Sono stato qui per te

[Voltron Legendary Defender] - collegata a "Sarò qui per te"

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    Erano tutti in piedi a fianco della macchina che Pidge e Hunk avevano costruito nei giorni scorsi, era un momento di calma ma anche di tensione. Secondo Pidge, questa macchina aveva la possibilità di mostrare a chi ci entrasse dove si trovassero le tasche spazio-temporali della propria realtà.
    Secondo uno studio da lei stessa compiuto, infatti, era assolutamente possibile che Allura vivesse in una di queste tasche, o che fosse in qualche modo connessa a tutti. Trovare una di queste tasche avrebbe potuto mettere i paladini in qualche modo in contatto con lei, capire dove si trovasse, portarla fuori da lì.
    Inutile dire che per tutti si trattava di una ricerca della massima importanza e Shiro aveva dato lei a disposizione tutti gli strumenti dell’Atlas e aveva lasciato che sfruttasse anche gli scienziati, umani e non, che gravitavano all’interno di quel settore. E adesso, dopo due mesi di intensa ricerca, la macchina era finalmente pronta per essere testata. E così aveva chiamato tutti, e tutti si erano radunati nel suo laboratorio per la prima prova.
    “In linea teorica la Trasndimensionale funziona in maniera molto facile,” disse Pidge. “Almeno se non volete che vi spieghi esattamente su che basi i circuiti entrano in connessione con le particelle dell’universo e connettendosi al suo interno-”
    “No, grazie,” la interruppe immediatamente Lance. “Ti prego, mettila in funzione e facciamola finita.”
    Pidge gli riservò un’occhiata annoiata. “Va bene, va bene… allora, è tutto molto semplice, in realtà. All’interno della Transdimensionale c’è spazio per una persona, come una cabina di cura. Leggermente più grande in realtà, per comodità. Una volta selezionata la striscia di universo che vogliamo controllare, si preme avvio e in teoria la persona all’interno della cabina sarà trasportata, se è presente una tasca dimensionale, al suo interno. Facile, no?”
    “Sì, sì, tutto bello… ma è quell’in teoria che mi preoccupa un po’.”
    “Oh, non ti deve preoccupare,” Pidge agitò la mano davanti al volto, noncurante. “È solo che non è stata mai testata, ma funzionerà.”
    “Hunk?” domandò Lance per sicurezza.
    “Be’, naturalmente c’è un piccolissimo margine di errore dovuto al fatto che quelli da noi effettuati sono i primi studi in assoluto per quanto riguarda questo settore,” rispose lui sinceramente. “Ma noi non siamo tentando di passare di dimensione come quando ci siamo spostati con Voltron, ma solo di vedere degli errori all’interno della nostra stessa dimensione, che potrebbero ma anche no collegarci con un’altra, per questo motivo anche qualsiasi rischio si possa correre è ridotto al minimo.”
    “Io continuo a non capirci nulla,” affermò Lance sconsolato.
    “Forse la cosa migliore è provarla,” suggerì Shiro. “Insomma, noi non siamo scienziati, ma vederlo con i nostri occhi forse ci renderebbe la cosa più chiara?”
    Pidge annuì. “Direi di sì. Lance, prego, entra all’interno.”
    “Io?”
    “Be’, non eri tu che volevi capire come funzionasse? Non vuoi provare a cercare Allura?”
    “Certo che lo voglio, ma…” Lance abbassò lo sguardo.
    Keith capì che la sua non era paura dell’ignoto, o di non uscirne da lì, o anche peggio di non vedere Allura. No, da parte sua c’era solo il desiderio di trovarla, e la paura di rimanere deluso se dall’altra parte della macchina non ci fosse stato che il vuoto.
    “Lo provo io,” si offrì allora Keith.
    “Sei sicuro?” domandò Shiro.
    Keith annuì. “Dopotutto, è stata la mia sensibilità alla quintessenza che ci ha portato da Blue la prima volta. È possibile che anche in questo caso per me venga più facile individuare una tasca dimensionale dove comunicare con Allura rispetto a voi.”
    “Questo in effetti è possibile,” convenne Pidge. “La macchina individua sì le tasche temporali, ma non sappiamo né se né in che condizioni Allura potrebbe trovarsi al loro interno.”
