith sbrigativo.
    “Davvero?” Lance si sorprese alla notizia.
    “Ma certo, il tuo progetto è buono. Non ti ho avvertito perché l’ho inserito in programmazione all’ultimo, non sapevo se l’avrebbero discusso davvero e se il presidente sarebbe stato ben disposto.”
    “Okay,” disse Lance, e per una volta perse tutto il suo buonumore e si accasciò su se stesso.
    “Purtroppo non hanno avuto molto tempo per discuterlo, ma ho insistito. Per questo motivo, però le cose che hai portato finora non bastano.” Estrasse una busta dal cassetto. “Ti ho fatto un report di quello che vogliono per la riunione di settimana prossima, ho già chiesto che ti mettessero subito in lista. Se hai bisogno di essere affiancato da qualcuno fammelo sapere, devi dedicarti a questo come priorità.”
    Lance prese la cartellina controvoglia. “E se non andasse bene?”
    “Il progetto va bene. Sei un ottimo ingegnere, okay, e credo che quel progetto possa far crescere l’azienda. Ma è un progetto tuo, devi essere tu a prenderti la responsabilità di svilupparlo. E i meriti che ne conseguiranno.”
    “Ma solo una settimana… ormai l’avevo quasi abbandonato.”
    “Ti do una mano io a controllarlo, così siamo sicuri che non ci siano errori.” Keith si morse il labbro appena, non sapeva se aveva appena commesso un errore. “Tu lavora come sai e vedrai che andrà tutto bene. Sei bravo. Lo so , lo deve sapere anche il consiglio.”
    “Non me l’avevi mai detto,” disse Lance.
    “Te lo sto dicendo ora.”
    Lance sembrò scrutare il suo viso, come a capire l’imbroglio.
    “Sei un ottimo ingegnere,” ripeté Keith. “Per questo devi e puoi lavorare bene. Portami i tuoi progressi fra qualche giorno.”
    “Ora ti riconosco.” Ma Lance se ne andò dall’ufficio soddisfatto.
  8. .
    Era nato come un gatto di razza, un norvegese delle foreste dal bel manto fulvo e lungo, imponente nel fisico e regale nell’aspetto. Il suo allevamento era considerato uno dei migliori sulla piazza, famoso per produrre solo esemplari dal pedigree perfetto, e Shiro, fra tutti, era il migliore.
    Prima dello sfortunato accidente che lo vide coinvolto, aveva partecipato a innumerevoli concorsi e aveva vinto diversi premi sia per la sua bellezza sia per il suo portamento. E a Shiro andava bene così, pensava che l’essere gatto si riassumesse esclusivamente nel mostrarsi agli altri, essere regale, e ricevere gli incoraggiamenti e le carezze dei padroni quando faceva bene il suo dovere.
    Poi l’incidente capitò. Non era stata colpa di Shiro, al contrario, lui pensava come al solito che fosse il comportamento migliore da tenere per rendere fieri i suoi padroni. Ma era uscito quando non doveva, e si era ritrovato in posti sconosciuti, con difficoltà a tornare a casa, finché non era stato investito da un’automobile.
    Gli era andata bene, a differenza dei gatti che spesso morivano, ma quando era stato trovato e portato immediatamente dal veterinario, per la sua zampa anteriore destra era troppo tardi, ed il veterinario gliela amputò.
    Così Shiro, da gatto perfetto esempio della sua razza, si ritrovò tripoide e con una cicatrice sul naso peloso. Per Shiro, dopo il primo attimo di smarrimento, non divenne un problema insormontabile: con la consueta energia imparò presto a camminare con tre zampe soltanto, e riusciva comunque a saltare ad altezze considerevoli grazie all’uso delle zampe posteriori, aveva solo imparato a calibrare meglio l’atterraggio solo sulla zampa sinistra.
    Ma anche se continua a essere un gatto dal talento migliore di molti altri del suo allevamento, per le regole che i padroni stessi si erano dati, Shiro non andava più bene. Non si poteva presentare un gatto tripoide, o un gatto con una cicatrice ai concorsi di bellezza, non importa quanto il pelo di Shiro fosse sempre bellissimo, o quando avesse tutte le caratteristiche della sua razza. Non si poteva portare a nessun altro concorso, perché non esistevano le paraolimpiadi per i gatti.
    Così lo misero “disponibile per adozione”. Anzi, “adozione del cuore”, la chiamavano. Perché se alcuni gatti dallo stesso allevamento venivano fatti adottare alle famiglie dietro lauto compenso, solo perché a loro magari mancava qualche leggero accenno delle caratteristiche precise della razza, Shiro non valeva nemmeno la cifra. Doveva essere adottato da qualcuno che se ne prendesse carico, e nessuno avrebbe di certo pagato per averlo.
    Per qualche tempo Shiro si fece convinto che nessuno sarebbe venuto ad adottarlo. I titoli che aveva vinto, nella sua condizione attuale, non valevano nulla, e se persino i suoi padroni, che l’avevano sempre coccolato e ammirato, adesso erano pronti a darlo via, perché qualcun altro avrebbe dovuto essere interessato a lui?
    Invece, un giorno dopo circa un mese dall’annuncio della sua possibile adozione, si presentò lei.
    Allura Altea, si chiamava, e a sentire i discorsi dei suoi padroni, una bellissima donna. Shiro la incontrò solo una volta al suo allevamento, furono i padroni a introdurla nella stanza singola dove l’avevano momentaneamente rinchiuso.
    “Vieni qui,” disse lei, con una voce soffice, chinandosi a terra ma non avvicinandosi a Shiro, limitandosi ad allungare leggermente la mano.
    Shiro era abituato agli estranei che lo toccavano, e non aveva paura di loro (uno dei problemi che aveva generato la sua rovina, alla fine), ancora meno quando i suoi padroni erano presenti. Quindi si avvicinò zampettando leggermente, annusò la mano che Allura gli porgeva e poi diede un leggero colpetto al palmo con la testa. Allura passò ad accarezzargli la testa, poi la schiena fino alla punta, mentre Shiro si avvicinava di più a lei, sempre zampettando, e le si strusciava addosso. Finché Allura non lo prese in braccio in tutta la sua grandezza e gli grattò un poco la pancia pelosa.
    “Bel gattone,” disse Allura, e Shiro fece le fusa.
    Una settimana dopo, a seguito di controlli umani di cui Shiro non aveva mai compreso nulla, venne adottato ufficialmente da Allura e si trasferì nella sua villetta di campagna, una casa grande a due piani con una stanza totalmente dedicata a lui che aveva le finestre che davano sul giardino.
    Con Allura Shiro riscoprì la bellezza di essere un gatto di casa ma anche un gatto selvatico e indipendente. Quand’era in casa poteva stare a sonnecchiare tutto il giorno, godersi Allura che lo pettinava seduta sulle scale del giardino, al sole, sdraiarsi sul letto quando Allura guardava la televisione la sera e scroccare da mangiare quando lei preparava da mangiare.
    Poteva girare tutta la casa senza problemi, e aveva i suoi giocattoli e i suoi angoli speciali, e nessuno chiedeva a Shiro di imparare delle mosse, o stare seduto in una gabbia tutto il giorno mentre altri lo ammiravano di passaggio. Era libero.
    Ed era ancora più libero perché Allura non aveva problemi a lasciarlo uscire nel giardino, anzi aveva costruito per lui una piccola porticina che poteva usare a piacimento. Shiro andava e veniva quando voleva, ad esplorare liberamente il giardino lussureggiante e a trovarsi dei posticini al sole dove scaldare la sua pelliccia.
    Scoprì quindi le gioie di essere anche un gatto cacciatore, una capacità che nemmeno la mancanza di una zampa riuscì a togliergli, e divenne presto il terrore di tutti gli uccelli del quartiere. Allura non sembrava felice di questa sua ritrovata qualità, ma non scordava mai di dargli un piccolo buffetto sulla testa quando le lasciava in giro qualcuna delle sue prede.
    Man mano, la sua esplorazione si allungò dal giardino di Allura a quello del vicino, e man mano l’intero quartiere. Shiro scoprì presto la bellezza dei diversi odori, dalle persone alle piante agli altri animali, e anche tutte le cose strane che c’erano in giro e che non aveva mai avuto occasione di vedere.
    Per rispetto nei confronti di Allura, Shiro non usciva mai la notte e tendeva a tornare subito quando veniva chiamato, ma amava la libertà che conseguiva nel poter andare in giro liberamente.
    Così passò un paio d’anni di tranquillità. Allura viveva solo con un’altra persona, un eccentrico zio di nome Coran che aveva l’abitudine di parlare con Shiro di tutto quello che gli passava per la mente, proprio come se fosse un essere umano, e lo viziava oltre misura e gli permetteva sempre di dormigli sulle ginocchia.
    Col passare del tempo Allura adottò altri gatti, nessuno di loro nelle stesse condizioni di Shiro, ma Shiro ammise di essere felice di avere altri membri della sua specie attorno, e non gli dispiaceva dividere le attenzioni di Allura.
    Il primo ad arrivare fu Lance, un flessuoso Blu di Russia che si affezionò immediatamente ad Allura e che, a differenza di Shiro, non amava molto uscire di casa. Preferiva sonnecchiare ovunque Allura fosse seduta a studiare, oppure seguirla per tutta la casa. Se lei era fuori, si aggomitolava nella sua cesta e non voleva essere disturbato.
    Poi fu il turno di Hunk, un bel british longhair dal pelo rosso e il muso paffuto. Come Lance, era un tipo tranquillo, ma non aveva la stessa energia di Lance a seguire Allura ovunque, di norma preferiva starsene seduto sulla sedia della cucina, attendendo che qualcuno iniziasse a cucinare per condividere del cibo con lui. Tuttavia, era molto più atletico di quello che si pensava, e aveva scoperto come aprire il frigo in un paio di giorni. Shiro gli aveva intimato di smetterla, ma di tanto in tanto Allura continuava a domandarsi che problemi c’erano con la porta del frigo che rimaneva spesso aperta.
    L’ultima ad arrivare in ordine fu Pidge, un tabby munkin piccolo ma pieno di energia. Era l’unica che spesso e volentieri seguiva Shiro nei suoi viaggi al di fuori della casa, con grande preoccupazione di Shiro perché Pidge aveva una mente curiosa e attenta e finiva sempre per cacciarsi in qualche guaio. In casa, infastidiva spesso sia Lance sia Hunk perché giocassero con lei, e la maggior parte delle volte ci riusciva. Hunk era quello che si divertiva di più, Lance cercava di fare il superiore, spesso senza riuscirci.
    Tutti loro portavano rispetto a Shiro, in quanto gatto più anziano e anche più grosso della casa, e così la vita scorreva lentamente, con Allura che si divertiva a far loro degli scherzi, e a coccolarli, e loro che passavano il tempo a dormire e rilassarsi.

