Al tuo fianco

[Voltron Legendary Defender] nsfw, mafia!AU

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    Quando si erano incontrati per la prima volta, Shiro aveva dieci anni, Keith sei. Suo padre era appena morto e i servizi sociali l’avevano portato in orfanotrofio.
    Shiro si ricordava quel giorno come se fosse capitato il giorno prima. Keith camminava con gli occhi bassi, non guardava nessuno, a malapena ascoltava quello che le volontarie gli stavano dicendo. Però capiva tutto, capiva la situazione in cui era e anche quello che sarebbe successo dopo. Quello Shiro, al contrario di tutti gli adulti presenti, che consideravano Keith ancora bloccato dallo choc, lo capì subito.
    Lo capì nel momento in cui finalmente alzò gli occhi e lo guardò. Aveva degli occhi azzurri, grazi e profondi, e in quel momento erano pieni di fuoco, un fuoco ardente di chi sta nascondendo un grande dolore sotto un immenso desiderio di sopravvivere a tutto e tutti.
    Quello fu il momento in cui Shiro decise che doveva diventare suo amico.
    Non fu un’impresa facile, perché Keith non si faceva avvicinare da nessuno, parlava a malapena con le volontarie, e nemmeno la psicologa capiva cosa fare con lui. Shiro sapeva che Keith voleva solo essere lasciato in pace con il suo dolore, che non aveva bisogno di nessuno che tentasse di consolarlo, o che gli dicesse che piangere era okay.
    Shiro voleva che Keith sapesse di non essere solo veramente.
    “Io non ho bisogno di te,” gli disse Keith una volta, all’ennesimo tentativo di Shiro di coinvolgerlo nella sua nuova passione, la lettura di un libro che gli insegnanti ritenevano difficilissimo, Il Signore degli Anelli.
    “Tutti abbiamo bisogno di qualcuno nella nostra vita,” disse Shiro.
    “Tu nemmeno mi conosci.”
    “È vero,” rispose Shiro. “Ma sarò tuo amico.”
    Keith rilasciò una smorfia, ed era l’espressione più genuina che avesse avuto da quando era arrivato all’orfanotrofio.
    “Che cosa c’è di così divertente?”
    “Io non voglio nessuno,” disse Keith, “perché tutti prima o poi ti lasciano, anche quelli che dicono di volerti bene. Mia madre mi voleva bene, e se n’è andata, mio padre mi voleva bene, ed è morto. Quindi, io non voglio avere più nessuno.”
    E Shiro capì che quel chiudersi in sé stesso non era una malattia, non era per tristezza o per orgoglio. Era la consapevolezza di qualcuno che aveva già perso tutto e non voleva soffrire di nuovo, per cui preferiva vivere la vita da solo, e non rischiare di soffrire più.
    “Io non ti abbandonerò,” dichiarò Shiro. “Te lo prometto.”
    Keith lo guardò come se sembrasse non credergli, come se trovasse la reazione di Shiro insensata, ma allo stesso modo c’era in quello sguardo anche un’emozione nuova, una piccola fiammella di speranza che si stava accendendo al vedere Shiro che era così insistente per lui e solo per lui. Forse Keith non era così irrecuperabile come tutti pensavano, e Shiro era uno dei pochi che aveva anche potuto vedere un aspetto di Keith differente, quello intelligente, quello del bambino che sicuramente sarebbe diventato se non gli fossero accadute queste disgrazie.
    Shiro passò i due anni successivi a cercare di dimostrargli che la sua promessa era veritiera, che non l’avrebbe abbandonato mai.

    Haxus venne introdotto nella stanza da uno dei tirapiedi del boss: la stanza era grande, all’interno di un vecchio magazzino abbandonato alla periferia della città. Era notte, e le luci della stanza erano tenute volutamente spente, in modo che l’intera aula vuota sembrasse ancora più spettrale, illuminata com’era dal solo arrivare della luce esterna, fra stelle e lampioni.
