I want you (to top me)

[Voltron Legendary Defender] BDSM, Modern!AU, nsfw

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    Capitolo 1

    Quando Lance uscì sbattendo la porta, il vetro quasi tremò per la forza. I passi nervosi ci misero un po’ a scomparire, e quando l’ebbero fatto Keith tirò un sospiro, non sapeva nemmeno lui se seccato o rilassato, e poi si risedette alla scrivania e, come se nulla fosse, riprese a lavorare.
    Purtroppo i ritmi di lavoro in quel periodo alla Voltron Corp. Erano terribili e Keith comprendeva che fossero tutti sotto stress, e che lavorare in fretta non era l’idea, per cui si lasciò a un angolo della mente la sfuriata di Lance all’ennesimo controllo con una scrollata di spalle.
    Era al termine della terza videoconferenza della giornata, quando bussarono dolcemente alla porta del suo ufficio e, ancora prima di aspettare il suo permesso, Allura, come al solito elegantissima nel suo tailleur blu, entrò. Keith le fece segno con il dito poggiato sulla bocca di non parlare, mentre cercava di accelerare i saluti finali al computer. Lei si sedette sulla poltrona e attese pazientemente che lui si liberasse.
    “E’ successo qualcosa?” chiese immediatamente, una volta interrotta la comunicazione, mentre si toglieva cuffie e microfono.
    “No,” lei scosse la testa, “a meno che per qualcosa tu non intenda Lance chiuso in bagno a piangere.”
    Non era quello che intendeva, si riferiva più a problemi con la produzione, con il pubblico, a qualsiasi intoppo che avrebbe rallentato il lavoro generale dell’azienda, ma in ogni caso si preoccupò: Lance non era mai stato quello che si dice un appartenente alla classica virilità (una delle cose che Keith apprezzava di lui, a dir la verità), ma anche per lui un atteggiamento del genere era insolito.
    “Gli è successo qualcosa?”
    “Dimmelo tu,” rispose Allura con dolcezza.
    “Non che io sappia.” Keith rifletté sugli avvenimenti della giornata, e sulle mail che aveva letto – anche se forse ne erano arrivate altre mentre era in videoconferenza.
    “Non l’hai chiamato in ufficio oggi?”
    “Sì, aveva fatto un errore banalissimo su uno dei documenti. Solo che è la terza volta questa settimana, probabilmente ha il file scritto male. Gliel’ho fatto notare e si è arrabbiato. Non capisco cosa ci sia da piangere.”
    “Dice che hai intenzione di licenziarlo.”
    “Non ho mai detto una cosa del genere!” Stavolta, Keith rimase davvero stupefatto. “Perché dovrei farlo? Lance è un ottimo ingegnere, solo che a volte ha la concentrazione di una mosca. Ma quella è una cosa rimediabile. Ci sono persone che vanno in giro a dire che lo voglio licenziare?”
    “No.” Allura ridacchiò, rendendo tutta la situazione ancora più surreale. “Ma capisci che non è carino dire a una persona che ha la concentrazione di una mosca.”
    “Ma è la verità. Come può migliorare se non se ne rende conto?”
    “Quante volte hai chiamato Lance nel tuo ufficio questa settimana, per dirgli che aveva fatto male qualcosa?”
    Keith fece un rapido calcolo. “Tre. Quattro se consideri la volta in cui è venuto lui.”
    “E quante volte l’hai chiamato per dirgli che aveva fatto bene il suo lavoro?”
    “Fare bene le cose è il suo lavoro,” replicò Keith. “E la dimostrazione è che l’azienda va bene, è merito di tutti.”
    “E questo l’hai mai detto?”
    “Certo, alle riunioni di chiusura bilancio.”
    Allura sospirò, e in questo caso sembrò che la sua pazienza vacillasse un attimo. “Tu pensi di essere un buon capo, Keith?”
    “Tu pensi che io lo sia?” le rigirò la domanda Keith. Si fidava di Allura, non era la responsabile del settore acquisti per niente.
    “Sì dal punto di vista operativo,” rispose lei immediatamente, era chiaro che si fosse preparata il discorso. “Le tue decisioni sono sempre ottime, hai un buon intuito e sai cogliere i cambiamenti del mercato. Da questo punto di vista sei impeccabile.”
    “Ma?”