    Fu in una delle passeggiate casuali di Shiro che lo trovò.
    Aveva piovuto il giorno prima, ma al momento la giornata era soleggiata, quindi Shiro aveva lasciato la villetta alle spalle e, di giardino in giardino, aveva raggiunto il parco cittadino che si trovava alla fine della strada. Non era il posto preferito di Shiro perché spesso venivano i padroni con i loro cani, spesso attaccabrighe, ma era ancora mattino presto e in giro si vedevano solamente corridori sparsi che prestavano poca attenzione a Shiro, solo delle occhiate incuriosite, senza fermarsi.
    Avvertì subito che c’era un odore che non riconosceva. Era chiaramente di gatto, ma non solo. Camminando quatto quatto, cercò di seguirne la scia, fino a raggiungere una linea di siepi al limite del parco. Chinò la testa per guardare al di sotto e individuò, proprio di fronte a lui, una macchia completamente nera.
    Solo a un’occhiata successiva capì che si trattava effettivamente di un piccolo gatto nero, e solo dopo si assicurò che fosse ancora vivo dal modo leggero con cui il suo petto si alzava, respirando. Era chiaramente ferito, o comunque in difficoltà, perché non era il chiaro respiro di un gatto che dormiva.
    Shiro cercò di infilarsi, per quanto la sua stazza glielo permetteva, sotto la siepe per leccarlo, provare a svegliarlo e capire cosa non andava il lui, ma il gatto non si muoveva. Era caldo, più caldo della normale temperatura di un gatto.
    Galoppando, Shiro tornò a casa: Allura era alla sua scrivania, stava scrivendo al portatile. Le saltò in bracciò, miagolò, poi saltò di nuovo sul pavimento e si diresse verso la porta.
    “Che cosa c’è?” domandò Allura, che però non accennava ad alzarsi.
    Shiro miagolò ancora, tornò verso Allura, e poi di nuovo verso la porta, aspettandola.
    “Hai fame? Non è orario.”
    Alla fine Allura lo seguì, ma Shiro non andò in cucina, andò verso la porta, miagolò ancora, uscì dalla sua porticina, rientrò quando Allura non sembrò volerlo seguire. Dopo una lunga serie di avanti e indietro da parte di Shiro, Allura prese la giacca e lo seguì finalmente all’esterno. A quel punto Shiro iniziò a zampettare più velocemente verso il parco, con Allura che gli camminava dietro, sperando che non fosse troppo tardi.
    Il gatto nero era ancora lì, nella stessa posizione. Shiro miagolò alto per far capire ad Allura che doveva guardare sotto la siepe. Lei lo fece, ma protestando sottovoce che la stava facendo sporcare e che sperava fosse qualcosa di serio.
    Ma non appena vide il gatto nero, il suo tono cambiò totalmente, divenne più dolce, affettuoso. Anche se si rese subito conto che c’era qualcosa che non andava in quel gatto: si tolse la giacca, la usò a mo’ di guanto per estrarlo da sotto la siepe, cosa davvero non necessaria perché il gatto era chiaramente privo di sensi e si ritrovò a peso morto in braccio ad Allura, avvolto dalla sua giacca. Shiro seguì tutte le operazioni con grande interesse, fino a che non rientrarono a casa e Allura recuperò la sua auto.
    “No, Shiro, tu non puoi venire,” gli disse, impedendogli con una gamba di salire sull’auto con lei. “Non preoccuparti, lo porto dal dottore, vedrai che starà meglio.”
    Poi riuscì a chiudere Shiro fuori dalla portiera e, con grande rammarico, Shiro si rassegnò ad aspettare.
    Quando Allura tornò, il gatto non era con lei. Prese in braccio Shiro e lo coccolò, mormorandogli parole dolci all’orecchio.
    “Sai stato molto bravo, vedrai che quel gattino si riprenderà, adesso dobbiamo solo aspettare.”
    Ma Shiro rimase nervoso per tutto il tempo in cui il gatto nero rimase dal veterinario, fino al momento in cui Allura tornò una sera a casa, con lo stesso gatto nero avvolto completamente in una copertina azzurra a parte per la testa, che ora rivelava due vispi occhi azzurri e due orecchie che si movevano agitate a ogni minimo rumore.
    Non fu solo Shiro ad accoglierlo, perché Lance, Pidge e Hunk sentirono immediatamente un odore nuovo e si precipitarono a vedere che cosa stava succedendo. Furono accolti dal rognare del nuovo arrivato, un suono basso, gutturale, per nulla scherzoso. Di contro, Hunk rizzò il pelo e Lance si mise in posizione d’attacco.
    “Su, su,” Allura rise, “non spaventatemi il nuovo arrivato. Starà con noi per un po’, forse per sempre, quindi fate i bravi.”
    Poi li superò tutti e andò in quella che una volta era la stanza in solitaria di Shiro e che adesso condivideva con tutti gli altri. Chiuse la porta dietro di sé, impedendo a tutti i gatti di entrare. Da fuori, sentirono qualche breve parola detta da Allura, un leggero muoversi di zampe, poi lei fu di nuovo all’esterno della stanza, la copertina in mano ma il gatto nero non era più con lei.
    “Mi spiace, ragazzi,” disse sorridendo a tutti i gatti che ancora la aspettavano fuori, “per il momento la stanza è solo sua, finché non sarà guarito del tutto e non si sarà ambientato. Dai, venite a mangiare.”
    A quelle parole, Hunk si animò e immediatamente fece per seguirla in cucina, ma poi vide che gli altri rimanevano di fronte alla porta della loro stanza, chiusa, e passò lo sguardo tra loro e Allura, alla fine si rassegnò a rimanere con il gruppo.
    “Chi era quello?” domandò Lance. “Puzzava. Bleah.” E si leccò una parte del dorso come a liberarsene.
    “Non puzzava,” replicò Pidge. “Ma aveva un odore strano.” Sniffò da sotto la porta, come se riuscisse a percepirlo da lì. “Sapeva del veterinario, povero lui, e poi di erba e di qualcos’altro.”
    “È chiaramente un gatto preso dalla strada,” fece presente Hunk. “Voi uscite un sacco, possibile che non abbiate mai incontrato dei randagi?”
    “Ma certo che l’abbiamo fatto!” protestò Pidge. “Ma ognuno di loro aveva un odore diverso.”
    “L’ho trovato io, era molto malato, Allura l’ha portato dal veterinario per curarlo,” fece presente Shiro. “È evidente che l’odore strano che ha deriva da tutte le sue disavventure.”
    “Qualsiasi cosa sia, adesso siamo chiusi fuori da camera nostra per colpa sua,” protestò Lance.
    “Ma tanto tu dormi sempre nel letto di Allura, che te ne frega?” gli fece presente Pidge.
    “È il principio. Mi danno fastidio le porte chiuse. Io devo poter essere libero di andare dove voglio, anche se poi non ci vado. È nella mia natura.” Si sistemò un po’ meglio, la coda avvolta attorno alle zampe. “E poi chi è questo? Mi dà fastidio che ci sia uno nuovo.”
    “Anche Pidge e Hunk sono arrivati dopo di te,” disse Shiro.
    “Be’, loro puzzavano di meno. Ed erano più simpatici, non rognavano.”
    “In effetti ha fatto un po’ paura anche a me,” aggiunse Hunk. “Non sembrava particolarmente felice di essere qui. Chissà cosa potrebbe fare alla nostra cameretta…”
    “Non credo che farò proprio nulla,” disse Shiro infine, assumendo il ruolo di capo della combriccola. “È un gatto come noi, ha avuto un brutto incidente e adesso è in un posto che gli è estraneo, per di più convalescente. Tutti noi dobbiamo contribuire a rassicurarlo, fargli capire che è al sicuro. Mi sono spiegato?”
    Rivolse il suo commento principalmente a Lance, che rilasciò uno sbadiglio seccato. “Solo perché lo dici tu, ma quel tipo non mi piace.”
    Allura li chiamò dalla cucina. “È pronto, ragazzi!”
    Con un ultimo sguardo alla porta chiusa, dietro la quale non proveniva nessun rumore particolare, come se il gatto nero si fosse rifugiato da qualche parte e fosse scomparso, si rassegnò e seguì gli altri verso la cucina.
    ***
    L’ultima cosa che Keith ricordava era di essersi rifugiato sotto una siepe a riposare, dopo una serataccia di guerre con i cani randagi, mancanza totale di cibo e infine pioggia che cadeva da tutte le parti. Si era risvegliato in quel posto del demonio che era l’ambulatorio del veterinario, un posto che sapeva di dover evitare a tutti i costi, perché era l’anticamera del gattile e della morte.
    Lo sapevano tutti i randagi al mondo, e molti erano scomparsi dalla strade proprio per quella ragione. Keith si era lamentato, aveva tentato di scappare, di mordere e graffiare la mano del dottore che tentava di prenderlo, ma era debole, e poi quel dottore maledetto sembrava avere con sé degli strumenti che rendevano vani i suoi sforzi.
    Quando aveva acquistato di nuovo abbastanza energie, era arrivata lei. Non aveva idea di chi fosse, né del perché di prendesse tante confidenze con lui, ma sapeva che portava guai. E infatti non si era sbagliato, quando il veterinario lo prese, lo avvolse completamente nella stoffa e lo consegnò alla nuova arrivata, che prese e se lo portò via. A nulla servirono gli sforzi di Keith per liberarsi da quella prigione, né servì l’atteggiamento aggressivo che ebbe con la tipa, che si limitò a sorridere e a grattargli appena la testa, consapevole che Keith non potesse tirargli via la mano.
    Poi erano arrivati a casa sua, e lui aveva immediatamente percepito l’odore di altri gatti. In strada era pericoloso avere a che fare col territorio di altri, anche se per Keith spesso non era stato un problema, ma solo quando aveva tutte e quattro le zampe libere. Si era difeso come poteva, cercando di essere intimidatorio quanto poteva.
    La donna lo aveva poi portato in una stanza, lontano dagli altri gatti, e lo aveva finalmente liberato da quella prigione di stoffa. Non c’erano posti dove nascondersi in quella stanza, così Keith corse dalla parte opposta e si mise in posizione di attacco.
    “Va tutto bene,” la donna sorrise. “Sei al sicuro adesso. Devi guarire, riposarsi. Vedrai che starai bene qui.”
    Non era proprio compito suo decidere dove Keith avrebbe voluto stare, o dove sarebbe stato bene. Non si mosse di una virgola, seguì con lo sguardo la donna mentre usciva e poi attese che i suoi passi fossero molto lontani prima di rilassarsi e iniziare a controllare la stanza.
    Era piena dell’odore degli altri gatti, Keith ne contò quattro, da risultare quasi soffocante. Uno di quegli odori gli sembrò quasi familiare, ma non riusciva a capire da dove venisse, o dove l’avesse sentito di preciso. Per fortuna, erano tutti al di là della porta, poteva annusarli da sotto, ma non fecero alcuna mossa per entrare, anzi ad un certo punto se ne andarono.
    La stanza era completamente chiusa, anche se aveva grandi finestre che davano su un cortile che Keith non riconosceva. L’unico punto di uscita era la porta, ma poi non si sarebbe ritrovato libero ma di nuovo in casa. Era comunque un tentativo che doveva provare a fare, non conosceva la casa, magari c’era qualche uscita secondaria.
    Poiché la donna gli aveva lasciato acqua e cibo, Keith mangiò per avere le forze per prepararsi alla sua missione della serata. Si mise poi seduto a fianco della porta, per percepire tutti i rumori della stanza. Sapeva già che qualunque cosa avesse fatto, gli altri gatti l’avrebbero probabilmente notato, ma sperava di poterli tenere a bada quel tanto che bastava. L’importante erano gli umani – era sicuro di aver sentito un’ulteriore voce al di fuori della porta. Loro non dovevano sentirlo.
    Quando fu sicuro che nessuno dei due umani fosse ancora in giro per casa, e non sentiva rumori che indicavano che stavano facendo cose, allora si preparò. Si stiracchiò, si concentrò e saltò, afferrando la maniglia della porta con entrambe le zampe anteriori. Si tenne attaccato quanto bastava perché il suo peso facesse abbassare la maniglia e aprire appena la porta.
    Dopodiché balzò a terra con un balzo aggraziato e sgusciò fuori dalla porta socchiusa. Non aveva più sentito l’odore dei gatti vicino alla porta, ma non appena fu fuori della porta individuò immediatamente uno di loro, gli occhi brillanti al buio che seguivano i suoi movimenti.
    Di riflesso, Keith si mise in posizione di difesa, schiena acquata, cosa bassa. Il gatto non si mosse dalla sua posizione, era accomodato quasi regalmente sullo schienale del divano del soggiorno. Gli occhi spalancati brillanti ne davano quasi un’immagine spettrale nella stanza, ma Keith vedeva al buio come se fosse giorno, e il grande gatto dal pelo lungo appariva spaventoso più per la sua grandezza che per gli occhi spiritati.
    “Non ho intenzione di attaccarti,” disse infine, e aveva una voce bassa ma gentile. “Puoi stare tranquillo.” Ma poiché Keith non sembrava in alcun modo interessato a rilassarsi, sospirò e aggiunse, “dove stai andando? Dovresti riposarti.”
    Keith seguitò a non dire nulla, semplicemente rimase fermo in quella posizione finché fu sicuro che l’altro gatto stesse dicendo la verità, che non l’avrebbe attaccato. Solo allora, sempre curioso, iniziò a indagare per la stanza, camminando piano, annusando ogni singolo centimetro del pavimento che aveva davanti e spaventandosi a ogni cosa strana che incrociava.
    “Che cosa stai cercando?” chiese ancora il gatto grosso. “Dovresti avere il cibo nella stanza.” Non sembrava arrendersi al fatto che Keith lo stesse ignorando, e continuò, “sai, sono stato io a trovarti, sotto quella siepe. Respiravi a fatica, sembravi morto. Ho chiesto ad Allura, di aiutarmi.” Pausa. “Allura è l’umana proprietaria di questa casa. È una persona molto buona, ci tratta molto bene.”
    “Buon per voi,” replicò Keith alla fine.
    “Io sono Shiro.” E alla non risposta di Keith, ridacchiò. “Tu non ce l’hai un nome?”
    “Ce l’ho, ma non vedo perché te lo dovrei dire.”
    “Perché è brutto parlare con un gatto senza saperne il nome.”
    Pur di toglierselo di torno, rispose, “Keith.”
    “Bene, Keith, si può sapere che cosa stai facendo?”
    “Me ne vado.”
    “E perché te ne vai?”
    “Perché non voglio stare qui.”
    “E perché non vuoi stare qui?”
    “Sei irritante, lo sai?”
    “Me l’hanno detto.” E poi, “ma comunque non mi hai risposto.”
    “Io sono un gatto libero, non voglio essere assoggettato da nessuno. Non voglio avere una casa, non voglio avere un padrone. Non l’ho chiesto, non mi servono.”
    “Capisco.”
    Il gatto grosso, Shiro, parve rifletterci per un attimo, poi saltò giù dallo schienale del divano e zompettò verso Keith, che si accorse solo in quel momento che gli mancava una zampa anteriore, ma camminava come se così non fosse. Keith non percepiva alcuna pericolosità da lui, e in fin dei conti non sembrava nemmeno interessato a Keith stesso, infatti lo superò e proseguì nel suo cammino. Con curiosità crescente, Keith lo seguì e lo trovò seduto davanti alla porta d’ingresso della casa.
    “Se vuoi uscire, puoi farlo da qui,” gli disse, usando l’unica zampa anteriore per far dondolare la piccola porticina a altezza e dimensione gatto.
    “Oh, grazie.”
    “Allura non la chiude mai, sa che noi non usciamo di notte. Alcuni di noi non escono mai in generale. Questo perché stiamo bene qui, ci fidiamo di Allura e lei ci tratta bene. Tratta bene me,” precisò, come se lui fosse, a causa della sua condizione, un caso speciale.
    “Buon per voi,” ripeté Keith, e fece per uscire dalla porticina, ma Shiro vi si parò davanti in tutta la sua stazza. “Spostati,” Keith rognò piano.
    “Non voglio impedirti di uscire, o di rimanere qui se non vuoi,” mormorò Shiro piano. “Ma vorrei che riflettessi sulle possibilità. Non saresti intrappolato qui, avresti sempre la possibilità di uscire, di essere libero, ma allo stesso tempo avresti un tetto sulla testa, del cibo sempre pronto ad aspettarti, un posto comodo dove dormire e ripararti dal freddo e dalle intemperie. A me sembra un buon affare.”
    “Spostati,” disse ancora Keith, “o ti farò spostare io.”
    A quel punto, Shiro divenne arrogante. “Perché pensi di esserne in grado?”
    Keith si appiattì sul pavimento, coda bassa, orecchie basse, occhi intenti: era più piccolo, ma sicuramente più agile e rapido, e soprattutto aveva una zampa in più, vantaggio da non sottovalutare. Eppure, quando tentò di attaccarlo, praticamente non riuscì a spostarlo, anzi, si ritrovò atterrato in men che non si dica. Ci provò una, due, tre volte, ma il risultato non cambiò, anche se Shiro lo lasciò sempre andare abbastanza in fretta.
    “Ti arrendi?”
    Keith rilasciò un borbottio confuso.
    “Visto che ho vinto, rispondi alla mia domanda,” disse Shiro. “Perché non vuoi restare? Cosa c’è che non va qui? Anche solo per avere cibo, un riparo…”
    “Mi sono stancato,” ammise allora Keith. “Tanto è sempre la solita storia, la gente prende i gatti, poi li molla in mezzo alla strada alla prima occasione.”
    “Questo è quello che è successo a te?”
    “Questo è quello che succede a tutti,” rispose Keith.
    “Anche a me,” ammise allora Shiro, “ma non per questo penso che gli esseri umani siano tutti uguali. Ci sono sicuramente dei farabutti, ma Allura ha preso me quando nessuno voleva adottarmi, quando i miei vecchi padroni non pensavano valessi più niente.”
    “Però immagino che prima i tuoi vecchi padroni ti volessero bene, ti coccolassero.”
    “Non come Allura.”
    Keith fece uno sbuffo. “Senti, mia madre mi ha abbandonato quando ero ancora un cucciolino. Una volontaria si è presa cura di me, ma non poteva tenermi, allora sono finito come regalo a una bambina che dopo due mesi si è stancata di me. Per non abbandonarmi in mezzo alla strada, il vicino di casa si è offerto di prenderli, ma è morto dopo altri due mesi, non so bene perché, lavoro. A quel punto volevano portarmi al gattile, e sono scappato.”
    “Mi dispiace.”
    “Non è niente di che,” rispose Keith. “Non è una storia peggiore di altre. Ma il punto è che non posso più correre il rischio. Ho già sofferto tre volte, non intendo provare una quarta. Tanto la gente prima o poi ti abbandona, tanto vale imparare a vivere per conto proprio.”
    “Io non ti abbandonerò mai, lo prometto,” affermò Shiro, ma poi si scostò leggermente dalla porticina. Con uno sguardo un po’ perplesso, Keith camminò verso la porticina poi, per non rischiare che Shiro lo fermasse, vi si buttò dentro. Quasi ruzzolò giù per le scale, poi si ritrovò nel giardino della villetta: scavalcò il cancello e se la lasciò alle spalle.
    Girovagò un po’ nel quartiere finché non raggiunse un luogo più a lui familiare, che era il parco dove aveva il suo ultimo ricordo prima di risvegliarsi dal veterinario. Aveva la pancia piena e nessuna necessità di mettersi a cacciare, per cui decise di indagare se in quel luogo ci fosse un posto sicuro dove dormire, e lo trovò nell’incavo di un vecchio tronco, dove si accomodò per riposarsi quando stava albeggiando.
    Venne risvegliato all’odore di qualcosa di buono, carne, ma non la carne putrefatta dei cassonetti, questa sapeva di fresco e di speciale. Uscì cautamente dal suo nascondiglio e trovò Shiro di fronte a lui, che aveva in bocca qualcosa di non troppo piccolo che emanava quel buon odore.
    “Come mi hai trovato?” gli chiese Keith.
    “Ho seguito il tuo odore,” disse Shiro, dopo che ebbe poggiato a terra il pezzo che aveva in bocca. “Questo è per te.”
    “Sei venuto fin qui solo per portarmi questo?” domandò Keith.
    “Certo,” rispose Shiro, quasi stupito per la domanda. “Avevo detto che non ti avrei abbandonato, e non ho intenzione di farlo. Per ora, almeno, mi posso assicurare che tu non rimanga senza cibo.”
    “Non starò in questo parco in eterno,” gli fece presente Keith.
    “Ti seguirò lo stesso,” ribatté Shiro. “Solo non andare troppo lontano da far marcire il cibo.”
    L’odore era troppo buono, Keith si avvicinò cautamente, lo annusò, lo leccò, infine gli diede un piccolo morso; non aveva mai assaggiato qualcosa di così buono.
    “La tua padrona ti dà robe da mangiare così buone?”
    “No,” rispose Shiro, e per una volta sembrò imbarazzato. “Hunk sa come aprire il frigo e io ho pensato… che fosse più carino portarti quello.”
    “Grazie.” Fece Keith. Lo prese in bocca e se lo portò via, correndo senza nemmeno voltarsi. Shiro non lo seguì, ma in seguito in quella giornata lo vide spesso passeggiare nel parco, come se sapesse della presenza di Keith e lo sorvegliasse a distanza.

    Per diversi mesi le cose continuarono in quella maniera. Keith rimase nella zona, era una zona tranquilla, pochi cani randagi, la maggior parte dei gatti era domestico quindi non entrava nel suo territorio. Ogni giorno, di solito la mattina, Shiro gli portava qualcosa da mangiare.
    Non erano sempre le prelibatezza della prima volta, perché, come Shiro gli aveva spiegato, Allura se ne sarebbe accorta e allora non avrebbe potuto portargliele mai più. Ma era abbastanza per riempirsi la pancia, di modo che Keith non aveva davvero necessità di procacciarsi il cibo da solo. Continuava a cacciare per il gusto di farlo e di rimanere attivo, non perché ne avesse bisogno.
    Shiro veniva anche se pioveva, anzi, soprattutto se pioveva. Keith immaginava che la sua padrona non fosse felice di vederlo tornare a casa tutto bagnato, ma lui scuoteva la testa.
    “Ho fatto una promessa e ho intenzione di mantenerla.”

    Una sera Keith aveva particolarmente freddo. Era ormai arrivato l’inverno, ed era piovuto quando Keith era lontano dal suo nascondiglio, quindi si era inzuppato completamente e l’albero secco non forniva il calore necessario. Shiro sarebbe passato la mattina dopo, a quel punto l’avrebbe trovato morto.
    Così Keith prese una decisione: rifece la strada che si ricordava bene e raggiunse la villetta dove Shiro abitava. La porticina era aperta: entrò. Shiro notò la sua presenza immediatamente e lo raggiunse, con un’occhiata preoccupata alle sue condizioni. Non disse né chiese niente, si spostò e Keith lo seguì senza chiedere.
    Si accomodò su una cesta morbida, vicino a una fonte di calore. Con lentezza, Keith si raggomitolò al suo fianco, sentendo immediatamente il calore invadere il suo corpo intirizzito. Shiro, con delicatezza, gli accarezzò la pelliccia nera per tentare di asciugarlo.
    “Benvenuto a casa,” gli disse Shiro, senza interrompere il lavoro.
    Keith gli credé.
  9. .
    Quando si erano incontrati per la prima volta, Shiro aveva dieci anni, Keith sei. Suo padre era appena morto e i servizi sociali l’avevano portato in orfanotrofio.
    Shiro si ricordava quel giorno come se fosse capitato il giorno prima. Keith camminava con gli occhi bassi, non guardava nessuno, a malapena ascoltava quello che le volontarie gli stavano dicendo. Però capiva tutto, capiva la situazione in cui era e anche quello che sarebbe successo dopo. Quello Shiro, al contrario di tutti gli adulti presenti, che consideravano Keith ancora bloccato dallo choc, lo capì subito.
    Lo capì nel momento in cui finalmente alzò gli occhi e lo guardò. Aveva degli occhi azzurri, grazi e profondi, e in quel momento erano pieni di fuoco, un fuoco ardente di chi sta nascondendo un grande dolore sotto un immenso desiderio di sopravvivere a tutto e tutti.
    Quello fu il momento in cui Shiro decise che doveva diventare suo amico.
    Non fu un’impresa facile, perché Keith non si faceva avvicinare da nessuno, parlava a malapena con le volontarie, e nemmeno la psicologa capiva cosa fare con lui. Shiro sapeva che Keith voleva solo essere lasciato in pace con il suo dolore, che non aveva bisogno di nessuno che tentasse di consolarlo, o che gli dicesse che piangere era okay.
    Shiro voleva che Keith sapesse di non essere solo veramente.
    “Io non ho bisogno di te,” gli disse Keith una volta, all’ennesimo tentativo di Shiro di coinvolgerlo nella sua nuova passione, la lettura di un libro che gli insegnanti ritenevano difficilissimo, Il Signore degli Anelli.
    “Tutti abbiamo bisogno di qualcuno nella nostra vita,” disse Shiro.
    “Tu nemmeno mi conosci.”
    “È vero,” rispose Shiro. “Ma sarò tuo amico.”
    Keith rilasciò una smorfia, ed era l’espressione più genuina che avesse avuto da quando era arrivato all’orfanotrofio.
    “Che cosa c’è di così divertente?”
    “Io non voglio nessuno,” disse Keith, “perché tutti prima o poi ti lasciano, anche quelli che dicono di volerti bene. Mia madre mi voleva bene, e se n’è andata, mio padre mi voleva bene, ed è morto. Quindi, io non voglio avere più nessuno.”
    E Shiro capì che quel chiudersi in sé stesso non era una malattia, non era per tristezza o per orgoglio. Era la consapevolezza di qualcuno che aveva già perso tutto e non voleva soffrire di nuovo, per cui preferiva vivere la vita da solo, e non rischiare di soffrire più.
    “Io non ti abbandonerò,” dichiarò Shiro. “Te lo prometto.”
    Keith lo guardò come se sembrasse non credergli, come se trovasse la reazione di Shiro insensata, ma allo stesso modo c’era in quello sguardo anche un’emozione nuova, una piccola fiammella di speranza che si stava accendendo al vedere Shiro che era così insistente per lui e solo per lui. Forse Keith non era così irrecuperabile come tutti pensavano, e Shiro era uno dei pochi che aveva anche potuto vedere un aspetto di Keith differente, quello intelligente, quello del bambino che sicuramente sarebbe diventato se non gli fossero accadute queste disgrazie.
    Shiro passò i due anni successivi a cercare di dimostrargli che la sua promessa era veritiera, che non l’avrebbe abbandonato mai.