    “Senza considerare,” aggiunse Hunk, “che la nostra ricerca non ci ha ancora detto quante tasche ci sono all’interno di una porzione di universo, per cui non siamo in grado di ridurre la ricerca a uno spazio ristretto, mentre Keith potrebbe regolarsi da solo una volta che la macchina sia in funzione.”
    “È deciso, dunque,” annuì Keith, a cui non sfuggì l’occhiata di gratitudine che Lance gli lanciò, dopodiché fece due passi per entrare all’interno della macchina e Pidge chiuse e sigillò la porta dietro di lui.
    “Mi senti?” gli disse.
    “Forte e chiaro.”
    “Bene,” commentò Pidge. “Ora ascoltami attentamente. Io metterò in funzione questa macchina, tu devi appoggiare le mani sui due pomelli laterali, hai fatto?”
    “Sì.” Keith li sentì inizialmente freddi al contatto, poi iniziarono a scaldarsi sotto la sua presa.
    “Benissimo. Sto selezionando la porzione di universo in cui esaminare. Hai un piccolo schermo di fronte a te, che dovrebbe mostrarti per diagrammi se c’è una zona particolarmente interessante da esplorare, e potrai muoverti attraverso essa utilizzando i due pomelli. In realtà non ti sposterai davvero fisicamente, è la macchina che si metterà in contatto con quelle zone e, se è davvero possibile entrarci, dovrebbe darti la possibilità di metterti in comunicazione con essa. Poi naturalmente una vera esplorazione dovrà essere fatta di persona, ma almeno sapremo dove cercare.”
    “Credo di aver capito.”
    “Comunque noi saremo in comunicazione con te tutto il tempo, non ti devi preoccupare,” aggiunse Hunk.
    “Grazie.”
    “Okay, ho selezionato la striscia di universo. Partiamo.”
    Keith vide lo schermo di fronte a se accendersi, mostrando l’universo in maniera colorata, sicuramente attraverso qualche particolare filtro che permetteva l’individuazione delle tasche. Invece di utilizzare la vista, Keith chiuse gli occhi e si lasciò guidare dalle sensazioni che provava, proprio come era successo con Red e Blue. E allora lo sentì, qualcosa che lo tirava a sé, molto vicino a se stesso.
    Mosse appena le mani sui pomelli per dirigersi in quella direzione e poi avvertì chiaramente qualcosa che lo tirava all’insù, e la macchina che tremava tutto attorno a sé.
    “C’è qualcuno?” disse, ma non ebbe risposta, nemmeno da Hunk o Pidge. La sensazione che qualcuno lo tirasse divenne più forte, Keith prese quasi la mano sul pomello, come se si sentisse spostato in alto, e poi tutto finì improvvisamente, anche il tremore.
    Keith aprì gli occhi e capì che qualcosa era andato orribilmente storto.
    Non era più nella macchina, ma all’interno di una stanza che ricordava in modo impressionante il vecchio appartamento che Shiro aveva quando stava alla Garrison, prima di Kerberos, un appartamento che Keith aveva frequentato spesso in passato e che Shiro aveva diviso con Adam a lungo.
    C’erano gli stessi toni di colore, gli stessi libri sulla libreria, la stessa disposizione dei piatti nella credenza, tutto come Keith se l’era impresso in mente dopo Kerberos.
    Lui si era ritrovato seduto sul divano, una coperta che gli era praticamente scivolata ai piedi nel mentre che si era mosse appena per alzarsi, e non riusciva a capire che cosa potesse essere successo. Aveva trovato la tasca dimensionale? Probabile. E questa l’aveva portato da tutt’altra parte.
    “Keith?” chiamò una voce dietro di lui.
    Keith si voltò e vide Shiro sulla soglia. Ma non era il Shiro del suo tempo, quello che comandava l’Atlas e in pratica l’intera Garrison, quello che aveva la cicatrice sul naso e il braccio alteano, e che era sopravvissuto ai campi di prigionia galra. No, questo era il Shiro dei tempi della Garrison, quello ancora giovane e pieno di ambizione e speranza nonostante la malattia ancora galoppante, con la faccia pulita ma l’animo da bad boy e i capelli completamente neri.
    In quel momento, indossava la divisa da ufficiale della Garrison e aveva un’espressione stupita sul volto.
    “Tu non sei il mio Keith,” disse, e sembrava si sentisse stupido nel pronunciare quelle parole.
    “No, non lo sono,” ammise Keith.