    “Umanamente sei un disastro,” disse lei, con un leggero sorriso. “Sai accettare le opinioni altrui, te ne do atto, ed è una cosa positiva, ma non sai parlare alle persone individualmente. Pensi che siano tutti come te, che sei abituato ad avere le cose dette in faccia. Non tutti sono così. E quanto tu li critichi, la prendono sul personale. Lance, poi, è molto insicuro da questo punto di vista.”
    Keith fece un lungo sospiro. “Hai ragione. Io non sono bravo con le persone, non lo sono mai stato. Ogni volta che facevano quei corsi di comunicazione ci provavo, ma mi sembrava tutto così falso. Ma perché devo esserlo, in questo lavoro? Non basta che io sia bravo in quello che faccio per l’azienda?”
    “No, Keith, non lo è.” Allura era seria. “Se continui così, rischi di alienarti tutti, e le persone che non stanno più bene nel posto di lavoro lo lasciano. Dopo che tu, pur con i tuoi consigli fatti male, le hai fatte migliorare. Vuoi che se ne vadano?”
    “Ovvio che no.”
    “Bene.” Si frugò qualcosa in tasca e ne estrasse un biglietto da visita. “Questo ti può aiutare.”
    “Non voglio andare da una psicologa.”
    “Non è una psicologa.”
    Allora Keith prese il biglietto da visita e guardò meglio. Arrossì alle parole che c’erano scritte sopra, un misto di sesso, piacere, e trasgressione.
    “Non voglio nemmeno andare da una prostituta,” mormorò.
    “Non è nemmeno quello,” disse Allura divertita. “E’ una società seria di Dom e Sub qualificati e di competenza, molti di loro lo fanno per piacere ma sono laureati. Tu hai bisogno di imparare cosa significa avere potere e autorità su qualcuno, e anche di rilassarti. Quella è la soluzione ideale.” Si alzò e si riassettò il vestito. “Dai un’occhiata, non ti deluderà.”
    Se ne andò, lasciandolo lì con il biglietto da visita in mano e un’espressione perplessa in viso.

    Non pensò più al biglietto da visita fino al fine settimana, quando lo ritrovò all’interno del suo completo prima di portarlo in lavanderia. Se lo rigirò fra le mani, e alla fine non lo gettò. Una volta tornato a casa, nella quiete del suo attico il cui silenzio era interrotto solo dal respirare leggero di Kosmo, si decise ad aprire il portatile e a dare un’occhiata al sito.
    Come gli aveva detto Allura, era un sito estremamente professionale, con tanto di regole, contratti seri da firmare, e necessità di analisi in caso si scegliesse l’opzione comprensiva di rapporti sessuali. I prezzi erano quasi proibitivi, ma non per Keith, il che supponeva che anche la loro clientela fosse di un certo livello.
    Keith non temeva uno scandalo – dell’opinione degli altri non gliene era mai fregato molto – eppure si sentì un po’ in imbarazzo mentre scorreva il sito. C’era una pagina per chiedere informazioni, in forma assolutamente anonima, così Keith buttò giù velocemente una richiesta.

    Gentilissimi,
    sono il Direttore Generale di un’importante azienda, e non sono capace di trattare con i miei sottoposti.
    Non voglio che se ne vadano, quindi avrei probabilmente necessità di un Sub che mi insegni dove sbaglio e cosa posso fare per migliorare.
    E anche di rilassarmi.
    Non ho precedente esperienza nel campo.
    Ho ventisette anni.
    Sono single, mai stato sposato, non ho figli. Vivo da solo. Ho un cane.
    Per contatti il mio num di telefono è xxx2345677

    Chiuse il computer di scatto, quasi a volersi dimenticare di quello che aveva scritto. Era una mail assurda piena di cose ridicole, non sapeva nemmeno lui perché l’aveva scritta in quella maniera. Probabilmente l’avrebbero preso per un mitomane, perché come faceva uno che scriveva così a fare il Direttore Generale? Era assurdo.
    Si lasciò cadere sul divano e si coprì il viso con il cuscino.
    Cinque minuti dopo, il suo cellulare squillò. Era un numero non registrato.
    “Pronto?”
    “Buongiorno.” Era una voce maschile, estremamente sexy. “Scusi per il disturbo, chiamo dall’Atlas, l’azienda di BDSM, per la mail di informazioni che ha appena inoltrato.”