    Haxus venne introdotto nella stanza da uno dei tirapiedi del boss: la stanza era grande, all’interno di un vecchio magazzino abbandonato alla periferia della città. Era notte, e le luci della stanza erano tenute volutamente spente, in modo che l’intera aula vuota sembrasse ancora più spettrale, illuminata com’era dal solo arrivare della luce esterna, fra stelle e lampioni.
    Tutto in quella situazione spiccava una falsa forza ostentata, come se si trovassero in un film di gangster o di vampiri. C’era un’unica poltrona rossa, quasi al termine del capannone, poggiata su una piattaforma rialzata, e Takashi “Shiro” Shirogane, il nuovo boss della zona, sedeva lì come su un trono, la testa mollemente appoggiata sul braccio sinistro che stava sul bracciolo, mentre quello destro era mollemente adagiato – per chi non lo sapesse, poteva sembrare reale, ma era solo un braccio prostetico di ultima generazione.
    Guardava in avanti, ma non sembrava avere il focus veramente su Haxus, anche se lui sapeva che avrebbe potuto attaccarlo con il braccio sinistro da solo, se avesse voluto.
    Seduto sull’altro bracciolo stava Keith Koh, impassibile e immobile come una statua di cera. C’erano tante voci, tutte diverse, su Keith Koh e sulle sue abilità, ma tutti concordavano in una cosa: lui, nell’organizzazione, non era altro che la puttana del boss, che come altro difetto aveva anche quello di essere ricchione.
    D’altronde, Keith Koh era solo un mezzo uomo. Aveva il culo di una ragazza, il viso di una ragazza, delicato e liscio, senza un’ombra di barba, e il fisico minuto, leggiadro. Teneva anche il capelli lunghi fino alle spalle. C’era chi giurava di averlo visto ballare a un party privato, fare la pole dance, insomma, agitarsi come avrebbe fatto una puttana. Molti si domandavano se avesse davvero le palle.
    Però Shiro lo teneva in grande considerazione, non lo mollava mai. Quanto una puttana può tenere un uomo per le palle era davvero incredibile. Keith Koh conosceva praticamente tutti i segreti più reconditi di Shiro, e chiunque avrebbe potuto portarlo dalla orpria parte probabilmente avrebbe anche rovinato Shiro. Ma difficilmente era lontano dal fianco di Shiro, e le poche volte che lo era, apparentemente nessuno era riuscito a muovere un dito contro di lui.
    Haxus credeva che fosse perché non ci avevano provato abbastanza.
    “So che dovevi parlarmi?” disse allora Shiro, senza spostarsi di un millimetro dalla propria posizione. Keith Koh aveva gli occhi fissi su Haxus, con la stessa posizione impassibile: quella sera indossava un top nero e dei pantaloni in latex con gli stivali col tacco a spillo, giusto per rimarcare ancora di più il suo ruolo nell’organizzazione.
    “Sì, vengo direttamente da Lord Zarkon in persona.” Haxus scoccò un’occhiata a Koh, che non si era mosso, anzi aveva spostato leggermente la gamba per sfiorare quella di Shiro. “Si tratta di un argomento importante, per cui ho necessità di parlarvene in privato.”
    “Parla, allora.”
    “Vorrei chiedervi se possiamo rimanere da soli.”
    “È la presenza di Keith che ti turba?” Dopo quella domanda, Shiro si voltò e prese il volto di Keith con le sue due dita, lo avvicinò a sé e lo baciò con trasporto. Koh lo lasciò fare, in maniera quasi meccanica, ma dopo si spostò per sedersi sulle ginocchia di Shiro, come se nulla fosse. Shiro gli accarezzò i capelli mentre continuava a parlare, “parlare con Keith presente o assente è la stessa cosa. Lui è parte di me.”
    Ad Haxus non piaceva l’idea di dover dividere il suo tempo con quella puttana, ma non aveva altra scelta che abbassarsi agli ordini di Shiro. Annuì.
    “Lord Zarkon è venuto a sapere che sulla Quarta Avenue i negozianti hanno smesso di pagare il pizzo,” disse allora. “Abbiamo mandato una squadriglia, come i gentiluomini fanno di questi tempi, e nessuno di loro è tornato. Ad un’indagine più approfondita, i negozianti hanno dichiarato di non avere più necessità della protezione di Lord Zarkon, perché adesso voi siete il loro protettore, Mister Shirogane.”
    Shiro aveva mollemente baciato Keith sulla spalla, e sembrava non aver ascoltato alcuna parola pronunciata da Haxus. Poi però disse, “hai finito?”
    “No, signore,” rispose Haxus. “Ma vorrei sapere da voi se quello che i negozianti dicono è vero o è solo un’illazione.”
    “È tutto vero,” rispose Shiro. “Sulla Quarta Avenue c’erano un paio di negozi che mi interessavano, un buon ristorante, anche. La volevo e me la sono presa.”
    Haxus non si aspettava un’ammissione di colpa così diretta da parte di Shiro, di norma quando si combattevano guerre tra bande rivali era tutto molto più sporco. Quello che Haxus si aspettava, e che si aspettava anche Zarkon quando l’aveva mandato a parlare con Shiro, era un tergiversare, un negare, fino a raggiungere un accordo per cui Shiro si sarebbe ritirato dalla Quarta Avenue (senza mai ammettere di essersi allargato fin lì) e avrebbe ottenuto un’area minore, a cui Zarkon non mirava.
    Ora Haxus aveva difficoltà su come reagire.
    “Voi capite bene che questa situazione mi mette in una situazione di disagio,” provò a dire. “Storicamente la nostra città è sempre stata di proprietà dei Galra. Sono capitate in passato bande rivali, a cui magnanimamente abbiamo concesso degli spazi in cambio di lavori e favori, ma non abbiamo mai ammesso che qualcuno rubasse i nostri territori.”
    Doveva mettere ben in chiaro che, se Shiro poteva ancora imperversare in città e nessuno l’aveva ancora ammazzato e fatto a pezzi, era perché Zarkon non lo riteneva degno di sprecarci del tempo, e non perché avesse una qualche autorità su di loro.
    “Evidentemente non è vero, se è una cosa che ho appena fatto,” mormorò Shiro, suadente, mentre baciava il collo di Koh e lui si piegava, gemendo leggermente al tocco. Era una scena disgustosa.
    “Questa cosa avrà delle conseguenze.”
    “Come la squadriglia che avete mandato, e che abbiamo fatto a pezzi?” rispose Shiro. “Volete che vi dica dove abbiamo nascosto i corpi? Sempre che sia rimasto ancora qualcosa, a questo punto.”
    “Lord Zarkno mi aveva mandato qui con le migliori intenzioni,” tentò ancora Haxus. “Voleva una tregua, perché vi stima, e credeva che potesse essere positivo se voi lavoraste assieme ai Galra. Non so se sarà ancora d’accordo dopo questa ammissione, ma forse ne potremo discutere.”
    “Se era interessato, poteva venire lui in persona invece di mandare uno dei suoi leccapiedi,” commentò Shiro, come se stesse più parlando a Koh che a Haxus.
    E infatti Koh rispose, “e nemmeno uno di quelli importanti, tra i leccapiedi. Il leccapiedi di un leccapiedi.”
    Ad Haxus non fece piacere l’idea di essere insultato da una puttana. “Zitta, puttana. Tu non sai chi sono io.”
    Koh gli scoccò un’occhiata, un misto di indifferenza e disprezzo, come se valutasse così poco la vita di Haxus da non essere nemmeno toccato da un suo insulto. Ma furono gli occhi di Shiro a lampeggiare per l’insulto, quasi spaventosi in quella semi oscurità. Scostò Koh dalle sue ginocchia e si alzò.
    “Ascoltami bene. Io non devo niente a Zarkon, casomai è lui che mi deve un braccio e un anno di vita. Questa città mi piace, e ho intenzione di prendermela, che a Zarkon piaccia oppure no. Ora, tu hai due scelte: andare da Zarkon a dirgli che la soluzione migliore è scatenare una guerra, nel qual caso creperete tutti tra atroci sofferenze, oppure accettare che avete fatto il vostro tempo e ritirarvi finché siete ancora in tempo. Avete abbastanza soldi da andarvene con dignità.”
    Per alcuni, infiniti minuti, Haxus rimase paralizzato dalla paura. Shiro torreggiava sopra di lui, ed era alto e grosso, e spaventoso nella semi oscurità, con quella cicatrice che gli attraversava il viso e che dimostrava che era sopravvissuto all’inferno ed era ritornato.
    Poi, dato che non aveva fatto cenno ad attaccarlo in qualche modo, annuì in maniera forse fin troppo servile. “Riferirò a Lord Zarkon quello che avete detto, e tornerò con la sua risposta.”
    “Non è necessario che torni,” disse Shiro. “Voglio che ve ne andiate entro la settimana, non c’è bisogno che veniate a dirmelo, io lo saprò. Ora vai, prima che cambi idea e decida di farti a pezzi qui e subito.”
    “Sì, signore.”
    Camminò all’indietro, senza mai dare la schiena a quell’uomo spaventoso, che invece era tornato a prendersi Koh in braccio e se l’era appoggiato sulle gambe. Prima di poter lasciare il magazzino abbandonato, poté osservare con dovizia di particolari, più di quanti ne volesse, come Koh allargava le gambe di fronte a Shiro, e muoveva il culo ben evidenziato dai pantaloni in latex sulle sue ginocchia.
    Come un uomo così spaventoso come Shirogane avesse preso quella puttana con sé, era un mistero. Ma forse era un punto debole che potevano utilizzare nella guerra che sicuramente sarebbe scoppiata, perché non c’erano dubbi nella mente di Haxus che Zarkon non avrebbe mai e poi mai accettato l’ultimatum che Shiro gli aveva dato.
    Ci sarebbe stata una guerra.
    Haxus doveva immediatamente tornare alla base e avvertire, se non Lord Zarkon, almeno Sendak, in modo che potessero procedere immediatamente. La guardia all’ingresso del magazzino lo fece uscire, e gli restituì la pistola come se non lo vedesse come una minaccia. Haxus fu tentato di fare il primo passo di quella guerra e sparargli, ma alla fine non lo fece.
    Sempre con la pistola in pugno per sicurezza, salì nella sua macchina, partì per tornare verso casa.
    All’interno del magazzino, Koh smise di baciare Shiro nel momento in cui sentirono l’auto sgommare via. Lo guardò, con dolcezza, sorridendo.
    “Vuoi davvero che Haxus vada a dire a Zarkon che gli hai dichiarato guerra?”
    “Forse sono stato un po’ precipitoso,” ammise Shiro. “Ma non mi piace la gente che ti insulta.”
    “Mi pare che ci sono abituato, tu non ti devi preoccupare per me,” rispose Keith. “Ma grazie.”
    Si baciarono di nuovo, Shiro tenne saldamente la sua mano sul collo di Keith. Poi gli disse, “va’, prima che Haxus dica qualcosa a qualcuno. E non voglio il suo cadavere da nessuna parte.”
    “Ma così penseranno che l’hai ammazzato tu.” Keith scese dalle sue ginocchia.
    “Lo penseranno comunque.”
    “Non se lascio il cadavere da qualche altra parte.”
    Shiro sorrise. “Mi fido di te,” disse.
    Keith prese il suo giubbotto di pelle, il suo casco, lasciò il magazzino. Prese la sua moto, nera come la notte, e partì per il centro della città, seguendo la scia dell’auto di Haxus, su cui avevano impiantato una microspia.

    Due anni dopo l’arrivo di Keith in orfanotrofio, le responsabili trovarono una famiglia che poteva tenerlo in stallo, per poi eventualmente procedere con un’adozione successiva. Anche se Keith non aveva mai mostrato socialità né voglia di fare amicizia, era un bambino di otto anni, perfettamente sano e, nell’opinione delle responsabili (ma Shiro era d’accordo), anche esteticamente gradevole.
    Così aveva avuto la sua richiesta di affido, mentre Shiro, che era in orfanotrofio da più anni ed era più grande di Keith, ancora aspettava. Nessuno voleva prendersi la responsabilità di un bambino con una malattia genetica, che, per quanto Shiro non mostrasse al momento alcun sintomo, l’avrebbe probabilmente ucciso prematuramente o almeno costretto a cure costose che nessuno voleva prendersi carico.
    Shiro, lo sapeva bene anche se le volontarie cercavano di non farsi sentire quanto parlavano di lui, sapeva che il suo destino sarebbe stato finire in strada a diciott’anni, appena l’orfanotrofio non avrebbe avuto più obblighi dei suoi confronti, e non sarebbe mai stato curato.
    Keith prese ovviamente molto male la storia dell’adozione. Non gli interessava lasciare l’orfanotrofio in sé, ma non poteva tollerare di essere separato da Shiro. Pianse, strepitò, prese persino a calci e morsi la psicologa che tentò di portarlo a forza fuori della stanza per andare con i suoi nuovi genitori.
    Inizialmente, Shiro fu dalla sua parte, tentò di proteggerlo tenendolo abbracciato e cercando di scacciare via chiunque si avvicinasse a lui per prenderlo. Alla fine riuscirono a separarli e Shiro fu trascinato a forza da un’altra parte, da cui poteva sentire chiaramente le urla di Keith: non stava piangendo, quello no, ma sembrava che lo stessero ammazzando, e Shiro digrignò i denti come un cane rabbioso.
    “Ascoltami bene, Takashi,” disse la responsabile, “tu sei più grande e queste cose le dovresti capire. Non è bello crescere in un orfanotrofio. Keith adesso ha la possibilità di avere una famiglia che si prenda cura di lui, una cosa, un padre e una madre. Potrà tornare a scuola, forse andare al college, diventare qualcuno. tu non vuoi negargli questo diritto, vero? Se gli vuoi bene, devi lasciarlo andare.”
    Shiro visse l’intera questione come un tradimento alla fiducia di Keith. Ma, dopo averci riflettuto, capì che la responsabile non diceva poi cose sbagliate. Forse per Keith poteva davvero essere il punto di svolta per non rischiare di diventare come Shiro.
    Inoltre, per il poco che Keith gli aveva detto, i genitori adottivi sembravano delle brave persone, anche di un ceto sociale non basso, il che avrebbe permesso a Keith di accedere a cose che a loro erano sempre state negate: scuola, videogiochi, sport, vestiti nuovi.
    Glielo disse, e Keith lo guardò con orrore. “Lo sapevo che mi avresti abbandonato anche tu, alla fine!”
    “No, no, no!” Shiro lo prese e lo strinse a sé. “Io non ti voglio abbandonare, noi due saremo amici per sempre, io continuerò a scriverti, a chiamarti, e ti verrò a cercare quando usciremo da qui, starò sempre con te, io non ti abbandonerò mai, questo devi saperlo, sempre.”
    Ci vollero due giorni prima che Keith si calmasse e finalmente andasse con i suoi genitori. Con loro fu chiaro fin dal principio, “io voglio bene solo a Shiro. Vi odio che mi separate da lui.”
    La responsabile venne in loro soccorso. “Shiro è un altro dei bambini di qui. Lui e Keith sono molto affezionati, Keith lo vede come un fratello maggiore. Non vi sto chiedendo di adottarli entrambi, ma credo che sia positivo per la psiche di Keith se voi gli permetteste di continuare a comunicare con Shiro.”
    Non disse quello che temeva, ma di cui aveva parlato con le sue colleghe, che Keith avrebbe potuto scappare di casa per tornare da Shiro, altrimenti. Ma i genitori adottivi di Keith sembrarono accettare la spiegazione senza troppi problemi, e per i primi tempi Keith chiamava Shiro in orfanotrofio tutte le sere.
    Poi le chiamate divennero più sporadiche, ma perché Keith aveva iniziato la scuola e prendeva pure lezioni di pianoforte e di disegno. Aveva una vita molto impegnata, ma si trovava bene, faceva cose che non aveva mai fatto ed era felice di poterle raccontare a Shiro ogni volta che poteva.
    “Ma io a loro non voglio bene,” gli disse un giorno. “Li ringrazio per quello che fanno, e loro sembrano contenti, ma io voglio bene solo a te.”
    Poi, un giorno, all’incirca un anno dopo, le chiamate smisero improvvisamente. Shiro non aveva il numero di telefono, a cui comunque non rispondeva più nessuno. Poiché la responsabile si rifiutava di verificare (forse era successo qualcosa a Keith, loro dovevano controllare) Shiro rubò i dati da solo. Al numero di telefono non rispondeva più nessuno.
    Era sicuro che la responsabile tacesse qualcosa di fondamentale.
    Una sera le sentì parlare, e capì che cosa era successo: loro pensavano che Keith stesse meglio senza Shiro, che non aveva un futuro. Ora che si era stabilizzato a casa dei suoi genitori, era inutile continuare la farsa con Shiro, era meglio che tagliassero i ponti.
    Non avevano capito nulla di Keith, né di Shiro. Con in tasca l’indirizzo della famiglia di Keith, Shiro scappò dall’orfanotrofio.

    Haxus aveva parcheggiato nella strada sotto il palazzo. Si era guardato intorno, ma non aveva visto nessuno. Allora era sceso, aveva tirato fuori le chiavi e aveva armeggiato con il grande portone di legno dell’appartamento di Sendak.
    La aprì quel tanto che bastava per sgusciare all’interno, e fece per richiuderla. Quel movimento veloce non bastò: improvvisamente qualcuno arrivò dietro di lui e lo spinse contro il muro, mentre la porta si chiudeva, nascondendoli a chi passava all’esterno. Haxus ebbe appena il tempo di capire che si trattava della puttana di Shirogane, prima che un coltello affilato gli trapassasse la gola, uccidendolo all’istante.
    Keith attese qualche minuto, per assicurarsi che Haxus fosse davvero morto e che nessuno l’avesse sentito. Gli frugò in tasca per recuperare la chiave dell’auto. Poi se lo caricò sulle spalle, uscì dal portone in fretta e lo gettò nel bagagliaio. Scaricò il corpo nel fiume fuori città, poi tornò indietro e portò l’auto nel quartiere dove stava la casa di Lotor, il figlio di Zarkon, che era in guerra abbastanza aperta con suo padre.
    Non era certo che Zarkon ci avrebbe creduto, ma si diceva che ogni ragione fosse buona per prendersela con il figlio. Ora l’unica cosa di cui aveva bisogno era un alibi.

    C’era un locale aperto ventiquattro ore su ventiquattro, vicino alla city. Era un panificio pasticceria molto frequentato dai giovani soprattutto il sabato sera, ma quando arrivavano le prime ore del mattino, era frequentato saltuariamente da alcuni operai che andavano al lavoro eccezionalmente presto. Il padrone, Hunk, che era quasi sempre in turno, era un vecchio conoscente di Keith e ormai pagava il pizzo a lui e a Shiro per essere difeso dagli attacchi di Zarkon.
    “Pagare mi tocca pagare comunque,” aveva detto una volta a Keith, una delle rare volte in cui Keith si era sentito improvvisamente in colpa per quello che facevano, “almeno voi siete più simpatici, e salutate quando entrate in negozio.”
    Quanto fosse difficile per quelli come Hunk in una città governata da bande criminali, Keith non poteva immaginarlo, ma anche lui aveva avuto la sua bella dose di guai, essendo praticamente un latitante minorenne in fuga, con solo Shiro a proteggerlo che praticamente era considerato il suo rapitore quando in realtà gli aveva salvato la vita.
    “Ciao, Hunk,” disse, entrando nel negozio. La sala era illuminata, ma i tavolini, alcuni dei quali ancora sporchi o con bicchieri vuoti abbandonati, erano completamente vuoti, perfetta situazione per quello che Keith voleva fare.
    “Keith, buonasera. O buongiorno, vista l’ora…” Hunk lo accolse come al solito sorridendo. “Ho appena sfornato dei muffin, fra poco arriveranno dei clienti abituali. Ne vuoi uno?”
    “Sì, grazie, con una tazza di latte caldo,” rispose Keith, con un cenno con la testa. “Posso usare un secondo il bagno?”
    “Certamente.” Hunk gli accennò col capo dalla porta della toilette, anche se Keith sapeva perfettamente dove si trovasse.
    Si chiuse la porta dietro di sé e si tolse in guanti che aveva utilizzato per non lasciare impronte da nessuna parte. Aveva lasciato il coltello dentro il cadavere, ma nel trasporto qualche goccia di sangue poteva essere caduta addosso. Con quei vestiti, era impossibile dirlo. Gettò con orrore i guanti nel cestino della spazzatura e si sciacquò mani e viso.
    Quando tornò, Hunk gli aveva apparecchiato uno dei tavoli più appartati, con il piattino del muffin e il bicchiere di latte caldo. Keith si sedette a mangiare, cercando di prendersi dieci minuti di rilassamento per sé. Mentre mangiava, un gruppo di operai entrò chiacchierando ad alta voce, ma nessuno di loro fece caso a Keith se non con rapide occhiate.
    Una volta che Hunk li ebbe serviti, Keith si avvicinò al bancone e gli passò due banconote da cento dollari, avvolte in modo che non sembrassero così tante.
    “Se te lo chiedono, sono stato qui tutta la notte.”
    Hunk si accorse subito di quanti soldi erano, ma li intascò comunque con velocità, senza nemmeno vattere ciglio, e gli consegnò uno scontrino da due dollari.
    “Non sei nei guai, vero?” gli sussurrò appena.
    “Non più del solito. Ciao, Hunk, grazie.”