    Tutto in quella situazione spiccava una falsa forza ostentata, come se si trovassero in un film di gangster o di vampiri. C’era un’unica poltrona rossa, quasi al termine del capannone, poggiata su una piattaforma rialzata, e Takashi “Shiro” Shirogane, il nuovo boss della zona, sedeva lì come su un trono, la testa mollemente appoggiata sul braccio sinistro che stava sul bracciolo, mentre quello destro era mollemente adagiato – per chi non lo sapesse, poteva sembrare reale, ma era solo un braccio prostetico di ultima generazione.
    Guardava in avanti, ma non sembrava avere il focus veramente su Haxus, anche se lui sapeva che avrebbe potuto attaccarlo con il braccio sinistro da solo, se avesse voluto.
    Seduto sull’altro bracciolo stava Keith Koh, impassibile e immobile come una statua di cera. C’erano tante voci, tutte diverse, su Keith Koh e sulle sue abilità, ma tutti concordavano in una cosa: lui, nell’organizzazione, non era altro che la puttana del boss, che come altro difetto aveva anche quello di essere ricchione.
    D’altronde, Keith Koh era solo un mezzo uomo. Aveva il culo di una ragazza, il viso di una ragazza, delicato e liscio, senza un’ombra di barba, e il fisico minuto, leggiadro. Teneva anche il capelli lunghi fino alle spalle. C’era chi giurava di averlo visto ballare a un party privato, fare la pole dance, insomma, agitarsi come avrebbe fatto una puttana. Molti si domandavano se avesse davvero le palle.
    Però Shiro lo teneva in grande considerazione, non lo mollava mai. Quanto una puttana può tenere un uomo per le palle era davvero incredibile. Keith Koh conosceva praticamente tutti i segreti più reconditi di Shiro, e chiunque avrebbe potuto portarlo dalla orpria parte probabilmente avrebbe anche rovinato Shiro. Ma difficilmente era lontano dal fianco di Shiro, e le poche volte che lo era, apparentemente nessuno era riuscito a muovere un dito contro di lui.
    Haxus credeva che fosse perché non ci avevano provato abbastanza.
    “So che dovevi parlarmi?” disse allora Shiro, senza spostarsi di un millimetro dalla propria posizione. Keith Koh aveva gli occhi fissi su Haxus, con la stessa posizione impassibile: quella sera indossava un top nero e dei pantaloni in latex con gli stivali col tacco a spillo, giusto per rimarcare ancora di più il suo ruolo nell’organizzazione.
    “Sì, vengo direttamente da Lord Zarkon in persona.” Haxus scoccò un’occhiata a Koh, che non si era mosso, anzi aveva spostato leggermente la gamba per sfiorare quella di Shiro. “Si tratta di un argomento importante, per cui ho necessità di parlarvene in privato.”
    “Parla, allora.”
    “Vorrei chiedervi se possiamo rimanere da soli.”
    “È la presenza di Keith che ti turba?” Dopo quella domanda, Shiro si voltò e prese il volto di Keith con le sue due dita, lo avvicinò a sé e lo baciò con trasporto. Koh lo lasciò fare, in maniera quasi meccanica, ma dopo si spostò per sedersi sulle ginocchia di Shiro, come se nulla fosse. Shiro gli accarezzò i capelli mentre continuava a parlare, “parlare con Keith presente o assente è la stessa cosa. Lui è parte di me.”
    Ad Haxus non piaceva l’idea di dover dividere il suo tempo con quella puttana, ma non aveva altra scelta che abbassarsi agli ordini di Shiro. Annuì.
    “Lord Zarkon è venuto a sapere che sulla Quarta Avenue i negozianti hanno smesso di pagare il pizzo,” disse allora. “Abbiamo mandato una squadriglia, come i gentiluomini fanno di questi tempi, e nessuno di loro è tornato. Ad un’indagine più approfondita, i negozianti hanno dichiarato di non avere più necessità della protezione di Lord Zarkon, perché adesso voi siete il loro protettore, Mister Shirogane.”
    Shiro aveva mollemente baciato Keith sulla spalla, e sembrava non aver ascoltato alcuna parola pronunciata da Haxus. Poi però disse, “hai finito?”
    “No, signore,” rispose Haxus. “Ma vorrei sapere da voi se quello che i negozianti dicono è vero o è solo un’illazione.”
    “È tutto vero,” rispose Shiro. “Sulla Quarta Avenue c’erano un paio di negozi che mi interessavano, un buon ristorante, anche. La volevo e me la sono presa.”