    “Oh… salve.” Non si aspettava lo chiamassero così presto, non era pronto.
    “Io sono uno dei Dom che lavora per l’azienda, ho chiesto di poterla chiamare perché sono interessato al suo caso,” continuò la voce. “Sono anche io il Direttore Generale di un’azienda, e posso comprendere lo stress che ne deriva. Penso di poterla aiutare.”
    “Be’… fantastico.” Era un poco stupito che all’interno di quell’azienda lavorassero persone che avevano anche altri tipi di lavoro, pensava fossero dedicati solo a questo.
    “Lo so che nella mail lei fa riferimento a un sub, ma anche al fatto che non ha precedenza pregressa in questo campo, ed essere un Dom non è così facile, richiede grande preparazione. Non voglio mettere in dubbio che lei sia in grado di imparare, ma se volesse una cosa più rapida e meno duratura…” La voce si interruppe un attimo. “Potremo parlarne a voce, se per lei va bene. Viene meglio che spiegarsi per telefono.”
    “Sì, va bene. Certo.”
    “Non voglio metterla in imbarazzo nel caso non se ne faccia nulla,” la voce continuò, “per lei può andare bene per le quattro di oggi pomeriggio? Mi può inoltrare un indirizzo di un locale dove le potrebbe andare bene vederci.”
    “Va bene, lo faccio subito.”
    Interruppe la comunicazione con il cuore in gola: in cosa si stava cacciando?

    Come locale aveva scelto Sal’s, un piccolo baretto sull’ottantanovesima, che frequentava all’epoca della sua laurea. Poiché era vicino al tribunale, nessuno faceva caso che ci fosse qualcuno con un completo elegante, per cui era nel suo ambiente. Si fece accomodare al tavolo, ordinò un frullato energetico e diede ordini al cameriere se qualcuno fosse arrivato chiedendo di lui.
    Stava terminando di leggere la notizia sull’ultimo spettacolo di teatro, quando la sedia di fronte a lui si spostò e un uomo vi si accomodò.
    “Mi scusi se l’ho fatta attendere, non trovavo parcheggio.”
    L’uomo dalla voce sexy era tutto sexy, almeno un metro e novanta di muscoli e gnoccaggine, chiaramente visibili sotto il completo elegante. Curiosamente, aveva una cicatrice sul naso, che quasi gli tagliava il viso, e, quando allungò la mano per stringerla, notò che era di metallo.
    “Takashi Shirogane,” si presentò, e Keith non lo ricordava tra nessuno della gente con cui aveva a che fare, nonostante il nome gli fosse in qualche modo familiare. “Ma di solito mi chiamano Shiro.”
    “Keith.” Attese che anche Takashi ordinasse per lui – un cappuccino – prima di aggiungere, “allora, per questa cosa…”
    Shiro sorrise rassicurante. “Mi rendo conto che sembri una cosa imbarazzante, soprattutto le prime volte, ma solo perché c’è molto pregiudizio attorno. L’importante è, come in tutte le cose, ricordarsi le tre regole: sicuro, sano e consensuale.”
    “Sì, ecco…” Keith prese un sorso del frullato. “Io non so esattamente che cosa voglio. È una vita che non faccio sesso, non ne ho mai avuto bisogno. Voglio solo imparare a trattare i miei dipendenti in modo che non abbiano paura di me, ecco. Se lei pensa…”
    “Diamoci pure del tu,” disse Shiro, e poi rifletté fra sé e sé. “Qual è il problema con i suoi dipendenti?”
    “Non sono in grado di parlare con loro. Cioè, gli parlo, ma non li capisco, e a quanto pare questo non mi rende un bravo direttore. Temono il mio giudizio.”
    “E tu temi quello di qualcuno?”
    Keith alzò le spalle. “Ho imparato a fregarmene. Sono bravo nel mio lavoro, ecco tutto.”
    “Da quanto sei Direttore Generale?”
    “Un paio d’anni.”
    “Prima cosa facevi?”
    “Lavoravo in una start up di mia invenzione. La società per cui lavoro adesso mi ha pagato per acquisirla.”
    “Ho capito.” Shiro annuì. “Il motivo per cui ho pensato che potesse esserti utile avere un Dom piuttosto che un Sub è perché immagino che tu possa avere difficoltà a comprendere quanta autorità tu possa avere sugli altri, e da quello che mi hai raccontato potrebbe essere proprio così.”