    La casa di Keith era in un quartiere di quelli residenziali della città, con le case tutte monofamiliare e con il giardino davanti. Shiro si chiese se Keith avesse ottenuto finalmente il cane che desiderava da sempre. Trovò la casa quasi subito, di un bel colore rosa, con le siepi alte che nascondevano l’interno. Suonò al cancello, ma non rispose nessuno.
    Allora scavalcò il cancello. Il giardino era vuoto e silenzioso, niente cani, né giocattoli. Shiro fece il giro finché non trovò che la finestra della cucina era semiaperta. La forzò ed entrò: poteva essere che Keith e i suoi genitori fossero fuori di casa, ma lo avrebbe aspettato dentro. Sicuramente a quest’ora i responsabili dell’orfanotrofio lo stavano cercando, e lui aveva bisogno di un posto dove nascondersi.
    Keith gliel’avrebbe fornito.
    Girò il piano terra della casa, non c’era anima viva, non c’era nessuna traccia di Keith come si sarebbe aspettato. Poi salì al piano superiore, c’erano tre camere da letto e due bagni. In una delle camere, arredata, piena di libri e giocattoli, c’era Keith.
    I suoi occhi si allargarono quando lo vide. “Shiro? Che cosa ci fai qui?”
    “Non mi hai più chiamato,” disse Shiro. “Così sono venuto a cercarti.”
    Keith deglutì e aveva gli occhi inumiditi. Lo abbracciò forte. Shiro ricambiò e si accorse che gli era mancato, probabilmente più di quanto lui fosse mancato a Keith.
    “Scusa, scusami,” mormorò Keith. “Io… non sapevo cosa dirti… ma tu non mi hai abbandonato… sono così felice…” Poi il suo sguardo si fece duro. “Ma non puoi restare qui. Lui-”
    Si interruppe quando sentì la porta aprirsi al di sotto. “Nasconditi nell’armadio, presto. Parleremo dopo.”
    Shiro obbedì. Rimase nascosto dentro per ore, mentre sentiva vagamente Keith che parlava con i suoi genitori, che andavano a cena, che guardavano la televisione. La madre fu la prima ad andare a dormire, poi Keith raggiunse la sua camera.
    “Ti ho portato qualcosa,” disse, passandogli un pezzo di pane che aveva rubato a cena. “Ma non puoi restare.”
    “È tardi,” disse Shiro. “Non ti darò fastidio. Posso restare almeno per stanotte? Dormo per terra.”
    Alla fine Keith acconsentì, gli diede un cuscino e una coperta, e Shiro si infilò sotto il letto. Ma non si era ancora addormentato quando sentì qualcuno entrare nella stanza e chiudere la porta.
    “Per favore, non stasera…” mormorò Keith, con voce strozzata.
    “Ma io ho voglia adesso,” rispose l’uomo, forse il padre. “E tu sei un bravo bambino, e non vuoi deludere i tuoi genitori, vero? Vieni qui…”
    Shiro ci mise un attimo a capire, ma percepì in maniera molto nitida il soffocato singhiozzò di Keith, e il fatto che l’uomo fosse seduto sul letto accanto a lui. Uscì dal suo nascondiglio e, sebbene nell’ombra della stanza, vide benissimo che l’uomo aveva abbassato i pantaloni a Keith e lo stava toccando come facevano i grandi nei film porno che i ragazzi grandi si spacciavano segretamente in orfanotrofio.
    Keith pareva disperato. Shiro non guardò nemmeno l’uomo in faccia, gli si avventò contro con tutta la forza che aveva, lo colpì con pugni e calci. Ma l’uomo era più forte e alla fine lo gettò a terra, e gli bloccò la gola con le mani. Shiro poteva sentire le lamentele di Keith mentre l’uomo premeva più a fondo, gli portava via il fiato… ma poi l’uomo si bloccò, emise un rantolo sordo e poi cadde a peso morto su Shiro, liberandolo dalla sua presa.
    Shiro se lo tolse da dosso e solo allora vide il coltello premuto nel collo dell’uomo,da cui usciva un filo di sangue. Era il coltello di Keith, l’unico ricordo di sua madre, che era riuscito a tenere nascosto fino a quel momento.
    “Ti stava facendo del male,” disse Keith. “Non l’avrei permesso. Mai.”
    “Grazie per avermi salvato.”
    Keith si tirò solo su i pantaloni, chiaramente imbarazzato. Shiro capì che non poteva fidarsi di nessuno ma di se stesso per proteggere Keith. Lo prese per mano.
    “Vieni.”
    E si lasciarono quella casa alle spalle senza alcun rimpianto.

    Tornò a casa: lui e Shiro abitavano in un appartamento direttamente nella city, ormai, un complesso ipertecnologico ben distante dalle storicità di cui si vantava Zarkon. Salutò appena il portiere, che era abituato ai suoi strani orari e ai suoi strani vestiti, e salì in appartamento.
    Shiro era già a letto, si era tolto il braccio di metallo che ora giaceva abbandonato a terra. Keith lo osservò per un attimo, semicoperto dal lenzuolo leggero; capiva dal ritmo del suo respiro che non stava dormendo profondamente, ma sonnecchiando, come faceva spesso quando Keith era in giro per qualche commissione e voleva provare ad aspettarlo ma il suo fisico non glielo permetteva.
    Si tolse giacca, top e pantaloni, cacciò gli stivali con un calcio, e poi si infilò sotto le coperte, stringendosi al corpo caldo di Shiro e accarezzandogli con dolcezza i capelli.
    “Keith…?” mormorò Shiro, con la voce impastata da sonno, mentre sbatteva leggermente le palpebre per svegliarsi.
    “Shh,” sussurrò Keith, poggiandogli un leggero bacio sulla fronte. “Va tutto bene, sono qua, Haxus è sistemato. Puoi stare tranquillo.”
    Ora Shiro era completamente sveglio, e cinse il fianco di Keith con l’unico braccio a disposizione per tenerlo più vicino e lo baciò a lungo. “Scusami se ti ho messo di nuovo nei guai.”
    “Ho ucciso tante volte per te, Shiro,” disse Keith, “e lo farò ancora, ogni volta che sarà necessario. Lo sai, non è necessario che tu mi chieda scusa.”
    “Vero, ma potevo evitare di avere quella sfuriata con uno come Haxus.”
    “L’hai fatto per difendermi.” Keith si strinse accocolandosi al suo fianco, mettendo il viso nell’incavo del suo collo. “Come sempre.” Poi però gli chiese, serio. “Hai davvero intenzione di prenderti questa città e di far guerra a Zarkon?”
    Shiro esitò per un attimo. “Sì, vorrei farlo. Ho cercato una stabilità tutta la vita, ma non l’avremo mai finché ci sarà qualcuno a metterci i bastoni fra le ruote. Meritavi meglio di così, Keith… e io farò di tutto per darti quello che ti meriti.”
    “Lo sai che l’unica cosa che voglio da te sei tu, vero?”
    “Tu mi hai già.”
    “E che non me ne frega di uccidere se è per te.”
    “Lo so. Per questo voglio darti tutto quello che ti meriti. E che la gente smetta di chiamarti puttana.”
    “È meglio che lo credano, così mi sottovalutano.”
    “Mi fa incazzare lo stesso.” Poi baciò Keith di nuovo. “Domani convocheremo gli altri e inizieremo la strategia contro Zarkon. Poi dedicherò un giorno solamente a te, promesso.”
    Keith non disse nulla, chiuse gli occhi, si abbandonò contro il suo petto. Shiro aveva sempre fatto tutto per lui, era venuto a salvarlo dal padre abusivo e da quel momento si era preso sempre cura di lui, anche accettando lavori criminali che alla fine l’avevano portato a perdere il braccio.
    Non l’avrebbe mai ringraziato abbastanza, e per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa, senza alcun rimorso o ripensamento. Chiedeva solo di non essere abbandonato, di restare sempre al suo fianco, come gli aveva promesso quella prima volta quando si erano incontrati all’orfanotrofio.
    Era un sogno semplice di una vita semplice.
    Ma forse domani sarebbero stati assassinati assieme, chissà. L’unica cosa che Keith chiedeva in quei momenti, è di morire prima di Shiro. Un mondo senza di lui non l’avrebbe sopportato. E avrebbero dovuto ammazzare lui prima di arrivare a Shiro.
  10. .
    Capitolo 1

    Il Nilo aveva appena strabordato, lasciando i contadini a dedicarsi ad altre opere che non fossero la coltivazione, quando il padre di Keith decise che avrebbero lasciato Alessandria.
    Fu, come al solito, una decisione improvvisa, a cui Keith era abituato. Da quando era nato, non si ricordava di aver trascorso in uno stesso posto più di un paio d’anni. Suo padre era un fenicio, un punico della vecchia guardia, e gli raccontava spesso di come i suoi antenati avevano colonizzato il mediterraneo con i loro traffici. Per suo padre, viaggiare era una necessità intrinseca, ed era solo per amore del figlio che si sforzava almeno di restare oltre l’anno nella città dove si spostava di volta in volta.
    La strategia era sempre la stessa: arrivavano in un posto e si stabilivano in una bottega, anche mobile, in cui vendevano i prodotti che avevano portato con sé dalla città precedente. Dopodiché, con gli accordi che avevano stabilito, continuavano a commerciare i prodotti che andavano per la maggiore, contemporaneamente stabilendo nuovi accordi che sarebbero loro serviti alla prossima destinazione. Grazie a questo Keith era in grado di parlare fluentemente diverse lingue.
    Così, quando suo padre tornò in bottega la sera, e gli disse, “domani non serve che apri. Partiamo.” Keith non si scompose minimamente.
    La mattina dopo, meticolosamente, iniziò a visitare tutte le botteghe vicine per riuscire a vendere gli ultimi avanzi del loro magazzino, e impacchettò il poco che era rimasto. Suo padre tornò la sera, dopo essersi accordato con altri mercanti sulle merci da portare con loro: birra, melograni, profumi particolari.
    Partirono la mattina dopo, su una nave di un vecchio amico di suo padre, dopo aver caricato le loro ultime cose. Erano per la maggior parte merci, Keith non aveva con sé che una sacca con un paio di vestiti e alcuni oggetti personali.
    “Dove andiamo?” chiese infine a suo padre, una volta che la nave fu salpata e Alessandria iniziò a essere solo un puntino nero in lontananza.
    “Cartagine,” rispose suo padre, con un ampio sorriso.
    Per i fenici, Cartagine era considerata la capitale, anche se non esisteva un vero regno dei fenici. Ma Cartagine era la città più grande e più potente che vantasse un’origine fenicia, e aveva mantenuto la potenza commerciale oltre i greci, oltre Alessandro Magno, e continuava a prosperare nonostante le sconfitte recenti subite contro Roma. Ma suo padre aveva sempre evitato di recarvisi, fino a quel momento, preferendo restare generalmente verso est.
    “Vedi, c’è stata una breve crisi,” continuò suo padre, “le guerre d’Italia hanno portato molta morte all’interno della città. Hanno bisogno di nuova energia, nuovi mercanti, per riprendersi. Possiamo dare una mano, nel nostro piccolo, per loro. Ed è una bella città, più organizzata di Alessandria, io ci sono stati diverse volte da giovane e mi è sempre rimasta nel cuore.”
    “È lì che hai conosciuto la mamma?” domandò Keith. Era un po’ una domanda tabù fra di loro, il padre ne parlava sempre bene, come di una donna straordinaria, ma allo stesso tempo non amava quando Keith faceva domande più precise, come se volesse cancellare il suo ricordo.
    “No, no, non lì,” rispose suo padre. “Da tutt’altra parte l’ho incontrata. E non ero da lei per lavoro, ma per altre ragioni. Le devo molto, di quel periodo, ma è un tempo passato.”
    Keith capì che non avrebbe rivelato molto di più e quindi tacque. Nonostante il vagabondare dei sedici anni di Keith, non erano mai passati nel luogo dove i suoi genitori si erano incontrati. Keith sospettava che non volesse tornarci per alcun motivo, e Keith non gli chiese mai dove fosse quel luogo finché non fu troppo tardi.

    Cartagine si rivelò una città più educata e ordinata di Alessandria, così come suo padre gli aveva detto. Là dove Alessandria subiva il territorio del Nilo, il fango delle strade e il modo accecante in cui i templi erano costruiti, con quei colori che brillavano al sole, Cartagine sopportava meglio il clima caldo, con sistemi che derivavano in maniera ancora maggiore dai greci. Entrambe le città subivano nell’ordinamento delle strade la loro crescita rapida e incontrollata, ma Alessandria sguazzava in quell’ordine come se volesse negarsi allo spettatore, mentre Cartagine ti attirava al suo interno.
    Suo padre sembrava entusiasta della situazione: affittò immediatamente una piccola bottega con un appartamento al piano superiore di due stanze, e si diede da fare per aprire l’attività. Subiva sempre quella trasformazione ogni volta che giungevano in un posto nuovo. Per Keith, un posto valeva l’altro, non c’era mai stato un luogo a cui si sentisse di appartenere, e allo stesso tempo sapeva che affezionarsi a un luogo che avrebbe lasciato in poco tempo era inutile.
    Si gettò, come al solito, nel lavoro e nell’imparare gli usi e i costumi locali. Il commercio andava abbastanza bene, forse meno di quanto era ad Alessandria per via dell’aumento di pirati che attaccavano le navi, ma non così abbastanza da ridurli a una vita di povertà. No, quello per cui Keith era preoccupato non era certo la povertà, che aveva già affrontato in passato, ma la guerra.
    Se ne sentiva parlare in continuazione, per le strade, nei locali, nei negozi. Erano tutti certi che un ulteriore attacco a Roma sarebbe stato necessario per ristabilire la propria antonimia. Questo se Roma non avesse attaccato per prima, il che era altrettanto se non più probabile.
    Non gli era mai capitato di finire in una città preda della guerra, suo padre aveva abbastanza intuito per evitare quelle situazioni, ma forse in questo caso si era sbagliato, accecato dalla bellezza e dalla leggenda di Cartagine.
    Una sera tornò a casa dalle sue commissioni al porto. Aveva con sé una sacca con delle provviste durevoli, molte più di quelle che servivano a loro giornalmente.
    “Vai a prendere l’acqua,” ordinò a Keith, “prendine quanta te ne può bastare per almeno una settimana.”
    Non chiese, obbedì. Quando tornò, suo padre aveva sprangato la porta della bottega e le finestre del piano superiore. Poi aveva preso la sua sacca, quella dove aveva ancora la sua vecchia spada e il suo vecchio scudo, che non usava da anni.
    “Che cosa sta succedendo?” chiese allora Keith, che aveva già intuito la risposta.
    “Hanno iniziato il raduno per l’esercito,” disse suo padre, stancamente. “Credono che un attacco sia imminente, e hanno chiesto a tutta la cittadinanza di radunare gli uomini e i ragazzi oltre una certa età.”
    A quel punto Keith capì che cosa suo padre stava facendo.
    “Voglio venire con te.”
    “Assolutamente no,” rispose lui. “Tu rimarrai qui, non uscirai e non ti farai vedere da nessuno. Verrò a portarti altre provviste se la situazione emergenziale dovesse durare più del tempo previsto. Poi ce ne andremo appena possibile.”
    Non aspettò una risposta di Keith, lo abbracciò un’ultima volta, con forza, e poi uscì dalla porta senza voltarsi indietro.

    Per le successive due settimane, obbedì ai suoi ordini. La solitudine non gli pesava, era abituato a lavorare da solo, ma la mancanza sì. L’unica cosa che lo fece andare avanti in quel momento era che amava suo padre e non voleva deluderlo disobbedendo ai suoi ordini. Così rimase in casa, centellinò l’acqua per evitare di dover sgattaiolare fuori di notte a prenderla, mangiò il poco che aveva a disposizione.
    Poi, una mattina dopo le due settimane di solitudine, in cui suo padre non si era fatto vedere, suonò l’allarme. Si susseguirono numerose notizie non chiare, ma tutte riportavano lo sbarco dell’esercito romano e il fatto che i soldati si stessero muovendo per andare a fermali sulle sponde del mare, nella zona di Zama, guidati da Annibale.
    A quel punto, Keith decise che non poteva aspettare. Prese il suo sacco, si mise alla cinta il suo coltello, che aveva fin da bambino, e passò nella piazza principale. Le persone stavano continuando la loro vita come sempre, ma l’assenza di uomini, giovani e vecchi, era evidente. Keith usò i pochi soldi che gli erano rimasti per affittare un cavallo e la sua conoscenza della geografia gli permise di raggiungere Zama, un luogo dove un tempo sorgeva una città ma che ora era dedicato totalmente all’accampamento di Annibale.
    Capì subito di essere arrivato tardi, perché l’accampamento era vuoto tranne per qualche animale da soma, persino le donne o i contadini che aiutavano l’esercito erano scappati. Da lontano, poteva sentire i rumori della battaglia in corso. Non aveva con sé nulla, né sapeva alcunché delle strategie, ma si procurò almeno una spada e uno scudo, per quanto vecchi, dall’accampamento e poi seguì i rumori che sentiva.
    La battaglia imperversava, gli uomini non parevano altro che puntini neri o rossi in lontananza; gridavano, superavano a volte i garriti degli elefanti quando uno di loro cadeva, trafitto a morte dai soldati che gli si ammassavano attorno come formiche su una carcassa. Presi dal loro furore, nessuno notò Keith quando si unì alla lotta, d’altronde era un cavaliere solo, senza nemmeno l’armatura.
    Keith non sapeva bene che cosa stava facendo, sapeva solo che in quel mucchio doveva trovare suo padre e proteggerlo. Non aveva nulla, lui, né una casa né un posto dove stare, suo padre era ciò che gli rimaneva, per cui non poteva perderlo.
    Il suo cavallo venne abbattuto quasi subito, ma Keith fu rapido a riprendersi: non aveva mai partecipato a una guerra, ma si era sempre allenato, sapeva come si usava una spada e come si uccideva. I soldati romani – riconoscibili dal colore delle loro armature – lo puntavano, lo vedevano indifeso con solo la tunica di lino addosso, ma Keith era piccolo e agile, sapeva evitare i loro colpi e poi prenderli alla sprovvista, ferire le gambe in modo che cadessero a terra e lui potesse finirli. Intanto, si guardava intorno sperando di vedere il viso familiare di suo padre in mezzo a quelle facce sudate, sporche e insanguinate.
    Notò con la coda dell’occhio una spada che stava per calare su di lui, e si protesse con lo scudo. Lo sentì cedere sotto il peso del colpo, e se ne liberò giusto in tempo per non farsi tagliare il braccio, poi fece due passi indietro e alzò la spada per difendersi.
    L’uomo che gli stava davanti era imponente, alto come suo padre ma più massiccio, e portava una divisa romana scintillante al sole. I capelli bianchi brillavano nello stesso modo, rendendolo simile alle statue greche che Keith aveva visto nel suo peregrinare. Ma la cosa che colpì Keith maggiormente non fu la spada insanguinata, o il simbolo dell’autorità romana, ma il fatto che l’uomo combattesse, e fosse praticamente illeso, non avendo più il braccio destro.
    “Diffida dal romano senza un occhio, e ancora di più da quello senza un braccio,” aveva sentito dire dai cartaginesi, nel periodo in cui aveva vissuto libero nella loro città.
    Di istinto, digrignò i denti e strinse maggiormente la presa sulla sua spada, pronto all’attacco.
    Il romano lo guardò con curiosità. “Perché non hai l’armatura?” gli chiese, in latino, e Keith non seppe cosa rispondere, stupito dalla domanda casuale. “Non puoi capirmi, immagino…” aggiunse il romano, mal interpretando il tentennamento di Keith.
    Poi alzò la spada, e Keith dovette di nuovo proteggersi dai colpi feroci, ma si rese preso conto che il soldato non mirava a ucciderlo ma solo a disarmarlo. Non che questo rendesse meno difficile il combattimento, la spada pesava e proteggersi da quei colpi gli faceva dolere il braccio. Con un ultimo colpo, l’uomo riuscì a spezzargli la spada e Keith cadde all’indietro, nel fango. La punta della spada gli aveva sfiorato la guancia, aprendo un taglio profondo che ora sanguinava e lo pizzicava.
    Senza nemmeno alzarsi, Keith estrasse il pugnale dalla cinta.
    L’uomo alzò un sopracciglio, stupito dal vedere ancora resistenza. Ma era una resistenza fallace, perché mentre Keith tentava di alzarsi su, l’uomo, abbandonata la spada, lo afferrò per il braccio e gli torse il polso, praticamente immobilizzandolo.
    “Dove hai preso questo coltello?” e stavolta parlò in greco.
    “Lasciami,” protestò Keith.
    “L’hai rubato a qualche soldato? L’hai ucciso per prenderlo?”
    Keith gli tirò un calcio e il soldato fu costretto a lasciarlo andare. “Questo è mio, ce l’ho da quando sono bambino.”
    “Oh,” commentò solo il soldato.
    Del combattimento Keith non si ricordò altro, solo il duro del terreno su cui venne sbattuto prima di svenire, il fango che gli entrava nella bocca, quasi soffocandolo.
    Quando si svegliò, si ritrovò nel mucchio di quelli che alla battaglia erano sopravvissuti, ma avevano perso. Una corda gli stringeva i polsi assieme, un’altra il collo, ed entrambe erano collegate ad altre due persone al suo fianco, in una catena umana di prigionieri in cui era completamente bloccato. Il fango si era seccato quasi a comporre sulla sua pelle una seconda tunica rigida, puzzolente di terra e sangue, la ferita si stava rimarginando, bruciandogli la guancia.
    Aveva perso anche il suo coltello.
    Sperò che suo padre, almeno, facesse parte di quella catena.