    Haxus non si aspettava un’ammissione di colpa così diretta da parte di Shiro, di norma quando si combattevano guerre tra bande rivali era tutto molto più sporco. Quello che Haxus si aspettava, e che si aspettava anche Zarkon quando l’aveva mandato a parlare con Shiro, era un tergiversare, un negare, fino a raggiungere un accordo per cui Shiro si sarebbe ritirato dalla Quarta Avenue (senza mai ammettere di essersi allargato fin lì) e avrebbe ottenuto un’area minore, a cui Zarkon non mirava.
    Ora Haxus aveva difficoltà su come reagire.
    “Voi capite bene che questa situazione mi mette in una situazione di disagio,” provò a dire. “Storicamente la nostra città è sempre stata di proprietà dei Galra. Sono capitate in passato bande rivali, a cui magnanimamente abbiamo concesso degli spazi in cambio di lavori e favori, ma non abbiamo mai ammesso che qualcuno rubasse i nostri territori.”
    Doveva mettere ben in chiaro che, se Shiro poteva ancora imperversare in città e nessuno l’aveva ancora ammazzato e fatto a pezzi, era perché Zarkon non lo riteneva degno di sprecarci del tempo, e non perché avesse una qualche autorità su di loro.
    “Evidentemente non è vero, se è una cosa che ho appena fatto,” mormorò Shiro, suadente, mentre baciava il collo di Koh e lui si piegava, gemendo leggermente al tocco. Era una scena disgustosa.
    “Questa cosa avrà delle conseguenze.”
    “Come la squadriglia che avete mandato, e che abbiamo fatto a pezzi?” rispose Shiro. “Volete che vi dica dove abbiamo nascosto i corpi? Sempre che sia rimasto ancora qualcosa, a questo punto.”
    “Lord Zarkno mi aveva mandato qui con le migliori intenzioni,” tentò ancora Haxus. “Voleva una tregua, perché vi stima, e credeva che potesse essere positivo se voi lavoraste assieme ai Galra. Non so se sarà ancora d’accordo dopo questa ammissione, ma forse ne potremo discutere.”
    “Se era interessato, poteva venire lui in persona invece di mandare uno dei suoi leccapiedi,” commentò Shiro, come se stesse più parlando a Koh che a Haxus.
    E infatti Koh rispose, “e nemmeno uno di quelli importanti, tra i leccapiedi. Il leccapiedi di un leccapiedi.”
    Ad Haxus non fece piacere l’idea di essere insultato da una puttana. “Zitta, puttana. Tu non sai chi sono io.”
    Koh gli scoccò un’occhiata, un misto di indifferenza e disprezzo, come se valutasse così poco la vita di Haxus da non essere nemmeno toccato da un suo insulto. Ma furono gli occhi di Shiro a lampeggiare per l’insulto, quasi spaventosi in quella semi oscurità. Scostò Koh dalle sue ginocchia e si alzò.
    “Ascoltami bene. Io non devo niente a Zarkon, casomai è lui che mi deve un braccio e un anno di vita. Questa città mi piace, e ho intenzione di prendermela, che a Zarkon piaccia oppure no. Ora, tu hai due scelte: andare da Zarkon a dirgli che la soluzione migliore è scatenare una guerra, nel qual caso creperete tutti tra atroci sofferenze, oppure accettare che avete fatto il vostro tempo e ritirarvi finché siete ancora in tempo. Avete abbastanza soldi da andarvene con dignità.”
    Per alcuni, infiniti minuti, Haxus rimase paralizzato dalla paura. Shiro torreggiava sopra di lui, ed era alto e grosso, e spaventoso nella semi oscurità, con quella cicatrice che gli attraversava il viso e che dimostrava che era sopravvissuto all’inferno ed era ritornato.
    Poi, dato che non aveva fatto cenno ad attaccarlo in qualche modo, annuì in maniera forse fin troppo servile. “Riferirò a Lord Zarkon quello che avete detto, e tornerò con la sua risposta.”
    “Non è necessario che torni,” disse Shiro. “Voglio che ve ne andiate entro la settimana, non c’è bisogno che veniate a dirmelo, io lo saprò. Ora vai, prima che cambi idea e decida di farti a pezzi qui e subito.”