    “Una specie di Boss in incognito?”
    “Una specie.” Shiro rise. “Diciamo che hai bisogno di lasciarti un attimo andare nelle mani di qualcun altro, di capire che cosa vorresti quando sei tu a dipendere da un altro, e anche quando ti vuoi fermare. Non è ovviamente lo stesso rapporto che hai con i tuoi dipendenti, ma ci va abbastanza vicino da poter essere una buona esperienza.”
    “Sono molto indeciso, lo ammetto.”
    “Non devi deciderlo adesso.” Shiro prese la cartellina che aveva con sé e ne estrasse un fascicolo di fogli ben organizzati. “Questi sono i miei limiti, le mie regole, il mio contratto e ovviamente le mie analisi che certificano che sono completamente sano. Puoi leggerle con calma e chiamarmi per qualsiasi dubbio.”
    “E poi?”
    “Se diventare un mio sub ti può andare bene, dovrai compilare la lista dei tuoi limiti personali, firmare il contratto e, ovviamente, fare le analisi se accetti anche un rapporto di tipo sessuale. Poi potremo iniziare. Suggerisco comunque che la prima sessione sia fatta a casa tua: è la più difficile, ed essere in un ambiente familiare potrebbe aiutarti.”
    Keith accettò i fogli con un po’ di timore.

    Passò il weekend e la settimana a studiarli. Cercò tutto l’elenco di limiti e preferenze che Shiro aveva messo sul foglio, per cercare di capire se potessero piacergli, ma alla fine scelse quasi a caso perché non aveva davvero idea di cosa desiderasse. Fece le analisi.
    Cercò anche il nome – Takashi Shirogane – in internet. Scoprì che se lo ricordava perché un paio di anni prima era stato al centro di un caso di cronaca nera di cui si era parlato molto, un rapimento ai danni suoi e di un esimio professore. Probabilmente era da quella vicenda che derivavano le sue ferite.
    Keith comunque non ne fece cenno, quando alla fine si decise a scansionare tutti i fogli e a inoltrarli a Shiro via mail la domenica sera. Non ebbe risposta e si scoprì deluso.
    Ma fu svegliato il lunedì mattina dallo squillare del telefono.
    Era Shiro.
    “Ho visto i fogli.”
    “Sì.”
    “Sono contento che tu abbia accettato.”
    “Quando possiamo vederci?”
    “Con calma,” rispose Shiro, con una voce improvvisamente suadente. “Devi andare al lavoro, oggi?”
    “Come sempre.”
    “Cosa indossi di solito? Il completo che avevi l’altra volta?”
    “Probabilmente non lo stesso, ma uno molto simile.”
    “Cos’hai nell’armadio che non siano completi? Descrivimeli.”
    Keith scese dal letto quasi gattonando e aprì la parte dell’armadio riservata ai pochi vestiti che aveva per i momenti ricreativi, che non erano mai molti. Prese a fargli un elenco distinto delle cose: un paio di jeans chiari, un paio di jeans scuri, magliette, camicie… A un certo punto, Shiro lo interruppe.
    “Oggi, per andare al lavoro, mettiti i jeans e il body nero.”
    “Ma…”
    “Hai scelto l’opzione 24h, giusto? Questo è parte dell’accordo,” e c’era un tono divertito nel modo in cui Shiro parlava. “E fatti la coda alta.”
    “Perché?”
    “Perché secondo me sarai adorabile così. E ricordati di mandarmi una foto. Ti richiamerò io.”
    Per qualche minuto, rimase a osservare il display ormai scuro del suo cellulare. Ovviamente, c’era la possibilità di ignorare ciò che Shiro gli aveva detto – ne sapeva abbastanza di giurisprudenza per sapere che il contratto che aveva firmato non aveva alcuna valenza legale – ma a quel punto l’intera idea della terapia che gli aveva proposto Allura sarebbe stata inutile.
    Con un sospiro, mise i vestiti che Shiro aveva scelto per lui, si fece la coda alta come faceva una volta, quando lavorava da solo al suo sistema, e poi andò al lavoro con un lungo sospiro.