    “Shiro,” Sendak accolse il collega soldato nella sua tenda. “Scipione non c’è, sta con Annibale a stabilire la tregua.”
    “Non sembri contento.” Shiro si lasciò sedere stancamente: era passata una notte dalla battaglia, ma non si era riposato molto, solo il tempo di cambiarsi di armatura e togliersi il fango e il sangue da addosso. Accettò ben volentieri il pane col garou e il vino che Sendak gli offrì.
    “Non lo sono,” disse infatti Sendak. “I cartaginesi sono una razza infida, non sono schietti e diretti come noi. Dagli un po’ di azione e torneranno più forti di prima. No, se fosse per me avrei già marciato su Cartagine e l’avrei rasa al suolo. Ma Scipione è soddisfatto e vuole chiuderla qui.”
    “L’avremo persa, questa battaglia,” fece notare Shiro. “Siamo stati fortunati.”
    “Siamo stati più forti.”
    “A un nemico valoroso bisogna concederne il merito.”
    Sendak ghignò nella sua direzione. “Sai che ti stimo come combattente, e non vorrei nessun altro sotto di me, ma un giorno questa tua bontà ti farà uccidere.”
    “Può darsi,” acconsentì Shiro, con casualità. “Ma abbiamo vinto, sono stanco e vorrei tornare a Roma. Se Scipione riesce a strappare una pace vantaggiosa, buon per lui.” Poi guardò Sendak negli occhi, “sai già cosa faremo di tutti i prigionieri catturati?”
    “Non credo che Scipione se li farà scappare, pace o non pace,” disse Sendak, dopo un sorso di vino. “Ma se mi stai chiedendo se verranno divisi all’esercito, o almeno ai comandanti, non so dirtelo. La guerra è costata molto, più probabilmente verranno venduti per rimpolpare le tasse dello stato.” Fece uno sbuffo. “Meglio così, forse, considerando la natura dei cartaginesi.”
    “C’è uno schiavo a cui sono interessato,” disse Shiro immediatamente. “Sempre che sia stato catturato e non sia morto dopo la battaglia di ieri. Lo voglio se gli schiavi saranno distribuiti, e lo voglio comprare se saranno venduti.”
    “Che cos’ha di speciale questo schiavo?” domandò Sendak.
    “Combatteva senza armatura, e non aveva nemmeno una ferita, nonostante fosse coperto del sangue dei suoi avversari,” disse Shiro. “Non ho mai visto nessuno combattere così.”
    “Probabilmente si era tolto l’armatura durante la battaglia,” fece presente Sendak, ma poi sospirò. “Tanto lo so che non riuscirò a farti cambiare idea, quando ti metti in testa qualcosa. Vai da Haxus, fatti portare dai prigionieri e vedi se lo trovi.” Poi rivelò un sorriso malizioso nel suo ghigno. “Spero che ne valga la pena anche in tempo di pace.”
    Shiro ignorò la battuta sui suoi gusti sessuali, prese l’ultima fetta di pane e lasciò la tenda per andare a recuperare Haxus, che era addetto al conteggio e all’inventario. Ovviamente gli schiavi non avevano un vero e proprio inventario, erano stati per lo più divisi all’incirca per età e per ferite, dato che non tutti sarebbero probabilmente sopravvissuti.
    “Magrolino, senza divisa, un taglio sulla guancia, capelli neri, occhi azzurri,” descrisse Shiro, ma Haxus scosse la testa.
    “Con una descrizione così, può essere chiunque. Fatti tu un giro per l’accampamento, e poi vieni qui a indicarmi la fila e il numero.”
    Non poteva essere chiunque, Shiro ne era sicuro. Quegli occhi azzurri, pieni di fuoco, gli erano rimasti impressi per tutta la notte. Così, fece come Haxus gli aveva suggerito. Si recò nel luogo dove avevano radunato i prigionieri, ordinatamente sistemati per file, legati gli uni agli altri. L’odore di sangue e piscio era quasi insostenibile, ma Shiro lo resse, mentre camminava davanti a ogni fila, osservando ogni volto con cura, mentre veniva ricambiato da occhiate a volte d’odio, a volte di paura.
    Finché non lo trovò: ed era, ovviamente, l’unico che sul viso aveva la maschera della rassegnazione, come quello che gli stava capitando non lo riguardasse affatto. Ma quando riconobbe Shiro, gli occhi gli si spalancarono prima in sorpresa e poi in diffidenza. Shiro lo guardò con attenzione, cercando di studiarne bene lo stato: a parte la ferita sulla guancia che lui stesso gli aveva inferto, sembrava stare bene. Tirò un sospiro di sollievo.
    “Sono contento che tu sia sopravvissuto,” gli disse, in greco.
    “Hai preso tu il mio coltello?” ribatté allora l’altro.
    Shiro si ricordava di quel coltello, era qualcosa che aveva già visto a Roma, in mano a dei romani. Era il simbolo che rappresentava la gens Marmora, una delle più vecchie di Roma, che si faceva risalire nientemeno che alla dea Venere.
    “No, dev’essere rimasto nel campo di battaglia.”
    La risposta su una smorfia seccata. Shiro capì che in quelle condizioni c’era poco da fare, non poteva mettersi a parlare con gli altri schiavi attorno, e difficilmente avrebbe avuto qualche informazione da quel ragazzo, nemmeno il nome. Così si alzò e fece per andarsene.
    “Aspetta,” il ragazzo lo chiamò, e Shiro si fermò. Sembrava imbarazzato, nel momento in cui gli chiese, “sai se è stato catturato un uomo alto, di circa quarant’anni, con una cicatrice sul sopracciglio destro?” E poi, alla domanda silenziosa di Shiro, aggiunse, “è mio padre.”
    “Non lo so, ma controllerò.”
    Una volta lasciata l’area dei prigionieri più giovani, fece un controllo rapido in quella dei più anziani, chiedendo di qualcuno che aveva un figlio come Keith, ma non ebbe fortuna. L’uomo non si trovava da nessuna parte.
    Tornò da Haxus, gli comunicò il numero di fila e posto dello schiavo a cui era interessato, e poi gli passò qualche sesterzio perché mandasse un dottore a controllare quella ferita alla guancia, non voleva che si infettasse e peggiorasse, perché non sapeva quanto tempo ancora sarebbe passato per la partenza per Roma, sempre che il trattato di pace andasse a buon fine.
    Dopodiché, visto che l’esercito non aveva bisogno di lui, tornò nel luogo della battaglia. Armi, scudi e parti di armatura giacevano lì abbandonati, in mezzo al fango e al sangue che puzzava al calore del sole, mentre i corpi di uomini ed animali era stato portato via e seppellito per evitare che la decomposizione generasse malattie anche sul resto dell’esercito.
    Si ricordava il posto dove la sua visione aveva combattuto, anche se a quella luce e dopo la battaglia tutto sembrava differente, e si mise a cercare fra la fanghiglia, finché non vide, scintillante alla luce del sole, il simbolo di Marmora che spiccava tra il fango. Raccolse il coltello e lo portò via con sé.
    Poi si ritirò nella sua tenda personale per riposarsi, e venne disturbato da Sendak la mattina dopo, sul presto.
    “Mi hai combinato un bel disastro,” gli disse, ma rideva soddisfatto, come se il disastro tutto sommato fosse stato più un aneddoto divertente che un effettivo problema. “Con quel tuo schiavo.”
    Immediatamente, Shiro si preoccupò. “Che cos’è successo?”
    “Gli altri prigionieri non hanno apprezzato la tua piccola visita,” gli fece presente Sendak, accomodandosi all’interno della tenda senza essere stato invitato a farlo. “Pensavano vi conosceste, visto quanto gli hai parlato con familiarità, e che fosse un traditore, la causa della sconfitta dell’esercito cartaginese. Hanno tentato di linciarlo, nonostante la situazione in cui erano.”
    “Sta bene?” Shiro impallidì: non aveva pensato a quella possibile conseguenza, non era stata sua intenzione.
    “Gli uomini sono intervenuti in tempo a sedare la rivolta, hanno ammazzato qualcuno giusto per far capire com’è la situazione, ma il tuo schiavetto l’ho fatto spostare per sicurezza,” gli comunico Sendak, sembrava soddisfatto di come aveva gestito il tutto. “Te lo farei già portare nella tenda, se potessi, ma purtroppo dipende tutto da Scipione.”
    “Va bene lo stesso,” disse Shiro. “Mi basta che arrivi vivo a Roma.”
    “Mi devi un favore, Shirogane.”
    “Come sempre.”

    E così, Cartagine aveva stipulato una pace.
    Una pace indegna, secondo il parere dei vicini di schiavitù di Keith, o una pace comprata, considerando che la guerra era stata persa. C’erano state molte discussioni a riguardo, che Keith aveva trovato bizzarre considerando la situazione in cui si trovavano, e considerando il fatto che i soldati romani che li sorvegliavano certo non venivano a comunicare loro tutte le informazioni precise.
    Keith si scoprì a non essere toccato da quelle notizie, vere o false che fossero, che giravano di bocca in bocca. Cartagine non era la sua patria, dopotutto, e ci aveva vissuto anche poco per esservi in qualche modo affezionato. La ricordava con una città che meritava di sopravvivere, e una parte di lui era felice che la pace fosse stata siglata, se significava il sopravvivere di quella città.
    D’altro canto, lui non ci sarebbe mai più tornato, quindi anche se l’avessero distrutta, se la sarebbe ricordata come quando l’aveva lasciata.
    Non che potesse dire i suoi pensieri in giro, i suoi compagni di prigionia avevano già tentato di ucciderlo una volta, quando l’avevano scambiato per una spia romana (come se le spie romane avessero quel, trattamento), il che gli aveva causato numerosi lividi e ferite attorno al collo, dove la corda era stata tirata maggiormente.
    Ma un dottore era passato a controllarlo, e adesso sentiva meno dolore anche alla ferita sulla guancia, solo l’indolenzimento per dover restare fermo e seduto così tanto a lungo.
    Il soldato romano, che tanti problemi gli aveva causato, non si era più fatto vedere. Keith non sapeva dire se avesse mentito sull’andare a cercare suo padre, o se non fosse tornato perché non l’aveva trovato e quindi non aveva niente da dirgli. Una parte di lui riguardava anche a Catagine come all’ultimo posto in cui aveva vissuto con suo padre, e quindi con un poco di dolcezza.
    Forse era sopravvissuto, non era stato catturato, ed era tornato a casa solo per trovarla vuota? Keith temeva quel pensiero, cercava di scacciarlo, ma era comunque meglio dell’idea che suo padre fosse definitivamente morto su quel campo di battaglia, e che il suo cadavere giacesse ormai nelle fosse comuni, senza un nome o una memoria.
    In quei momenti, invece, sentiva di odiare Cartagine con tutta la sua forza, per il modo in cui li aveva attirati e poi si era presa il loro sangue, e desiderava che fosse distrutta in modo da non tornarci mai più.
    Lì, bloccato al sole e legato ad altri sconosciuti, fu un periodo duro da sopportare, preda dei suoi stessi fantasmi. E nelle lacrime del pensiero che Cartagine fosse ormai alle spalle, accolse con gioia il momento in cui i prigionieri vennero presi e condotti alle navi, per essere portati a Roma.
    Keith non era mai stato a Roma ma, si disse, non poteva essere peggio di Cartagine.

    Il viaggio non fu com’era abituato a farlo, era finito stipato nella stiva, sempre legato ad altri, come se fosse una merce. Vedeva la gente vomitargli a fianco senza venire pulita – d’altronde, nessuno aveva pulito gli escrementi per giorni, da quando erano saliti a bordo – e si sentiva soffocare. Temeva di non sopravvivere, ma poi si aggrappava con i denti a quella speranza.
    Se Cartagine era sopravvissuta nonostante il disastro che l’aveva colta, l’avrebbe fatto anche lui.
    Poi arrivarono al porto, Ostia qualcuno lo chiamò, e Keith venne invaso dalla lingua latina, che tutti parlavano attorno a lui. Al contrario di molti dei suoi compagni di sventura, cartaginesi d’origine che ancora non avevano avuto il privilegio di viaggiare così lontano, Keith conosceva quella lingua, l’aveva imparata da bambino, ma ritrovarsi in mezzo fu disorientante.
    A Cartagine, in mezzo alla lingua greca e fenicia, si era adattato più facilmente. Stette però ben attento a non farsi notare a comprendere quello che gli uomini dicevano.
    I soldati e i mercanti della zona in iniziarono a suddividersi gli schiavi, vennero slegati, spogliati e caricati ciascuno su diversi carri. A Keith ne capitò uno mezzo vuoto, rispetto ad altri carri, con altri cinque prigionieri uomini, tutti più adulti e più muscolosi di lui. Capì subito che quello non era il carro delle vendite, ma quello di chi era già stato comprato, ed era destinato a qualcuno di specifico.
    Non ci voleva un genio per capire chi potesse essere stato ad acquistare Keith.
    Il carro non si fermò per qualche ora, prima di arrivare a Roma, e lì Keith notò in tutto la differenza che c’era con qualsiasi altra città che aveva incontrato, e soprattutto con Cartagine, l’ultima in cui aveva vissuto e che aveva in mente con maggior forza.
    Roma era rozza, mal costruita, sembrava una città di contadini che fingevano di essere dei gran signori, e pretendevano che la loro fattoria fosse costruita di marmo e arredata, ma nemmeno quello poteva nascondere il fatto che fosse sempre una fattoria. Era una città più viva di Cartagine, questo glielo riconosceva, ma anche più volgare.
    Ne apprezzò i giardini, ma i casermoni alti, uno attaccato all’altro e per la maggior parte in legno gli incutevano terrore, e non erano paragonabili a nessun posto dove aveva vissuto, anche se era stato in località dove le case erano affastellate le une alle altre.
    Il carro si fermò proprio di fronte a uno di quei casermoni, e l’uomo che affiancava il guidatore scese e andò ad informarsi alla porta. Keith era troppo distante per capire che cosa si stessero dicendo, ma poi l’uomo tornò verso il carro, lo afferrò in malo modo e lo tirò giù.
    C’era l’istinto di Keith che gli diceva di combattere, di fuggire, di provare a tornare a Cartagine a cercare suo padre, e poi c’era l’istinto che gli diceva che non aveva importanza, che ormai Cartagine e quello che poteva portare era perso e che non aveva una città che potesse chiamare casa.
    L’uomo lo consegnò a una donna dai capelli castani, che arricciò il naso quando lo vide arrivare, con la stessa tunica marrone e i resti del viaggio ancora addosso, benché di tanto in tanto i soldati gettassero loro addosso dei secchi d’acqua.
    Lei lo prese per un braccio e lo trascinò dentro. “Padron Shiro, è qui,” gridò, in latino, dall’altra parte della stanza.
    La porta si aprì e, senza sorprese, emerse il soldato che Keith aveva affrontato sul campo di battaglia. Appariva meno spaventoso, senza spada e armatura, ma solo con addosso la divisa bianca e rossa dei senatori romani. Al vedere Keith, fece un sorriso rilassato.
    “Posso lavarlo, Padron Shiro?” fece la donna. “Ho appena pulito casa e sta spargendo un cattivo odore.”
    “Non puoi, Veronica, devi,” le fece presente Shiro. “Procuragli anche dei vestiti nuovi, e dagli qualcosa da mangiare, sono sicuro che non gli hanno dato niente per gli ultimi giorni di viaggio.”
    Non aveva torto, Keith pensò. Un bagno e del cibo non gli avrebbero fatto schifo.
    “Poi fallo riposare, io devo uscire un attimo,” aggiunse. “Sei hai bisogno di me, sto andando dal Dottor Ulaz, quello che sta dietro la settima strada.”
    Veronica annuì, ma prima che potesse portare via Keith, Shiro si chinò alla sua altezza e sorrise ancora, un sorriso ampio.
    “Mi dispiace non essere più passato da te, ma ho saputo che la mia prima visita ti ha creato dei grattacapi e volevo evitartene di peggiori,” gli disse, in greco, e sembrava sincero.
    Keith si limitò ad alzare le spalle.
    “Purtroppo non ho trovato tuo padre, mi dispiace,” aggiunse Shiro. “Dobbiamo pensare che sia morto durante la battaglia. Hai altri parenti?”
    Keith scosse la testa.
    “Va bene,” Shiro annuì. “Adesso segui le istruzioni di Veronica, lei ti aiuterà. Quando starai meglio parleremo.” Prima di alzarsi, tirò un’ultima occhiata alla ferita che Keith aveva sulla guancia: ormai si era quasi del tutto rimarginata, ma Keith era sicuro che gli sarebbe rimasto il segno.
    Seguì docilmente Veronica, che non parlava greco e quindi con lui si esprimeva a gesti, e lasciò che lo immergesse in una tinozza e gli scrostasse finalmente tutto il sangue e il fango che aveva addosso. Lo aiutò ad asciugarsi, e gli diede una leggera tunica con cui vestirsi, poi gli offrì da mangiare: un po’ di pane con il garou, della frutta, e quello che sembrava un avanzo di carne stufata.
    Keith non ne mangiava da tempo, era rimasto chiuso in casa a Cartagine nutrendosi di pane rappreso e verdura secca, e non si fece alcuno scrupolo a divorarsela tutta.
    Veronica lo lasciò lì a mangiare, ordinando a quello che evidentemente era il fratello, di fargli compagnia mentre lei si occupava di sistemare il resto. Keith ignorò le occhiate non convinte del ragazzo, che stava dall’altro capo del tavolo e seguitò a mangiare. Ignorò anche che tentasse di comunicare con lui, anche se lo capiva benissimo quando parlava in latino.
    Sul campo di battaglia Shiro gli era sembrato un gran signore, eppure viveva in una casa non molto grande, con come unico lusso un piccolo giardino, e in quei casermoni che sembravano dover venire giù da un momento all’altro. Keith non capiva, e non capiva nemmeno perché si fosse fissato così tanto con lui senza ragione.
    Ma voleva vedere Roma.
    Così, alla prima occasione, sgusciò via dalla sorveglianza del ragazzo, si ritrovò per strada, immediatamente avvolto da odori che non conosceva, dalla parlata latina, da persone differenti a quelle a cui era abituato.
    Eppure, mentre camminava in quelle viuzze, nonostante il marciume e la rozzezza di quei luoghi, si riscoprì felice, come se quei luoghi gli fossero in qualche modo familiari. Tra tutte le città che aveva visitato, tra cui Cartagine, Roma era l’unica che gli aveva fatto quell’effetto.
    Era a casa.
  11. .
    Nella stanza c’era solo il suono leggero del condizionatore, una sorta di leggero bizz che avrebbe potuto essere facilmente ignorato. Era una domenica mattina soleggiata, e dalla finestre con le tapparelle semichiuse penetrava una leggera luce che proiettava un’atmosfera soffusa all’interno.
    E poi, prima piano, poi sempre con più energia, il cigolio delle molle del materasso, e poi un respiro affannoso, che faceva il paio con dei gemiti. Erano tre rumori che andavano a salire, come il crescendo di una melodia. Poi ci fu un gemito più forte degli altri.
    Era il momento più bello di quel momento, quando Kuro veniva dentro di lui. Shiro aveva sempre quell’espressione, tra l’esaltato e il disperato, e chiudeva gli occhi di scatto, come se si vergognasse di qualcosa, le guance leggermente rosse, il sudore che scendeva lentamente dalla tempia. Nonostante avessero lo stesso aspetto, Kuro era certo di non produrre mai un’espressione del genere quando veniva, ma qualcosa di più simile a un ghigno.
    “Aaah,” Shiro emise un ultimo gemito soddisfatto e poi si lasciò scivolare a fianco di Kuro, tra le coperte spiegazzate del letto. Kuro rimase fermo ad osservare il soffitto, le mani piegate dietro la testa, lamentando la mancanza delle sue sigarette (ma Shiro non voleva che si fumasse in casa sua).
    Poi, Shiro mormorò qualcosa, con la testa ancora affondata nel cuscino. “Non dobbiamo farlo più.”
    Kuro sbuffò. “Cos’è, un’altra delle tue trovate? Hai avuto di nuovo la crisi mistica di un paio di anni fa.”
    “No.” Shiro spostò la testa quel tanto che bastava per fulminarlo con lo sguardo. “Mi piace un ragazzo, e vorrei iniziare a frequentarlo seriamente. Non è una cosa per te – non vorrei scopare con nessuno nel frattempo.”
    “Che è, Curtis?”
    “No! Perché dovrebbe essere Curtis?”
    “Mi sembrava che ti facesse il filo, ed è mezzo identico al tuo ex, occhiali a parte. Credevo avessi un tipo.”
    “Se avessi un tipo non scoperei con te,” gli fece presente Shiro. “Ma no, non è lui, e per tua informazione non assomiglia per niente ad Adam.”
    “Intendi nell’aspetto o nella stronzaggine?”
    “Adam non era uno stronzo, avevamo soltanto diverse aspettative di vita.”
    “A diciotto anni.” Kuro sbuffò. “Un eufemismo. Chi è questo, comunque?”
    “Non lo conosci.” Non sembrava intenzionato a dire altro, per cui Kuro gli tirò un calcio nello stinco, a cui Shiro rispose con un lamento annoiato. “È un amico della sorella di Matt.”
    “La sorella di Matt ha sedici anni,” disse Kuro, con un sorrisetto furbo. “Dopo l’incesto sei passato alla pedofilia?”
    “Al massimo sarebbe efebofilia, ma no. Pidge è già al college, come sai, ma si sono conosciuti in tutt’altro modo. Keith ha ventidue anni.”
    “Quindi si chiama Keith,” commentò Kuro, con l’aria di chi ha scoperto chissà quale segreto.
    Stavolta Shiro non si fece ingannare e gli scoccò un’occhiata eloquente. “Non capisco perché te la prendi tanto. L’anno scorso hai avuto tu la storia con quel tuo compagno di corso, che tra l’altro non mi è mai sembrato l’esempio più fulgido di gentilezza e integrità.”
    “Lotor è un tipo a posto, se lo si sa prendere,” e Kuro stesso si stupì della sua difesa. “Ma comunque, ho avuto una storia con lui e la sua tipa. Erano più loro che sfruttavano me per qualcosa di alternativo. Non è una roba come la tua, che vuoi diventare monogamo. Quella roba è tipo contro natura.”
    “Probabilmente chissà quanti psicologi del sesso vorrebbero studiare il tuo caso,” Shiro scherzò, ben consapevole che la cosa sarebbe valsa anche per lui, ben prima dell’occhiataccia di Kuro. “Comunque la situazione è questa.”
    Kuro sapeva benissimo che Shiro era testardo e continuare a discutere avrebbe solo aumentato la sua testardaggine, quindi rinunciò. Alzò le braccia. “Va bene, mi arrendo. Sono solo offeso che tu me l’abbia detto dopo un sesso del genere.”
    Shiro sorrise. “Era un modo per dirti addio.”