    E improvvisamente, due cose accaddero: la prima fu che Keith si ricordò di che momento era, subito dopo che Shiro si era lasciato con Adam, prima ancora che Keith scoprisse della sua malattia. Era passato a trovarlo, senza alcuna ragione ma per sapere come stava, con la scusa di farsi spiegare un compito. E poi era rimasto a dormire.
    La seconda cosa era che si ricordava del viaggio nel tempo. Non era una cosa chiara, si ricordava solo l’idea di uscire da quella macchina, di vedere i volti dei paladini anziani, che lui all’epoca non conosceva, e di e ritrovarsi catapultato in un mondo completamente nuovo.
    Se Hunk e Pidge fossero stati lì, forse avrebbero potuto spiegargli il meccanismo per cui stava funzionando quel sistema, ma evidentemente le due realtà si andavano componendo ma mano che gli avvenimenti succedevano all’uno o all’altro. Il Keith del passato stava vivendo degli avvenimenti del futuro che gli sarebbero poi trasformati in ricordi che adesso il Keith del futuro possedeva.
    Era una roba strana, ma aveva una specie di logica, dopo tutto.
    Notò che Shiro continuava a osservarlo con una strana espressione sul volto e, quando capì che Keith l’aveva notato, arrossì appena e volse lo sguardo.
    “Uhm… posso chiederti allora chi sei e dov’è il mio Keith?”
    “Sto per dirti una cosa veramente strana,” disse Keith, “ma ti prego di credermi perché è la verità. Io vengo dal futuro, e in questo momento il tuo Keith è finito in qualche modo nel mio tempo.”
    “Strano è strano,” ammise Shiro. “Ma tu sembri davvero un Keith invecchiato. Quanti anni avresti adesso? Venticinque?”
    “Esatto.”
    Shiro sorrise, e c’era un che di malinconico in quello sguardo. “Spero di essere ancora qui per incontrarti nel tempo giusto.”
    “Oh, lo sarai,” confermò Keith. Aveva preso quella faccenda insolitamente bene. Ma d’altronde Shiro era sempre stato un nerd, aveva la passione per le sci-fy e Keith era sicuro che in un certo senso avrebbe sempre desiderato di finirci dentro in qualche modo, anche se naturalmente preferiva le storie legate allo spazio. Col senno di poi, forse Shiro avrebbe dovuto pensarci meglio a quello che desiderava.
    Ci fu un altro sorriso, questa volta più allegro, da parte di Shiro. “Come… uhm… come possiamo riportare le cose al posto giusto?”
    “Penso che i colleghi nel futuro ci siano già lavorando,” disse Keith. “D’altronde sono stati loro a coinvolgermi nel loro esperimento, anche se non era questo l’effetto che volevano ottenere.”
    “E cosa dovevano ottenere?”
    “Contatti con persone di altre dimensioni?” rispose Keith, incerto. Di certo non poteva raccontargli niente di Allura e di tutto quello che era successo con gli alteani.
    “Oh,” esclamò lui. “Ancora non abbiamo il contatto con altre forme di vita e già stiamo venendo a conoscenza di altre dimensioni?” Poi fissò Keith in volto e capì, “abbiamo incontrato degli alieni nel tuo tempo?”
    “Sì, l’abbiamo fatto,” confermò Keith. Ma non aggiunse nulla sul fatto che lui stesso fosse un alieno. “Ma non posso davvero dirti più di così. Non so che danni potrei fare alla linea temporale se ti dicessi più di questo.”
    “Certo, certo, capisco.” Poi abbassò lo sguardo. “Quindi immagino tu non mi possa nemmeno dire come andrà Kerberos.”
    Quello era un colpo basso per Keith. Bassissimo. Una parte di Keith voleva prendere Shiro e impedirgli di andare, evitargli un anno di torture e prigionie, e tutto quello che sarebbe conseguito a quello, incluso la storia del clone. Ma allo stesso tempo Keith non poteva farlo, perché era stato anche quello che Shiro aveva attraversato che aveva permesso loro di radunarsi come Paladini e, alla fine, di salvare l’universo.
    E aveva salvato anche Shiro, liberandolo definitivamente dalla sua malattia. Se Keith l’avesse protetto dal post Kerberos, forse l’avrebbe condannato a una vita ben peggiore. Questo non faceva sentire Keith per niente meglio, ma alle volte aveva imparato che si deve fare la cosa giusta per quanta sofferenza possa causare.