    Come era facilmente preventivabile, tutti i colleghi che incontrò nel percorso dall’ingresso all’ufficio lo osservarono con guardo sorpreso, addirittura una delle guardie gli si avvicinò, non avendolo inizialmente riconosciuto, con grande imbarazzo da parte di entrambi.
    Allura passò dal suo ufficio con uno sguardo fin troppo divertito. “È successo qualcosa che non so?”
    “No comment.”
    Durante quella giornata, Keith scoprì due cose. La prima era che in realtà non amava per nulla l’idea che qualcuno potesse dargli degli ordini, e si sentiva umiliato dall’essere dovuto venire al lavoro con una divisa che non gli era propria. La seconda era che in realtà con quei vestiti si trovava più a suo agio rispetto a quando era con il completo, che aveva sempre trovato un po’ troppo da cassamortaro su uno con il suo fisico.
    Aveva letto studi sul fatto che l’abbigliamento potesse essere una componente fondamentale del lavoro, ma non l’aveva mai presa sul serio, considerandola una psicologia spicciola, e invece ora la vedeva realizzarsi di fronte ai suoi occhi.
    Lasciò l’ufficio per raggiungere il dipartimento tecnico. Pidge, che era il responsabile, si mise immediatamente sull’attenti, nonostante Keith sapesse bene che durante il suo lavoro tendeva a distrarsi fin troppo. La squadrò per un attimo dalla testa ai piedi: era bassa per la sua età, e quel completo addosso le stava malissimo.
    “Ti ricordi la volta che mi hai chiesto di poter venire al lavoro con le tue maglie da nerd?”
    Lei si accigliò. “Non sono maglie da nerd. Ma sì, come mi ricordo che mi hai detto di no perché la policy aziendale richiedere abbigliamento elegante per i responsabili.”
    “Ho cambiato idea. Vieni al lavoro come ti pare.”
    “Ma…” Le si allargarono gli occhi sotto gli occhiali. “E il presidente?”
    “Me la vedrò io con lui. A me basta che il tuo lavoro migliori.”
    Se ne tornò nel suo ufficio stranamente soddisfatto. Prese il suo cellulare e si scattò un rapido selfie alla scrivania, che inoltrò immediatamente a Shiro.
    La prima risposta fu un emoticon con il cuore.
    Poi:
    “Lo sapevo che stavi bene.”
    “Come sta andando?”
    E Keith ammise: “meglio di quello che pensavo.”

    Nei giorni successivi, Shiro continuò a dargli gli ordini più disparati, ma sempre senza fare accenno, in alcun modo, a un loro eventuale incontro. Keith fremeva, voleva chiedergli che cosa stesse aspettando, perché gli importasse di più obbligarlo a mangiare un budino al cioccolato piuttosto che fare cose da Dom come Keith se le immaginava dai film di 007.
    Allo stesso tempo, però, Keith doveva ammettere a se stesso che la terapia stava in qualche modo funzionando. Aveva continuato ad andare al lavoro seguendo le decisioni di Shiro ogni mattina, e doveva dire che non era così male lasciarsi andare alla preferenza di altri. Dopo Pidge, altre persone avevano chiesto di poter evitare un abbigliamento formale se non necessario (persino Allura era arrivata un giorno con un vestito rosa che le lasciava scoperte le gambe e che aveva causato un piccolo incidente tra vassoi in mensa), ed improvvisamente l’azienda sembrava aver acquistato allegria.
    Alcuni ordini di Shiro (limitarsi a due riunioni al giorno, proprio se necessarie, uscire almeno un giorno con un’ora in anticipo, prendersi almeno un’ora di pausa pranzo) gli avevano fatto temere un rallentamento del lavoro; poi però si era ricordato che Shiro stesso era Direttore Generale e non di un’azienda concorrente a quella di Keith, quindi probabilmente conosceva i trucchi per lavorare bene.
    La sua azienda, infatti (la Garrison), produceva un fatturato annuo notevole, ed era anche studiata nelle università di economia e commercio; tutte cose che Keith aveva scoperto indagando in segreto sul suo Dom. Shiro faceva molte domande, ma sulla sua vita privata era reticente.
    “Fai il bravo,” rise Shiro a una certa, dopo l’ennesima domanda di Keith. “Altrimenti ti dovrò punire.”
    “E se invece faccio il bravo?”
    “Allora ti premierò.”