    Ma in realtà, Kuro non era poi così preoccupato. Dei due, Shiro, forse perché era nato con due minuti in anticipo e pensava che fosse più maturo per questo motivo, era quello che teneva di più all’idea della relazione fissa e stabile al di fuori delle loro scopate.
    C’era stata la ragazzina ai tempi delle scuole elementari, poi il tentativo mal riuscito di corteggiare un compagno alle medie, dopo la comprensione della propria sessualità, e poi varie storie ai tempi delle superiori, tutte tragicamente fallite. Adam non era che l’ultimo di una lunga serie, per quanto Kuro lo considerasse il peggiore di tutti, forse perché era stata la storia più lunga, più serie e più tragica di tutte.
    Ma in ogni caso, la statistica non navigava a favore di Shiro, e Kuro immaginava che prima o poi Shiro sarebbe tornato da lui con la coda fra le gambe, magari perché questo Keith, esattamente come tutti gli altri, si sarebbe rivelato come uno stronzo. O non si sarebbe rivelato alla sua altezza, cosa che Kuro riteneva altamente probabile.
    Il punto era che i gemelli Shirogane erano letteralmente il meglio che si potesse offrire in termini di… tutto. Innanzitutto, erano belli. Ma non belli normale, belli come se fossero usciti da una rivista di intimo, alti e muscolosi, con il fascino orientale che non guastava mai, gli occhi grigi, la bocca carnosa, la mascella perfettamente squadrata. E, cosa di cui Kuro andava particolarmente orgoglioso, anche superdotati.
    Erano ricchi di famiglia, cosa che se non era merito loro di certo non li guastava agli occhi degli altri, ed erano talentuosi. Shiro faceva già l’assistente al suo professore di ingegneria aerospaziale, e aveva all’attivo diverse pubblicazioni in merito, mentre Kuro lavorava da un paio d’anni in uno studio d’avvocati molto prestigioso.
    Senza contare la personalità. Le persone dicevano che Kuro aveva il fascino del bad boy, genio e sregolatezza, quegli anti eroi che piacevano tanto nella cinematografia moderna, ma aveva anche un lato da cucciolo che non molti avevano il pregio di vedere. Shiro era il gemello buono, dolce e disponibile, sempre pronto a farsi in quattro per gli amici, ma era estremamente competitivo su tutto e dava l’anima su qualunque cosa facesse.
    Insomma, per quanto lo riguardava, Kuro dubitava che avrebbero mai trovato qualcuno capace di stare loro dietro, qualcuno che non fosse l’altra loro metà.
    Questo Keith non avrebbe fatto differenza. Kuro doveva solo aspettare che Shiro si stancasse e tornasse da lui.

    “Si puoi sapere a chi stai scrivendo?” Kuro sbuffò, a una certa, mettendo in pausa il film che stavano guardando.
    La luce azzurrina del cellulare spiccava nella stanza buia, gli dava fastidio agli occhi mentre guardava la televisione e soprattutto gli stava dando fastidio che Shiro fosse più interessato al cellulare invece che al film che avevano scelto.
    “Uhm, con nessuno?” rispose Shiro, con la faccia innocente, mentre tentava inutilmente di riporre via il cellulare senza farsi notare.
    “E il signor nessuno lo sa che sta interrompendo la nostra serata cinema?”
    Shiro si limitò ad alzare gli occhi al cielo, quindi con uno scatto felino Kuro si proiettò in avanti e gli strappò il cellulare dalle mani. Mentre con una mano spingeva Shiro lontano da sé, con l’altra tentava di scorrere lo schermo per ritrovare gli ultimi messaggi. In quel momento, la luce si intensificò segnalando un nuovo whatsapp in arrivo.
    “Non vedo l’ora! Facciamo domani alle sei, da Sal?” Kuro lesse. “Oh, stai organizzando un appuntamento. Dov’è questo Sal? Ci siamo mai stati?” Tentò di scorrere sopra per leggere altri messaggi. “Ma certo che te la faccio leggere, appena ci vediamo. Non starai parlando del tuo ultimo articolo?”
    Finalmente Shiro riuscì a divincolarsi dalla sua presa e si allungò per recuperare il cellulare, ma nella colluttazione questo cadde a testa con un rumore sordo, a cui seguì subito il grido mezzo strozzato di Shiro, che quel cellulare l’aveva appena comprato e stava ancora finendo di pagarlo. Kuro lo lasciò andare in modo che potesse recuperarlo e sorrise languido mentre Shiro lo raccoglieva con cura e lo controllava in tutte le sue parti per verificare che non si fosse rotto.
    “Fai leggere i tuoi articoli a Keith e non a me?” domandò, suadente come un gatto.
    “A te non li Faccio leggere perché non te n’è mai importato,” ribatté Shiro, e questa volta sembrava davvero offeso. “Ma no, non è la tesi. È un raccontino fantascientifico che ho scritto e no, non te l’ho fatto leggere perché tu hai sempre detto che sono sprecato come narratore.”
    “E Keith invece pensa che tu sia fantastico?” Kuro sbuffò. “Anche Adam era così, prima che si accorgesse che eri meglio di lui in tutto e tentasse di tarparti le ali.”
    A quella provocazione, non rispose. Invece, senza staccare gli occhi da Kuro con gesto di sfida, premette sullo schermo per registrare un audio. “Domani alle sei va benissimo. Adesso scusami ma devo andare a vedere un film con mio fratello altrimenti mi rompe il cazzo tutta la sera. Ti amo baci baci.”
    Dopodiché si risedette placidamente al fianco di Kuro come se nulla fosse successo, ma con un sorrisetto soddisfatto in viso. Kuro non disse nulla, si limitò a imbronciarsi e a far ripartire il film, ma ormai la serata era rovinata.

    “Oggi sei più cupo del solito,” gli fece notare Lotor, durante la loro consueta pausa pranzo al bar poco lontano dal tribunale. “Eppure la causa sta andando bene.”
    “Per ora,” puntualizzò Allura, che come spesso succedeva era dalla parte opposta della barricata rispetto a loro, lavorando per uno studio concorrente. Era proprio al termine di una causa, quando tutti e tre avevano necessità di scaricare in qualche modo la tensione accumulata, che erano finiti a letto assieme per la prima volta.
    “Non è quello,” borbottò Kuro, premendo la forchetta nel piatto come se volesse uccidere qualcuno. “È di nuovo quel periodo dell’anno in cui mio fratello pensa di essere innamorato. È insopportabile.”
    “Scommetto che è carino, invece,” disse Allura, con un sorriso divertito. “Per le poche volte che ho visto tuo fratello, mi ha dato l’impressione di essere uno di quelli iper romantici.”
    “Purtroppo lo è, ai limiti del disgustoso,” confermò Kuro. “È di quelli che al telefono è del tipo, ti voglio più bene io, no, butta giù prima tu, baci baci. Bleah.” Fece una mimica che fece ridere entrambi, poi si incupì nuovamente, “ma non è quello il problema. Il problema è che so già come finirà, e poi sarò io a dover raccogliere i pezzi del suo cuore infranto.”
    “Dai, non puoi saperlo solo perché a tuo fratello è andata male un paio di volte,” cercò di incoraggiarlo Allura. “Magari è la volta buona.”
    “A mio fratello è sempre andata male. È tipo una cosa fisiologica sua. Non potrà mai esserci una volta buona.”
    Lotor succhiò la coca cola dalla sua cannuccia. “Secondo me sei tu che stai sodomizzando tutto. Hai sempre visto le storie di Takashi finire, e quindi hai deciso che non saresti diventato come lui, che ti saresti evitato tutta quella sofferenza. Ma stavolta temi che vada tutto bene, e hai paura che tutto quello che pensavi della tua vita fosse sbagliato.”
    “Non ho bisogno di uno psicanalista.” Kuro gli scoccò un’occhiataccia.
    “Io sono meglio, non ti chiedo nemmeno la parcella,” replicò Lotor allegro. “Comunque, se hai tanta paura, perché non lo vai a conoscere, questo misterioso nuovo ragazzo? Giusto per farti un’idea.”
    “Shiro non vuole presentarmelo, per ora.”
    “E chi ha detto di aspettare lui?” Lotor estrasse il cellulare, ticchettò sullo schermo e poi gli mostrò la schermata che aveva trovato. “A quanto pare Sal è un piccolo caffè del centro studentesco. Non è lontano da qui, e per le sei avremo finito.”
    “Siete terribili,” fu il commento di Allura.

    Kuro si aspettava di trovare unicamente Shiro, invece c’era parte del suo gruppo, Matt, Veronica e Kinkade. Erano già seduti al tavolino, e chiaramente nessuno di loro si aspettava l’apparizione di Kuro, per quanto tutti lo conoscessero e si fossero anche frequentati in diverse occasioni in passato. Shiro aveva la chiara espressione di chi sta tentando di nascondere l’irritazione.
    “Non pensavamo venissi anche tu, Ryou,” gli disse Matt gentilmente, il primo ad accoglierlo con un po’ di calore. “Avrei preparato qualcosa di meglio.”
    “Ah, no, sono solo di passaggio, vi ho visti e ho pensato di salutarvi. Bel posto, tra l’altro,” aggiunse indicando lo stile medievale del locale, con stemmi, spade e teste di animali mitologici finti alle pareti.
    “Sì, è a tema D&D,” Matt precisò.
    “Bene, ora che ci hai salutati, puoi anche andare,” disse Shiro. “Non sei stanco? Avevi la causa oggi no?”
    Kuro sorrise malizioso. “Perché vuoi cacciarmi via così presto? Che cosa mi stai nascondendo? Non vuoi che io incontri questo misterioso Keith?”
    Mentre Shiro alzava gli occhi al cielo, Veronica ridacchiò. “Ma dai, non glielo hai ancora presentato? Cos’hai, paura che te lo rubi? I due bad boy della città assieme?”
    “Keith non è un bad boy,” si affrettò immediatamente a difenderlo Shiro. “È la persona più dolce che conosca.”
    “È un po’ un bad boy, almeno dall’aspetto, dai,” aggiunse Matt, e Shiro sbuffò.
    “Tra l’altro, parlando del diavolo…” Kinkade accennò con la testa verso le grandi finestre colorate che davano sulla piazza su cui si affacciava il caffè.
    Una motocicletta rosso fiammante aveva appena parcheggiato all’interno e il suo proprietario, con indosso una tuta professionale sempre rossa, smontò e si diresse verso l’ingresso. Sulla soglia si decise a togliersi il casco, dando lo spettacolo dei suoi lunghi capelli neri che si liberavano in un colpo solo e cadevano dolcemente sulle sue spalle. Poi si guardò attorno.
    “Keith!” chiamò Matt, indicandogli la loro posizione, e il motociclista sorrise nel vederlo, quindi si avvicinò a passi decisi.
    Quello era il nuovo ragazzo di Shiro?
    Kuro sapeva che, a rigor di logica, era qui per giudicarlo e trovargli tutti i difetti possibili e tutte le ragioni per cui Shiro non poteva stare con lui, ma al momento era troppo impegnato a sbavare per poter pensare a sciocchezze come quella. Non poteva staccargli gli occhi di dosso.
    Se Shiro sembrava uscito da una rivista di moda, Keith era di certo uscito da qualche rivista sportiva, e quella tuta che addosso gli stava da Dio sicuramente nascondeva un corpo tonico e muscoloso. Come se i lunghi capelli non fossero abbastanza, Keith aveva un viso delicato, cesellato nella porcellana e impreziosito da due grandi occhi blu intenso. Tra tutti gli ex di Shiro, era in assoluto in più attraente.
    Ma era anche uno dei più belli che aveva visto in assoluto.
    Sentì Shiro tirargli una gomitata sul fianco, un po’ per farlo riprendere un po’ per farlo scostare in modo che potesse accogliere Keith come si deve. Kuro osservò come al rallentatore Shiro che prendeva Keith per i fianchi e si chinava leggermente per dargli un bacio sulla bocca, molto casto, e Keith che gli sorrideva di rimando. Lo sguardo di Kuro scese leggermente ad osservare il culo di Keith: anche quello perfetto, ovviamente, teso nella tuta da motociclista.
    “Ehi, Keith,” lo chiamò Matt, “sbaglio o non hai mai incontrato Ryou, il fratello minore di Shiro?” Si, apparentemente Matt trovava questo modo di dire molto divertente.
    “No, infatti,” Keith disse, e timidamente allungò la mano verso Kuro. Shiro passò un braccio sulle spalle di Keith, tenendolo sempre vicino.
    “Piacere di conoscerti,” Kuro disse, stringendogli la mano. “Pare che Shiro qui voglia tenerti solo per lui.”
    Keith rise leggermente, ma parve imbarazzato. Poi si voltò verso Shiro e disse, “vi hanno clonato?”
    “Non diresti che sia possibile che ce ne siano ben due in giro, eh?” Matt rise, poi batté la mano sul braccio di Kuro. “Dai, fermati anche tu ormai che sei qui.”
    “Scommetto che Kuro è molto stanco e deve andare a casa,” disse Shiro, tirandogli un’occhiata eloquente.
    “Per me può restare,” disse Keith. “Per ricambiare il fatto che ho quasi rovinato la vostra serata cinema.”
    “Deciso, allora,” disse Matt, e spinse Kuro a sedersi accanto a Veronica. Da quella posizione, quando tutti gli altri si furono sistemati attorno al tavolo, era proprio dalla parte opposta rispetto a Keith e aveva una visuale perfetta di quello che facevano, soprattutto del modo in cui si guardava e parlava e si toccava con Shiro.

    Da quel tardo pomeriggio, Kuro imparò diverse cose, la prima delle quali era che giocare a D&D era estremamente divertente, gli piaceva da matti ma era anche un disastro, un misto tra incapacità di effettuare delle buone scelte e sfortuna con i dati. Keith invece sembrava cavarsela meglio di tutti e ogni volta riservava a Kuro un piccolo sorriso timido, come a scusarsi.
    Poi venne a conoscenza di diverse cose riguardanti Keith e la sua supposta storia d’amore con Shiro.
    Si erano conosciuti a una seduta di D&D non diversamente da quella che stavano facendo, una volta che Veronica non era disponibili e Matt aveva chiesto a Pidge di sostituirla, così Pidge si era fatta accompagnare da Keith. Kuro non aveva dubbi che anche Shiro si fosse fatto conquistare nel momento in cui Keith era entrato nel locale agitando la lunga chioma.
    Peggio era, Keith studiava astrofisica, apparentemente con buonissimi risultati perché era un anno avanti al suo corso e già lavorava ad alcune pubblicazioni con il professor Kolivan. Per questo non era solo in grado di capire i vaneggiamenti di Shiro sui suoi studi, ma li condivideva anche e, anzi, avevano già in mente una ricerca che avrebbero potuto sviluppare assieme.
    Nel tempo libero, Keith si dedicava alla sua seconda passione, le corse in moto, e si barcamenava tra studio e sport grazie anche allo stipendio di sua madre, che era nell’esercito, mentre suo padre, pompiere, era morto qualche anno prima in servizio.
    Ed era un nerd come Shiro, poiché, Kuro scoprì, aveva chiamato la sua moto come uno dei transformer, ma non quelli del film, quelli dei fumetti, che Kuro non aveva mai sentito.
    Scoprì tutte queste cose grazie alla parlantina di Matt e Veronica, che parevano interessanti a incensare tutto quello che Keith faceva per renderlo in qualche modo più appetibile a stare al fianco di Shiro. Perché, sì, Kuro pensava che non ci fosse nessuno all’altezza di suo fratello, ma se ci fosse stato, quello probabilmente sarebbe stato Keith.