    “Sei preoccupato?” chiese invece.
    “No, io…” fece un lungo sospiro. “Non lo sono, ma certe volte mi vengono in mente le frasi di Adam o quelle di Sanda che dice che sono solo un malato che non si può rischiare di mandare nello spazio e allora temo che per me non ci sia più niente da fare, che io finisca davvero per mettere in pericolo il mio equipaggio… sai, morire nello spazio mi andrebbe anche bene.”
    Bugiardo, pensò Keith, ma non lo disse.
    “Ma non voglio mettere in pericolo la vita di nessuno. D’altra parte, non voglio nemmeno diventare come quelli che non possono fare più niente nella vita perché non ne hanno la forza-” si bloccò immediatamente, come se si fosse reso conto di una cosa solo in quel momento. “Tu sai… di me intendo.”
    “Della tua malattia? Sì.”
    “Te l’ho detto io?”
    “Sai che non posso dirti di più.”
    “Già, be’.” Shiro fece una smorfia. “Probabilmente niente di quello che ti sto dicendo è una novità per te.”
    “In realtà, un po’ sì,” ammise Keith. “Il fatto è che lo Shiro che mi ricordo da ragazzino era uno che non voleva mai mostrare le sue debolezze a nessuno. Non raccontava della sua malattia, non raccontava dei suoi timori, nemmeno se stava male. Poi era pessimista e faceva battute sulla sua presunta morte futura, e combatteva per non morire, ma non lasciava nessuno passare oltre i suoi muri. Io pensavo che fosse invincibile.”
    “E invece?” Shiro deglutì visibilmente.
    “Non c’è nessun invece, è davvero invincibile, ma a volte ha bisogno di qualcuno al suo fianco, di lasciarsi andare per non crollare sotto il peso di tutto quello che vuole portare da solo. E gli voglio bene allo stesso modo, credimi.” Poi fece due passi in avanti, eliminando la distanza che li separava e lo abbracciò.
    Shiro all’epoca era già alto e grosso, ma non quanto sarebbe diventato dopo Kerberos, per cui affondò in quell’abbraccio totalmente, e Keith notò che, sebbene con qualche esitazione, ricambiava, aggrappandosi con le mani all’uniforme da Blade di Keith.
    “Tu sei forte, Shiro,” gli disse. “Sei più forte di qualsiasi persona io abbia conosciuto. E mi hai salvato la vita, quindi non devi preoccuparti di nulla. Fai tutto quello che devi fare nella tua vita, senza preoccuparti di me o di quello che rischi. Io sarò sempre dietro di te a prenderti se dovessi cadere.”
    “Allora Kerberos andrà male?”
    “Kerberos andrà come deve andare,” disse Keith, “in modo che tu possa diventare quello che meriti di essere. Tieni bene a mente le mie parole, e non lasciarti andare mai.”
    Poi Keith sentì tirare di nuovo, la stessa sensazione che aveva provato quando era finito in quel mondo la prima volta, e capì che Pidge lo stava riportando indietro. Si sciolse dall’abbraccio e gli sorrise.
    “Adesso devo andare,” gli disse, “e il tuo Keith tornerà indietro. Ricordati quello che ti ho detto.”
    “Grazie, Keith, di tutto.”
    “Stammi bene.”
    Fu un attimo, e poi si ritrovò di nuovo nella cabina della macchina, con la voce di Hunk che lo chiamava un po’ incerto. “Keith? Sei tu?”
    “Sì, sono io. Sono tornato. Ma che avete combinato?”
    “Devo aver calcolato male le potenzialità della macchina, e forse anche il fatto che tu saresti stato attirato in maniera maggiore da te stesso che non da Allura,” disse Pidge. “Tutta colpa di Lance che non ha voluto salire, comunque.”
    “Ehi!” protestò Lance.
    Keith uscì dalla macchina scuotendo leggermente la testa. “Spero abbiate trattato bene il me del passato.”
    “Oh, Shiro l’ha trattato molto bene,” commentò Pidge divertita, e Shiro tossì leggermente.
    “Dovresti ricordartelo,” disse. “Io adesso mi ricordo del nostro incontro. Avevi ragione su tutto.”
    “È stato facile, quando sai già quello che è successo,” si schernì Keith, e poi arrossì capendo quello che era successo con il se stesso del passato.
    Dannazione, pensò. Lui non era riuscito ad approfittarsene.
     
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