    Non è che Keith fosse così curioso di natura, però sentiva che fra lui e Shiro si stava creando un rapporto particolare, o forse era solo lui a crederlo, per il modo in cui ormai si stava fidando dei suoi ordini, e si abbandonava a loro senza più protestare o chiedersi per quale ragione fossero dati.
    Finché, un giorno, Shiro lo chiamò, un venerdì sera. “Sei libero nel weekend?”
    “Sì.”
    “Allora vediamoci, sabato pomeriggio.”
    “A casa mia?”
    “Sì.”
    “Devo preparare qualcosa?”
    “Solo te stesso.”

    Fu una giornata di tensione. Era la prima volta che Shiro accettava di fare una sessione come si doveva, ed era la prima volta in assoluto per Keith, il quale temeva di non essere all’altezza. Aveva chiesto all’azienda di pulizie di fare un passaggio in più nel suo attico, si era fatto due docce, aveva lasciato Kosmo da Regris per l’intero weekend, aveva riempito il frigo di tutto ciò che potesse essere utile.
    Il portiere suonò. “Dottor Kogane, c’è un ospite per lei. Il Dottor Shirogane.”
    “Lo faccia salire.”
    Aprì la porta quando sentì il rumore dell’ascensore, e sperò di non essere risultato troppo sorpreso nel vedere Shiro che usciva dall’ascensore. L’unica volta che si erano incontrati dal vivo, Shiro aveva un completo non differente da quello di Keith, che gli dava un aspetto formale, ma elegante. Invece, quel giorno aveva un paio di jeans neri e una maglietta bianca sotto una giacca di pelle nera ed era, se possibile, ancora più bello.
    “Vivi in un bel posto,” gli disse Shiro, quando Keith lo fece accomodare. “Io mi sono trasferito dalla city, ma se abitassi ancora qui, questo quartiere sarebbe stata una delle mie scelte.”
    “Me l’ha consigliato il mio presidente,” rispose Keith, quasi grato di quella conversazione quasi semplice con cui avevano iniziato. “Ma se potessi mi trasferirei fuori anche io.”
    “Come mai non lo fai?”
    “Al momento è troppo comodo.”
    Shiro si guardò intorno nella grande sala, quindi senza chiedere permesso si mosse a esplorare il resto della casa, la cucina, il bagno, lo studio. Posò la borsa che aveva con sé solo quando raggiunsero la camera da letto: Keith aveva chiuso le tende, ma la luce penetrava abbastanza. Shiro aprì l’armadio e fece un controllo di tutti i vestiti che c’erano all’interno, scarpe comprese.
    “Non ti ho mentito sui vestiti che ho,” rise Keith.
    “Lo so,” Shiro rispose, con un sorriso. “Non mentiresti al tuo Dom, vero?”
    “Ovviamente.”
    “Ma hai pochi vestiti. Stasera a questo ci rimedieremo,” disse Shiro, in maniera casuale. “Per ora, spero che questo vada bene.” Frugò nel borsone che aveva portato con sé e ne estrasse un qualcosa di piegato, di colore nero lucido. “Mettiti questo.”
    Glielo passò, e Keith capì che si trattava di una tuta in latex.
    “L’ho comprata apposta per te,” aggiunse Shiro.
    “Grazie,” Keith si ritrovò a dire, con sincerità, arrossendo un po’. Poi si guardò intorno. “Vado un attimo in bagno…”
    “No,” lo bloccò immediatamente Shiro. “Cambiati qui. E Keith,” aggiunse, con un sorrisetto furbo, “va messa senza mutande.”
    Keith deglutì vistosamente, mentre Shiro si sedeva sul bordo del letto ed evidentemente aspettava di godersi lo spettacolo. Keith poggiò la tuta sull’alta cassettiera e iniziò a spogliarsi. Tolse le scarpe e le spinse via con la punta del piede. Poi, dopo essersi sbottonato la camicia, alzò le braccia per togliersela con più facilità. Slacciò la cintola, aprì la patta dei pantaloni e li lasciò scivolare a terra. Con un altro sospiro, trattenendo il fiato, spinse per le gambe anche le mutande.
    “Hai un culo spettacolare,” disse Shiro, senza alcun tipo di malizia, come se stesse valutando un immobile. “Mi stai mostrando la parte migliore?”