    Ma Keith doveva pur avere dei difetti. Magari aveva un amante, forse anche di più. O era interessato a sfruttare Shiro per la sua carriera accademica. Kuro sperava ardentemente che ci fosse qualcosa che non andava in Keith.
    Così propose, una sera, “perché non inviti Keith per la nostra serata cinema? Vediamo uno dei film di Star Trek, se volete.”
    “Non ti dispiace?”
    “Dovrò pur adattarmi alla presenza del mio futuro genero attorno, non pensi?”
    Fece in modo che Keith sedesse nel mezzo del divano, in modo che, se anche Shiro tentava di portarlo un po’ di più dalla sua parte, Kuro potesse comunque toccarlo se voleva, attirare la sua attenzione, e parlargli senza il filtro di Shiro fra di loro.
    “Davvero stai sostenendo che il Millenium Falcom potrebbe battere l’Enterprise? Una vecchia carretta arrugginita contro la perla della coalizione spaziale. Senza considerare, ovviamente, le dimensioni.” E Kuro indicò con la mano la differenza fra le due navi spaziali.
    “Per favore,” Keith rispose, con un cipiglio che dimostrava che fosse competitivo tanto quanto Shiro stesso. “Il punto del Millennium Falcon è proprio che è più piccolo, ma più maneggevole, e sicuramente in grado di mettere in difficoltà chiunque grazie all’abilità del suo pilota. Sai come si dice? Che non importano le dimensioni ma come sai usarlo.”
    Shiro tossì leggermente, fingendosi imbarazzato per la chiara allusione sessuale che però apparentemente Keith aveva detto in maniera del tutto innocente, solo perché era una persona che diceva quello che gli passava per la mente, senza filtro.
    E Kuro lo apprezzava per questo.
    “Ti adoro,” disse Shiro e, sempre con il suo braccio attorno a quello di Keith, si chinò a baciarlo, e per un attimo si dimenticarono completamente di Kuro e del film, presi l’uno dall’altro, con la mano di Keith che accarezzava la coscia di Shiro.
    Kuro si sentì escluso, geloso da quel rapporto di cui non faceva parte, e innervosito dal fatto che non sapesse se era più geloso di aver perso Shiro o di non essere stato lui a scoprire Keith per primo. Perché sì, non c’era nessuno all’altezza del suo fratellone, ma apparentemente Keith ci andava fin troppo vicino.
    Era bello, talentuoso e il suo carattere si sposava benissimo con quello di Shiro. Non era un altro Adam, purtroppo, e Kuro aveva tutte le ragioni del mondo per essere geloso e temere che quella gelosia non gli sarebbe passata mai.
    Per quel motivo decise che, se non poteva avere Shiro, almeno avrebbe provato ad avere Keith.

    Un giorno, Shiro era fuori città per una presentazione per il libro del suo professore. Kuro sapeva che aveva avvertito Keith sul fatto che difficilmente sarebbe rientrato in tempo per vedersi, quella giornata, perché l’aveva sbirciato nel suo cellulare la sera prima.
    “Ci vediamo stasera,” gli aveva detto Kuro, “io sono in studio tutto il giorno, oggi niente cause in tribunale.”
    Invece appena Shiro uscì dall’appartamento che condividevano, Kuro mandò un whatsapp a Lotor per avvertirlo che si prendeva un giorno di ferie. Passò la mattinata a fare delle verifiche per capire dove fosse l’autodromo dove Keith si allenava e se fosse possibile entrarci in qualche maniera, fece due telefonate, riuscì ad avere un pass.
    Poi uscì e andò dal barbiere, uno dall’altra parte della città che sicuramente non li conosceva, o per lo meno non li aveva mai visti.
    “Vorrei un taglio rasato, fatto in questa maniera,” disse al barbiere, mostrandogli una foto di Shiro.
    Tornò a casa, si tolse i suoi abiti e andò a scavare nell’armadio di Shiro, tirando fuori uno dei suoi completi, un gessato nero. Non mise la giacca e tenne la cravatta sbottonata, così come i primi due bottoni della camicia, in modo da darsi un look elegante ma allo stesso modo casual.
    Poi uscì, prese la macchina di Shiro (lui fortunatamente era andato con quella del suo professore) e si recò all’autodromo. Seguì le prove per un po’, individuando immediatamente la moto di Keith, poi, quando lo vide ritornare ai box e lasciare la pista, si ritirò immediatamente a seguirlo negli spogliatoi.
    “Hey, campione,” lo chiamò.
    Keith si spaventò per un secondo, poi il suo sorriso divenne dolce. “Shiro? Che cosa ci fai qui?”
    “Col professore ho finito prima e ho pensato di venire a salutarti. Ti dispiace?”
    “Ovvio che no.”
    Aveva ancora addosso la tuta e l’odore di sudore che l’aver tenuto il casco per tanto tempo gli aveva provocato, ma era ancora più bello della prima volta che Kuro l’aveva visto, con gli occhi un po’ lucidi e le guance rosse. Si baciarono, e Kuro si prese tutto il tempo per assaporare quelle labbra, e per tenere le braccia premute sui suoi fianchi.
    “C’è qualcuno nello spogliatoio?”
    “Perché?” rispose Keith, e poi arrossì appena capendo tutto dall’occhiata maliziosa di Kuro.
    Entrarono nello spogliatoio senza separarsi, continuando a baciarsi, e Keith tastò con la mano per chiudere la porta dietro di sé, prima che Kuro lo spingesse contro il muro e iniziasse a spogliarlo, godendosi il modo in cui tiare la zip della tuta rivelava la schiena perfetta e muscolosa, che Kuro baciò pezzo per pezzo.
    Sapeva che suo fratello preferiva stare sotto, e non poteva rischiare di farsi scoprire subito, per cui si limitò ad accarezzare quel culo sodo con la mano sinistra, e poi a continuare a baciarlo mentre gli stringeva il pene con la mano destra, lo sentiva indurirsi contro la sua mano, e sentiva Keith diventare sempre più eccitato, gemere sempre più forte e respirare sempre più velocemente, finché non schizzò tutto contro la parete, e poi scoppiò a ridere per l’imbarazzo.
    “Per te farei cose che non ho mai fatto,” disse.
    “Lo spero,” replicò Kuro, e lo baciò nuovamente. “Ma la cosa vale anche per me.”

    Con il senno di poi, Kuro sapeva non sarebbe riuscito a tenere quella scappatoia segreta a Shiro, c’erano troppe cose da controllare che non potevano essere controllate. Ci provò, all’inizio, nel modo in cui inventò rapidamente una scusa per non passare la serata con Keith e tornare a casa, ad aspettare che Shiro arrivasse, per rubargli il cellulare e messaggiare lui con Keith prima che dicesse qualcosa di compromettente. Ma immaginava che prima o poi ne avrebbero parlato a voce, e che Shiro avrebbe scoperto tutto. Invece non accadde, Shiro sembrò ignorare i messaggi passati né aver avuto qualche accenno strano da Keith sul fatto di fare sesso nello spogliatoio.
    “Ti sei fatto i capelli come i miei?” gli aveva chiesto Shiro, come unica cosa, e non sembrava sospettare niente.
    “Sì, ho deciso che mi piaceva abbastanza il tuo stile. A quanto pare serve a cuccare bei ragazzi.”
    E quella fu l’unica cosa di cui parlarono.
    E Kuro, preso dall’euforia che funzionava come una droga, finì per continuare quello che aveva iniziato, a fare le sortite a Keith quando Shiro era fuori città, sempre con scuse diverse, e a scoparselo nei posti più disparati. A Keith non sembrava dispiacere.

    E poi, un giorno, Shiro tornò a casa con i capelli completamente bianchi, se li era tinti. Come Shiro, gli si addicevano, e gli stavano anche bene, ma Kuro ne rimase stupefatto.
    “Cos’è il cambio di look?” gli chiese, e già dentro di sé pensava a quanto sarebbe stato strano se Kuro si fosse fatto i capelli allo stesso modo, e ragionava su come questo potesse impattare sulla sua relazione con Keith.
    Shiro si limitò a scoccargli un’occhiataccia, ma non disse nulla. Si fece la doccia, si cambiò, poi tornò in salotto. Era lunatico dalla sera prima, per cui Kuro gli fece cenno di accomodarsi sul divano.
    “Cosa c’è che non va? Parlane al tuo fratellino.”
    “Keith sta venendo qui.”
    “Ed è una cosa negativa?” Intanto, il cuore di Kuro stava battendo a mille, non sapeva nemmeno lui perché.
    “L’ho chiamato io.” Quindi si voltò verso Kuro e, con tono duro, disse, “così che tu possa dirgli che l’hai ingannato per fare sesso con lui.”
    Kuro incassò bene il colpo. “Era solo questione di tempo prima che lo scoprissi.”
    “Vi ho visti l’altro giorno, ero passato dal meccanico per fargli una sorpresa.” Poi scosse la testa. “Lo sai, la cosa interessante è che non sono nemmeno arrabbiato. Tu sei sempre stato così.”
    “Così come?”
    “Come me. Se avevo una bella cosa, la volevi anche tu. E io te la davo, perché ti volevo bene.”
    “Abbiamo sempre diviso tutto.”
    “Vero. Ma Keith è una persona, non possiamo-”
    “Lui sembra felice. Non lo sa, potremo non dirglielo, se nessuno dei due ne parla probabilmente non lo scoprirà mai…”
    “No,” disse Shiro, ed era uno di quei toni che non ammetteva repliche. Kuro annuì, ma poi disse, anche lui duro. “Però voglio che tu gli dica anche di noi. Se deve sapere quanto merda siamo, lo deve sapere fino in fondo.”
    Non dissero altro fino all’arrivo di Keith, che stranamente non indossava la sua solita tuta ma una giacca di pelle rossa che gli stava comunque benissimo. Era trafelato, e preoccupato. Shiro lo accolse con un lungo abbraccio, poi lo fece accomodare al tavolo della cucina.
    “Ryou ti deve dire una cosa.”
    “Noi ti dobbiamo dire una cosa,” precisò Kuro. “Ti ricordi la volta in cui hai fatto sesso con Shiro nello spogliatoio dell’autodromo? Be’, quello ero io. Ed ero io anche dal meccanico, quando l’abbiamo fatto dentro la ferrari di Lotor, la volta del bagno del gelataio-”
    Shiro lo bloccò muovendo il braccio davanti a lui. “Io non ne sapevo niente, ovviamente.”
    “Oh,” disse solo Keith, chiaramente cercava di attutire lo shock.
    “C’è un’altra cosa,” disse Shiro, dopo aver scoccato un’occhiata a Kuro. “In passato… prima che noi due stessimo assieme, io e Ryou, be’, ci piaceva scopare. Assieme,” precisò. “Non siamo proprio come i fratelli Lannister, ma-”
    “Intende che non abbiamo mai ucciso nessuno per coprire il segreto,” intervenne Kuro, con uno sguardo divertito, “ma ci abbiamo dato dentro come loro da parecchio.”
    “Ho smesso quando ti ho conosciuto,” aggiunse Shiro. “Ma, ecco, pensavo dovessi saperlo, per capire perché Kuro si è comportato in modo così stupido.” Al suo fianco, Kuro fece una smorfia. “Ti giuro che non succederà mai più, ma potrei capire se tu avessi bisogno di tempo per assimilare il tutto…”
    “Oh,” mormorò Keith di nuovo. Poi si leccò le labbra e disse, “visto che è tempo di confessioni… lo sapevo già.”
    “Che scopavamo?”
    Keith fece un sorriso soddisfatto. “Che eri tu, Kuro, e non Shiro. Non sei così subdolo come pensi, e so distinguervi abbastanza bene anche se avete la stessa pettinatura o gli stessi abiti. E se devo proprio dirlo, credo che il cazzo di Shiro sia leggermente più grosso del tuo. È più difficile da succhiare.”
    Per la prima volta durante i sui ventisette anni, Kuro rimase stupefatto, tant’è che non gli venne nemmeno in mente una risposta adeguata riguardo alla presa in giro sulla sua virilità.
    “Ma se te n’eri accorto perché…?”
    “Perché volevo farlo,” Keith arrossì. “Vi rendete conto che voi siete tipo, perfetti? E siete due. Siete tipo il sogno erotico di qualunque gay là fuori. E francamente pensavo che immaginarvi assieme fosse solo un mio sogno erotico…”
    “Aspetta,” mormorò Shiro. “Ci hai immaginati assieme?”
    “Sì?” Ora Keith era timido. “Per masturbarmi la sera? Voglio dire…” e agitò le mani davanti alla faccia, per cercare di esprimere con i gesti quello che non gli veniva in parole.
    “Oh,” disse Shiro, stavolta era curiosamente rosso in viso.
    “Ti piacerebbe vederlo e non solo immaginarlo?” Kuro chiese immediatamente.
    “Kuro-!” protestò Shiro, nello stesso momento in cui Keith rispose, senza imbarazzo, “Sì!”
    E mentre lo trascinavano in camera, e lo spogliavano, e quando Kuro si scopò Keith nell’esatto momento in cui Keith si stava scopando Shiro contro il materasso, con i gemiti di entrambi che si alzavano chiari nella stanza, seppe che non si era sbagliato.
    Keith era assolutamente perfetto per lui. Per loro.
  12. .
    Unlike most of the future vision that Keith has in the Quantum Abyssum, that were blurred and incomprehensible, that one was pretty clear. It was clear the moment, the place where they have to be, everything.
    Keith has seen that vision in his head too much time in the past two years, the way Voltron fought the drone, the way Voltron is forced to take the drone and brought it in the space to avoid the explosion to take down Earth, the way the lions crashed on Earth, the way his self of the vision woke up in the hospital and the nurse told him that Shiro hadn’t make it, that he died in the crash of the Black Lion.
    Despite the other visions, that fade away in no time, this one stuck up on Keith and he almost felt as he already lived pas thought it, he can feel the screams in his hears, the metallic sound of the lions as they hit the ground, the taste of blood in his mouth and the burning smell of the fires around.
    Yet, Keith swore that, if possible, he would negate to that vision to become real.

    “So, what are we going to do now?” Lance asks.
    “What do you mean?” Keith asks, perplex.
    “Uhm, about the lions?” Lance says, and he’s a little bit embarrassed. “I mean, you’ve been a great leader recently, don’t let me wrong, and I kinda like you on this, but… Shiro’s back, the real Shiro this time, and now he also has a shiny new arm so I was wondering if you, like last time…”
    “No,” Keith answers immediately.
    “No?”
    “I’ll stay in Black,” Keith declares.
    He was in Red in his vision, and Shiro in Black. If Keith remains in Black, he can save Shiro somehow.

    And then the vision become reality, even if in a different way from Keith’s memory. Shiro is not here, but he’s safe on his newborn ship, Atlas, who can also become a giant mecha, so it’s fine, as long as Keith manages to keep him away from the future exploding mecha. And Keith is in Black, and Black is going to crash on the ground, not Atlas, so the vision is done, nothing of what he saw will be real, he wouldn’t wake up in that hospital room to realize that everything he loves is no more.
    He doesn’t think, not even for a second, that saving Shiro means that he’ll be the one to die.

    ***

    Shiro is actually a little bit angry at Keith.
    Not much, because he’d the one that pushed Keith to become the leader, so there also him being proud of his result. But Keith should have asked. Should have at least asking Shiro how’s doing without Black, if he’d like to return piloting it for real or not. Shiro would probably refused, or maybe not, depending of the reason Keith is asking that.
    But Keith did not ask. He just stayed in Black, presented himself like the pilot of the Black Lion, like Shiro has been nothing in the past.
    So yeah, Shiro is a little bit angry with him.
    But that anger passes away immediately, in the moment he sees, from the Atlas’ window, the bomb exploding in the atmosphere, and then the lions start falling from the sky, directly on Earth. He gives orders immediately to track their route so they can get them immediately, but his eyes don’t leave the screen and the window, following the failing of the Black Lion, the way like a stone he crashes on the hard ground, without any movements.
    I could have been there, Shiro realizes.
    But now Keith’s there, inside, failing, and it’s even more terrifying.

    The MFEs rush to the other lions, but Shiro brought the Atlas directly to the Black Lion. He doesn’t even wait for the doctors to arrive, but he jumps outside the ship using the ability of controlling it at best, without even his helmet, without nothing by himself and his urge to save Keith.
    The Black Lion is off, and he won’t recognize Shiro nevertheless, so Shiro forces open the trap door and enters from here. Keith is still in the cockpit, in the pilot seat, perfectly still, the glass of his helmet broken.
    His eyes are half opened, and he recognizes Shiro on spot.
    He smiles. “You’re safe.”
    “It’s not me the one that just crashed,” Shiro replies, and there isn’t any humor in that.
    “No, but you would have,” Keith replies. “I’m so glad it’s me. That’s why I stay.”
    Only then Shiro realizes that Keith, somehow, knows he would crash, now what it happened, and he staied on Black so he wouldn’t be Shiro the one to die.
    After so many times, Keith didn’t manage to save Shiro and staying alive at the same time.
    “No, baby, please…”
    But Keith’s limp in his arm, not breathing anymore, beautiful despite the blood.
    It’s harder for who remains back living.
  13. .
    First there is only pain, the mildly confusion of a mind trapped in a body shutting down for the torture and the morphine, a buzz around the air and the inability to see behind the unfocused lights upon him.
    “Go away,” he’s finally able to hear, from a low, but steady voice. “You made too much mistakes.”
    A growl, dangerous. “That were the High Priestess’ orders,.”
    “No,” the voice replies. “Her orders was to keep him alive. As soon as I do it, you don’t have to interfere.”
    Silence, again, in a way Shiro fears he’s losing consciousness again, then, the growl says, resigned by angry, “fine, do as you wish. But be careful, mutt, because no error will be tolerate.”
    Shiro realizes just in that moment that he almost holds his breath during the entire exchange. There are movements around him, sound of things moved and step, yet Shiro, still trapped on the bed, looks at the light upon him, trying to regain his consciousness and his sight.
    “Champion,” a voice whispers. Shiro startles as two hands cup his face, and someone enters in his vision, leaning his face towards Shiro’s. “Champion, can you hear me?”
    “Wow, you’re beautiful,” Shiro says, in a suddenly spring of honesty without filter.
    The man immediately moves backwards, with a little cough of embarrassment. “At least, you seem awake.”
    Other rumors, and then Shiro feels the restrains be opened. He can move his arms and legs again, and he does it immediately, but slowly, trying to let his body adapted again. Then, always with careful movements, he stands up and sits on the metal bed: he is, he realizes, in the surgery rooms, a place he’s at that point awfully familiar, in the way he ends up there after every fight, so they can patch him up and get him ready for another fight.
    Unlike the usual, there is only another man in the room, and no sentries. His first thought was correct: the man is beautiful. His skin his purple, but not furry, and he has yellow scales and fangs, and pointed hear, but his features are delicate, his face almost human, and there is a sort of kindness in his eyes. He has long white hair and two marks on both cheeks.
    He wears a clothes Shiro only sees on druids’, the strange, masked creatures that worked for the scary woman called Haggar that has taken such interest in Shiro. That’s the first time he sees one of them without their masks.
    “Are you sure you can keep me here unrestrained?” he asks.
    “In the condition you are in this moment, you’re no match for me,” the man answers, not looking at him, to focus on his things. “And even if you do, there’s no place you can escape, we’re too deep inside the Headquarter.”
    He doesn’t seem to say that words with cruelty, but they hurt Shiro nevertheless, they give him the reality of his situation as a prisoner.
    “What is going to happen to me?”
    “That’s the high priestess to decide,” the man answers, calmly. “For now, I got orders to let you live, and be healthy, and I’ll do it at best of my possibility.”
    “What’s your name?”
    At that question, the man turns, looking surprised by the question. Then his eyes narrow: “why do you want to know?”
    “You’re the first person here to treat me like a human being,” Shiro replies. “You answered my question, and you did it in a kind way. I thought it may be nice to know each other.” And then he adds, with a little smile, “I’m Shiro.”
    “You shouldn’t give away your name so easily, Champion,” the man replies. “Names are dangerous around, and you’re already in hands of others.” He comes closer, and takes Shiro’s left arm, starting analyzing him with just the point of his claws fingers, with gentle movements even if it tickles. “But it’s true I think it’s better treating people with kindness, even if they’re prisoners. And you did look like you deserve some.”
    Shiro doesn’t answer, but he looks at him carefully, at his delicate features as he keeps on his checkups on Shiro. “You don’t look like other Galra,” he says at last. “But I feel you already know that, that I’m not the first one to tell you that.”
    The man nods. “That’s because I’m only half Galra. My mother was a traitors of the Empire, and she had a story of some inferior person in a far planet.”
    “And this isn’t a good thing,” Shiro realizes, by the tone he said that.
    “No, it isn’t. In the best way, I should have ended in some labor camps.” The man ends up his checkups and stands up again. “Luckily for me, I have a very strong quintessence sensibility, so the High Priestess took interest on me. As soon as I do my job, I should be safe.”
    “And so you accept to do things against your morality?”
    “We all need to survive.”
    “There should be some limits.”
    “Should be?” The man turns towards him, eyes narrow. “Then why do you still kill in the area for their enjoyment? Don’t you want to survive?”
    And Shiro realizes the man is right, and he shouldn’t have assumed things.
    “I apologize,” he says, and he means it. “You’re right, we’re probably not much different.”
    At that admission, the man’s eyes softens. “You looks like a good person, Shiro,” he murmurs. “I can’t do much for you, unfortunately, but at least, as long as I’m here, I’ll try to treat you as a human being, and not like a weapon.”
    Shiro smiles at him. “Thank you.”
    “You’re fine, by the way, the pod healed all your wounds already. I’ll call the sentries to escort you back to your cell, so you can rest. I’ll have them bring you food later.” He doesn’t add anything, just reaching the door, but then he stops and says, without looking at Shiro. “My name is Yorak.”
    ***
    “You already took my arm, what do you want more?” Shiro screams, trying to escape from his restraints and from the grip of the sentries. There is a time where being in the surgery room was a blessing, a prove he was still alive. Instead, now, it’s a scary thing, with the certainty that they’re going to experiment on him, treating more and more like a weapon.
    “Let me go!” And, with his surprise, the grip on himself loosens.
    Black thunders cross the room with a creaky sound: the sentries cortocircuited themselves and fall in the ground clinging, while the garla guards are pushed against the wall like ragdolls. The only druid there, just next Shiro face, growls.
    “What are you doing? The High Priestess won’t forgive this betrayal.”
    Shiro tries to lift his head, as much as the restraints allow him to do, to understand what it’s happening, but he only catches glimpse on the druid’s mantel that swirls around, and the dark electricity that wanders around, until the druid fall on the ground with a dark thud.
    Another druid is immediately at Shiro’s side, opening his restraints. “We don’t have much time,” he says, agitated. “The guards will be here soon, and then Haggar will know what I did.”
    “Yorak,” Shiro recognizes the voice immediately. He has been his guard druid for a lot of time, before the time Haggar decided to cut off his right arm and put a prosthetic on. Since that moment, he hadn’t see Yorak around, and he was worried about him. “I’m glad you’re safe.”
    Yorak startles a little about those words. “That’s not time to be worried about me. Come.”
    He helps Shiro standing up from the bed, the opens the door. Shiro follows him in the purple hallway of the base. They aren’t so luckily to not meeting sentries along their way, but the thunder Yorak can emits from his fingers are enough to stop them. But it tired him too, Shiro notices by the way his steps become slower, and how his back is a little bit curved when they reach the hangar.
    “This is yours,” Yorak points at a little pod, with its back door already opened. “I put inside the coordinates for your planet, and enough food and fuel for you to survive during the journey. Go.”
    Shiro steps inside the ship with a little bit of uncertain, incredulous that he has this chance of escaping, being free again, going back home. He stops and turns to Yorak.
    “Why are you helping me?”
    “There’s no time now,” Yorak replies. And the understands Shiro won’t leave without an answer, so he says, “I learn to like you in the small periods we were together. You’re a good man, Shiro, and you don’t deserve to become their weapon. Maybe you’ll die, but at least you will be yourself.”
    “Then come with me.” Shiro can’t see Yorak’s face under his mask, but he can imagine the surprise, the widen look.
    “I can’t.”
    “Why not?” Shiro replies. “After what you did, there is no place for you here in the empire, and the kind thing that will happen to you is death, and I don’t think you deserve that too.” He leans a hand towards him. “Come on.”
    “I’ll become a prisoner back on Earth,” Yorak points out. “Even if I offer my knowledge about the Empire, they won’t trust me. And I will understand.”
    “I’ll vouch for you,” Shiro assures. “And if it doesn’t work, well, I’ll ask to be your guard so we’ll be even.”
    There’s a little, amused huff under the mask, but any conversation is interrupted by scream at the entrance of the hangar: guards and more druids are coming.
    “Come on,” Shiro repeats, and this time Yorak grabs his hand and Shiro drags him inside and closes the backdoor of the pod before the guard start shooting at them.
    “Let me do it,” Yorak says, as he jumps on the pilot seat. They are closing the gate, but Yorak grabs the controls and let the pod swipe out before the gate shut behind them. They are shooting and them now, but Yorak seems to have eyes everywhere, or maybe a sixth sense, because he’s able to sense where the shot will come from, and move the ship accordling, still accelerating it, so they are fast in the empty space, far from the headquarters.
    “I’ve put some interferences in their system, so they shouldn’t be able to follow us,” Yorak says, with a little sigh of relief. He puts the pod in autopilot and stands up. “But let’s be still very careful about it. And they know where you came from, so they may follow us there.”
    “So maybe we shouldn’t go back there.”
    “What?”
    “I want to,” Shiro clarify, “want to warn them and everything. But there is a war out here, and I’m sure we can somehow help.”
    Yorak takes off his mask and smirk, amused. “You really are a good man,” he whispers. “You never lose yourself, not even when… they tried to turn you in a monster. I envy you for this.”
    “You’re just like me,” Shiro replies. “You didn’t become like them, no matter what you had to face. I like you a lot, Yorak.”
    There is a little blush on Yorak’s purple face. Then, he says. “Keith.”
    “What?”
    “Call me Keith,” Yorak says. “It’s the name my father gave me.”
    “It sounds like a Terran name,” Shiro smiles a little.
    “Because it is,” Yorak informs him. “My mother was Galra, but my father was Terran. I’ve never been there, tough.”
    Shiro takes a little while to recover from that information, and Yorak taking off his mantle and remaining with a very thigh under suit doesn’t help at all.
    “Let’s go back together, then, Keith,” he says, at last. “Let’s go to save Earth the entire universe from the Galra, then I’ll bring you there. Let’s do it together.”
    And at Shiro’s excited expression, Keith smiles. “Together.”
  14. .
    From the dark waiting room, Julius can feel everything. The hot touch of the sun, the scream of the crowd, the small tremble of the ground, and the hardness of the sand, the smell of sweat and blood. In few minutes, he’ll be out there, in the chaos. So he sits down here, eyes closed, try to relax and convey as his energies towards himself.
    Every battle is to death, and he has to give his best to every battle.
    “It’s time,” a voice calls behind him.
    He’s his lanista, his tone is rushed and dry, between them there’s just a business relationship. Or, like the lanista doesn’t miss to remark, he owns Julius. He bought him the day Julius came to him, begged him to make him a gladiator, and the lanista accepted with a smirk on his face, and with in his hands the few sesterzi that Julius’ life was worthy.
    Julius waits two second more before opening his eyes.
    “I’m here.”
    With his sword in his hand, and the shield in the other, and the short, not very useful armor he’s wearing, he stands up, and follows the lanista outside the room. As they walk in the stone hallway behind the arena, the voices of the crowd become clearer, and the adrenaline of the battle increase.
    “Who am I facing today?” he asks.
    “It’s a very important day for Rome today,” the lanista begins, “so the magister asked us lanistae to bring out the best we have. You’re going to face the Champion.”
    Julius’ eyes widen. “No…”
    For everyone, the Champion is just the best living gladiator. He beat beasts and men alike, with very few wounds, and in basically no time. He’s gorgeous as a god, tall and broad, pure white hair, and everyone is rooting for him, even if he’s just a slave, a rebel from Spain that a unknown roman general brought back after defeating the rebellion. But there, in the arena, he’s the king, the Champion.
    But for Julius, he is Stazious, the man that saved him when he’s just a little kid whose father died and left him basically nothing. He’s the man who taught him to fight, to survive, and to love. He’s the man that hold his hand at night, and kissed him on the morning. The man that Julius has searched to meet desperately after the war, at the point to give himself to a lanista.
    It’s the man that Julius loves, but if he goes against him in the arena, he will have to kill him, or let him be killed by him.
    “No, I’m not doing it.”
    Without any warning, the lanista grabs him by the back of his neck and he presses against the nearest stone wall.
    “You’re going there, and you’re going to put up a show, understand?” he says, with a dangerously voice. “You’re mine, which means you have no right to think. Now go.”
    With a sigh, Julius nods slowly, and slowly walks towards the door that let him in the arena, with his naked food that feel the hot sand below them. For a second, the sun and the loudly crowd blind and deafen him, at the point he stands here, stupidly.
    Then, after a couple of blinking to avoid the tears to flow, Julius adapts at the atmosphere and can finally see his opponent. Stazio hasn’t really chance from the last time he saw him: broader, sure, with more muscles and more scars, but the kind face and the grey eyes are the same. He’s hurt, blood drips towards a scar upon his nose, and he’s sweating and he’s dirty with the sand, sign that this isn’t his first fight of the day.
    There is crudely in making a gladiator fight for more than one time at day, but that’s what happens when you’re the best and the crowd wants you.
    Stazio recognizes him immediately, eyes wide from the surprise, but there isn’t time for tearing reunion, the referee is already there, pushing Julius towards his opponent. Stazio’s grip on his trident tightens, and in a second he’s against Julius, and only his fast reflex with the shield avoids a direct it.
    “What are you doing here?”
    “I was looking for you.”
    Another hit, another shield. Stazio fights with the feral fear of a beast, Julius can recognize it in his eyes. And, Julius realizes, he has a broken arm, yet he moves like he doesn’t hurt at all.
    “You must fight.”
    “I’m not fighting you. I don’t want to kill you.”
    “You must, if you want survive.” Stazio finally manages to destroy Julius’ shield, so Julius can defend himself with only his sword. “If I defeat you, you’ll die, but if you fight well, maybe you have a hope for them to have mercy.”
    “They don’t have mercy,” Julius replies, “and I prefer you to kill me that fighting you.”
    “You’re an idiot, and you’ll die today.”
    But Julius know it isn’t true, that even if Stazio’s hits seems hard and dangerous, he’s still missing the vital point, and all his actions, all his harsh words, are only for pushing Julius to fight more, to kill him, to end his misery. In the end, adrenaline gets the better of Julius, and he starts to respond better to Stazio’s fight, until the tiredness gets the better of him. Julius cuts the trident in half and then sinks his foot in Stazio’s chest, keeping him down.
    He’s scared, but there’s hope in his heart. Stazio is the crowd’s champion, they love him. They must saved him. He moves away so Stazio can kneel down, asking for the mission, to be spared even if he lost, because he fought well.
    But apparently, they hate that their champion lost, and they screams for revenge.
    “Kill him. Kill him. Kill him.”
    Stazio smiles softly. “Do it, Julius. Please… They’ll kill you too otherwise.”
    “Then so it be,” Julius replies, and he throws his sword away for him.
    ***
    Keith wakes up sweating. He pants hard, in his mind still the vision of the blood, the lances that perforate Shiro’s naked body as Keith screams for him to be spared, and the blood that sprinkles around, like it’s just water and not the life of a men… With a sighs, he stands up.
    The first time he saw vision of his past life, he was in the Quantum Abyssum. They weren’t memory or dreams, just scenes that played in fronto of him and Krolia, with Krolia that explained him about the Galra legends about reincarnation, while Keith tried to remember what he studied at school about ancient Rome, something so distant from his life that he found strange he supposed to have lived another life there.
    But then it hit so close to home – Shiro’s captivity, Keith’s loss of everything, the fights they faced – and when Keith was forced to fight Shiro again at the clone facility, well, the memories returns in full glory, and Keith has a little problem to elaborate them all, and they end up returning to torment his sleep.
    There’s little he can do about it, just hoping they would fade away once, like normal memories do.
    He already know it won’t happen, because they’re about Shiro, and Keith is sure he hasn’t forgot anything about him, ever. At least, for now they’re still both alive.
    The room inside the Black Lion is dark and silent. Krolia sleeps in a corner, and the wolf his curled at his feet. Shiro’s bed is empty, and he is nowhere to be seen. Maybe he went to the bathroom, Keith thinks, and lays down again, waiting for the familiar steps.
    When they don’t arrive, Keith gets off the bed, put on his red jacket that was saved from the castle’s destruction, his boots, and walks around, being careful to not waking up Krolia. He climbs up and reaches the cockpit. The lions are standing, but in the space, so they’re basically floating in space (Lance is suppose to be on guard, between all of them).
    Shiro sits down in the pilot chair, his back leans peacefully on the backseat, and he looks peacefully out of the windows, at the blue and purple landscape outside, with the far starts that brightest clear as it’s day. He hears Keith’s arrival, and he turns his head a little.
    “Hey.”
    “Hey.” Keith gives him a little smile. “Can’t you sleep?”
    He nods. “My right arm hurt.” And at Keith’s confused look, he adds, “it’s ghost pain. My body is convinced that I still have my arm, and perceive the fact I don’t really with pain. As in the moment it was cut off.”
    Keith is the one that cut that arm off.
    “I’m so sorry.”
    “It was not your fault, that arm was a parasite.” He says that with resignation, almost like he isn’t talking about himself. “And at least, this time you did it. You didn’t throw stupidly your life away for me.”
    There’s a moment where Keith doesn’t really understand what he’s referring so, sure, he’s always take risk to save Shiro, and maybe he’s talking about the time of Naxela, but Shiro shouldn’t now about it, Matt swore to keep the secret with him, and then there was the incident at Lotor’s coronation, but again, it’s more throwing the mission away than his own life… Until he understands.
    “You remember?”
    “About our previous life? Yeah.” Shiro’s smiles softly. “The time I spend in the Astral Plane gave me the vision of a lot of things… I forgot most of them now that I’m human again, but this… I really think I wouldn’t forget it even if I’d like to.”
    “You remember everything?” Keith asks, suddenly scared by it.
    In his mind, the blood is suddenly substitute by imagines of harsh sex, Shiro’s rude hands on his skin, they way he likes kissing Shiro’s neck as he fucks him, imagines of naked, sweaty body doing more than Keith has ever imagine, has ever wanted to imagine.
    “Yes, everything,” Shiro releases an amused laugh, “including the sex, which is the reason you’re red like your jacket in his moment.”
    This probably ends up making Keith even more embarrassed. “It doesn’t have to mean nothing, you know,” he says immediately. “It was another life, another two people. Very different times.”
    Shiro studies his face, his grey eyes scan everything of Keith. “Yeah. That’s true.”
    There’s relief upon Keith over the fear of losing Shiro because of stupid dreams of a past life, yet there is also sadness and disappointment. The past Keith has something Keith wants with all his heart, he has Shiro’s love. In his mind, the memory of the first kiss plays again, the soft gaze Shiro looked at him, the way he places a hand on his cheeks and leans towards him, and he can even remember the taste of his lips. They’re a little humid, but warm, and they pressed hard against his, and Keith hasn’t manage to do anything but reciprocate the kiss, his hands that presses on Shiro’s back and caressed his hair – they weren’t white at that time yet – and he pants under his breath between a kiss and another.
    Until Keith realizes that dreams and reality are melting together, and what he’s feeling are Shiro’s lips on his one in that moment, in that reality when they’re both standing on the Black Lion’s cockpit and not outside a roman camp.
    Overwhelmed by the moment, Keith is frozen, unable to do anything but standing it, trying to impress in his mind everything, Shiro’s face so closed, his smell, the way his left hand is rubbing Keith’s arm and the taste of his lips.
    “I want it to mean something,” Shiro says. “If you agree with this.”
    “It’s a lifetime that I’m waiting for this,” Keith replies, as he brings Shiro nearer, his hand clawed his shoulder.
    They have a second chance, and Keith isn’t going to waste it.
  15. .
    Si sentiva così impotente. Così debole a dispetto di tutto il suo potere.
    C’era stato un periodo, quando stava assieme a Lotor, che tutto le era sembrato facile, come schioccare le dita. Forse era stata presunzione, da parte sua, il pensiero di essere l’unica alteana rimasta ad aver potuto ereditare la conoscenza di Oriande. Lotor aveva parlato alla sua anima, soffiato sul suo ego, e alla fine lei aveva creduto di essere quasi invincibile.
    Era stata riportata coi piedi per terra quasi subito, ma ciò nonostante aveva creduto nell’alchimia alteana e nelle sue possibilità, e in fondo non era riuscita a portare Voltron nel campo di quintessenza e poi a recuperare l’anima di Shiro dal Leone Nero?
    Eppure, adesso non poteva fare altro che osservare con apprensione crescente il corpo di Shiro che si ribellava, che rifiutava la sua anima lasciandolo morire, mentre lei, nonostante cercasse dentro di sé un qualsiasi spiraglio di conoscenza che potesse aiutarla, era completamente bloccata.
    “Ci dev’essere qualcosa che puoi fare!” aveva esclamato Keith, prima di gettarsi contro la capsula che conteneva Shiro, implorandolo di non lasciarlo.
    “Non c’è niente che io possa fare,” aveva ammesso, alla fine.
    E poi l’incredibile accadde: Shiro si riprese immediatamente, come se nulla di tutto ciò fosse accaduto, come se fosse sempre stato bene. Allura guardò, con un sorriso felice lui e Keith che si abbracciavano, finalmente di nuovo assieme.
    Ma dentro di sé si agitava anche la domanda: perché? Cos’era successo? La sua conoscenza le aveva detto che non c’era più niente da fare, non aveva trovato un solo modo con cui poter aiutare Shiro… E poi Krolia le prese il braccio e l’accompagnò delicatamente fuori della stanza.
    Prima che le porte si chiudessero, Allura poté vedere chiaramente Keith abbassarsi meglio per poter baciare Shiro, e Shiro che avvolgeva il suo unico braccio sulla schiena di Keith.
    “Oh.”
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