    “No, è che-”
    “Voltati.”
    Keith ubbidì, e arrossì sotto lo sguardo indagatore di Shiro. “Sei molto bello,” disse Shiro alla fine.
    “Grazie, anche tu,” venne naturale rispondere a Keith, e la reazione di Shiro lo sorprese, perché fu lui ad essere imbarazzato in quel momento, con gli occhi leggermente aperti dalla sorpresa. Keith approfittò di quel momento per mettersi la tuta: era stretta e aderente, faceva quasi una seconda pelle e non lasciava assolutamente niente del suo corpo all’immaginazione. Non che ci fosse qualcosa di cui vergognarsi a quel punto, dato che Shiro l’aveva già visto nudo.
    “Vieni qui.” Shiro gli fece cenno con due patte sul suo ginocchio, e Keith si avvicinò e capì che intendeva per Keith di appoggiare la testa sulla sua gamba, quindi si chinò e obbedì, rimanendo inginocchiato di fronte a lui, fra le sue due gambe un poco allargate.
    “Questa è la tua prima sessione,” disse Shiro, “quindi non durerà a lungo, e non faremo niente di esagerato. Voglio solo che tu abbia un assaggio di quello che potrà essere. È chiaro?”
    Keith annuì.
    “Ciò nonostante, se per qualsiasi ragione quello che ti chiederò non andrà bene, fermami.”
    “Va bene.”
    “Bravo gattino.” Frugò nuovamente nella sua borsa e ne estrasse quello che appariva come un foulard, di colore blu. “È seta. Lo faccio per abituarti alle corde poi.”
    Con delicatezza, prese le mani di Keith nelle sue e poi avvolse il foulard attorno ai suoi polsi, stringendoglieli e bloccandoli assieme, senza però fargli troppo male, o senza che Keith temesse di non potersi liberare. Poi, d’improvviso, tirò in alto un’estremità del foulard, trascinandosi dietro le braccia di Keith, che furono così volte verso l’alto, e allineando la colonna vertebrale, così che Keith si ritrovò sempre inginocchiato per terra, ma in qualche maniera instabile, tirato verso l’alto.
    “Guarda che cos’ho pescato oggi,” disse Shiro, e c’era un tono quasi malevole stavolta, nella sua voce. “Che cosa posso farti fare oggi?”
    Sempre di scatto, lasciò andare l’estremità del foulard e Keith si ritrovò ad accartocciarsi su se stesso, come se fosse una bambola di pezza. Shiro si tolse la cintura e si aprì i pantaloni, quanto bastava per liberare il suo pene. Era chiaro anche prima che avesse un’erezione che non era un pene di dimensioni nella media, e Keith osservò con gli occhi spalancati mentre Shiro si masturbava appena.
    Quasi non percepì l’ordine che gli arrivò. “Succhia.”
    “Ma io veramente…”
    Shireo gli accarezzò la testa. “Noi sei un bravo gattino?”
    “Sì, io…”
    “Allora succhia.”
    Con un lieve cenno del capo, Keith si avvicinò gattonando e appoggiò delicatamente le labbra sul pene di Shiro. Non è che non avesse mai fatto un pompino in vita sua, ma non si era mai ritenuto un grande esperto, ed era una vita che non li faceva. Shiro lo guidò, fra un gemito e un altro, sempre con la mano che gli accarezzava i capelli.
    Gli venne in bocca, senza preavviso, e Keith si sentì quasi soffocare, poi strinse le labbra per non vomitare, lo sperma ancora in bocca. Shiro lo osservò con un sorriso, le labbra rosse e lo sguardo un pochino lucido.
    “Sei un bravo gattino,” gli disse. “Te la senti di ingoiare?”
    Lentamente, Keith annuì. Poi deglutì tutto e tossì solo un attimo, alla fine. Shiro lo accarezzò ancora, a lungo, sui capelli e sulla guancia.
    “Bravo gattino,” ripeté, e Keith si rese conto di apprezzare tanto quei complimenti, di apprezzare che riconoscesse che era stato bravo e che lo lodasse. Voleva essere bravo per ricevere quei complimenti.
    Poi Shiro si alzò: “sistemiamoci, dobbiamo andare.”

    Per il resto del pomeriggio, Shiro lo portò in giro per la città, a scegliere dei nuovi vestiti. Keith perse il conto di quanti negozi girarono, e di quanti vestiti Shiro gli fece provare. Sembrava che si divertisse a vederlo con tipologie differenti di vestiti, e li analizzava tutti. Poi, quando trovava uno che a suo parere stava bene sul fisico di Keith, sorrideva e gli occhi gli brillavano appena. A Keith quei momenti piacevano, e pagava per il vestito che piaceva a Shiro senza fare alcuna domanda.
    Fu in generale un pomeriggio estremamente piacevole, eppure non era un classico appuntamento. Erano lì perché Shiro lo voleva, compravano i vestiti che piacevano a Shiro, ordinavano quello che Shiro voleva, e in generale andavano solo dove voleva lui. Era una cosa che Shiro non faceva presente spesso, ma quando si sporgeva a farglielo presente, era deciso, non ammetteva repliche. Keith scoprì che non gli dispiaceva l’idea di lasciarsi andare completamente.
    Era così preso dalla foga del suo lavoro, dalle preoccupazioni, dalle responsabilità che il lavoro portava con sé, che alla fine era bello, per un giorno, spegnere il cervello e lasciare guidarsi completamente da un’altra persona. E gli piaceva essere premiato per questo.
    “Bravo gattino,” gli disse Shiro al termine della serata, quando riaccompagnò Keith a casa sua. “Stasera, mettiti questo,” e indicò uno dei vestiti che avevano comprato, “e masturbati pensando a me. Saprò se non l’hai fatto.”
    “Lo farò.”
    Shiro sorrise. “Molto bene.”
    “Quando possiamo rivederci?”
    “Te lo farò sapere. Tu continua a comportarti bene.”

    Lance entrò nell’ufficio con una faccia torva. Aveva subito apprezzato la nuova policy aziendale di vestire casual, ma con i jeans chiari e la giacca leggera sembrava ancora più ragazzino della sua età, e a giudicare dalla sua espressione, un ragazzino capriccioso.
    “Che c’è?” sbuffò, al netto di qualsiasi regola di educazione, considerando che stava parlando con un superiore. Ma se lo poteva permettere, perché Keith non gli aveva mai fatto storie da quel punto di vista, il confronto gli era necessario di tanto in tanto.
    “Ho presentato il tuo progetto al consiglio amministrativo ieri,” disse Keith sbrigativo.
    “Davvero?” Lance si sorprese alla notizia.
    “Ma certo, il tuo progetto è buono. Non ti ho avvertito perché l’ho inserito in programmazione all’ultimo, non sapevo se l’avrebbero discusso davvero e se il presidente sarebbe stato ben disposto.”
    “Okay,” disse Lance, e per una volta perse tutto il suo buonumore e si accasciò su se stesso.
    “Purtroppo non hanno avuto molto tempo per discuterlo, ma ho insistito. Per questo motivo, però le cose che hai portato finora non bastano.” Estrasse una busta dal cassetto. “Ti ho fatto un report di quello che vogliono per la riunione di settimana prossima, ho già chiesto che ti mettessero subito in lista. Se hai bisogno di essere affiancato da qualcuno fammelo sapere, devi dedicarti a questo come priorità.”
    Lance prese la cartellina controvoglia. “E se non andasse bene?”
    “Il progetto va bene. Sei un ottimo ingegnere, okay, e credo che quel progetto possa far crescere l’azienda. Ma è un progetto tuo, devi essere tu a prenderti la responsabilità di svilupparlo. E i meriti che ne conseguiranno.”
    “Ma solo una settimana… ormai l’avevo quasi abbandonato.”
    “Ti do una mano io a controllarlo, così siamo sicuri che non ci siano errori.” Keith si morse il labbro appena, non sapeva se aveva appena commesso un errore. “Tu lavora come sai e vedrai che andrà tutto bene. Sei bravo. Lo so , lo deve sapere anche il consiglio.”
    “Non me l’avevi mai detto,” disse Lance.
    “Te lo sto dicendo ora.”
    Lance sembrò scrutare il suo viso, come a capire l’imbroglio.
    “Sei un ottimo ingegnere,” ripeté Keith. “Per questo devi e puoi lavorare bene. Portami i tuoi progressi fra qualche giorno.”
    “Ora ti riconosco.” Ma Lance se ne andò dall’ufficio soddisfatto.
     
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