    “Sì, signore.”
    Camminò all’indietro, senza mai dare la schiena a quell’uomo spaventoso, che invece era tornato a prendersi Koh in braccio e se l’era appoggiato sulle gambe. Prima di poter lasciare il magazzino abbandonato, poté osservare con dovizia di particolari, più di quanti ne volesse, come Koh allargava le gambe di fronte a Shiro, e muoveva il culo ben evidenziato dai pantaloni in latex sulle sue ginocchia.
    Come un uomo così spaventoso come Shirogane avesse preso quella puttana con sé, era un mistero. Ma forse era un punto debole che potevano utilizzare nella guerra che sicuramente sarebbe scoppiata, perché non c’erano dubbi nella mente di Haxus che Zarkon non avrebbe mai e poi mai accettato l’ultimatum che Shiro gli aveva dato.
    Ci sarebbe stata una guerra.
    Haxus doveva immediatamente tornare alla base e avvertire, se non Lord Zarkon, almeno Sendak, in modo che potessero procedere immediatamente. La guardia all’ingresso del magazzino lo fece uscire, e gli restituì la pistola come se non lo vedesse come una minaccia. Haxus fu tentato di fare il primo passo di quella guerra e sparargli, ma alla fine non lo fece.
    Sempre con la pistola in pugno per sicurezza, salì nella sua macchina, partì per tornare verso casa.
    All’interno del magazzino, Koh smise di baciare Shiro nel momento in cui sentirono l’auto sgommare via. Lo guardò, con dolcezza, sorridendo.
    “Vuoi davvero che Haxus vada a dire a Zarkon che gli hai dichiarato guerra?”
    “Forse sono stato un po’ precipitoso,” ammise Shiro. “Ma non mi piace la gente che ti insulta.”
    “Mi pare che ci sono abituato, tu non ti devi preoccupare per me,” rispose Keith. “Ma grazie.”
    Si baciarono di nuovo, Shiro tenne saldamente la sua mano sul collo di Keith. Poi gli disse, “va’, prima che Haxus dica qualcosa a qualcuno. E non voglio il suo cadavere da nessuna parte.”
    “Ma così penseranno che l’hai ammazzato tu.” Keith scese dalle sue ginocchia.
    “Lo penseranno comunque.”
    “Non se lascio il cadavere da qualche altra parte.”
    Shiro sorrise. “Mi fido di te,” disse.
    Keith prese il suo giubbotto di pelle, il suo casco, lasciò il magazzino. Prese la sua moto, nera come la notte, e partì per il centro della città, seguendo la scia dell’auto di Haxus, su cui avevano impiantato una microspia.

    Due anni dopo l’arrivo di Keith in orfanotrofio, le responsabili trovarono una famiglia che poteva tenerlo in stallo, per poi eventualmente procedere con un’adozione successiva. Anche se Keith non aveva mai mostrato socialità né voglia di fare amicizia, era un bambino di otto anni, perfettamente sano e, nell’opinione delle responsabili (ma Shiro era d’accordo), anche esteticamente gradevole.
    Così aveva avuto la sua richiesta di affido, mentre Shiro, che era in orfanotrofio da più anni ed era più grande di Keith, ancora aspettava. Nessuno voleva prendersi la responsabilità di un bambino con una malattia genetica, che, per quanto Shiro non mostrasse al momento alcun sintomo, l’avrebbe probabilmente ucciso prematuramente o almeno costretto a cure costose che nessuno voleva prendersi carico.
    Shiro, lo sapeva bene anche se le volontarie cercavano di non farsi sentire quanto parlavano di lui, sapeva che il suo destino sarebbe stato finire in strada a diciott’anni, appena l’orfanotrofio non avrebbe avuto più obblighi dei suoi confronti, e non sarebbe mai stato curato.
    Keith prese ovviamente molto male la storia dell’adozione. Non gli interessava lasciare l’orfanotrofio in sé, ma non poteva tollerare di essere separato da Shiro. Pianse, strepitò, prese persino a calci e morsi la psicologa che tentò di portarlo a forza fuori della stanza per andare con i suoi nuovi genitori.
    Inizialmente, Shiro fu dalla sua parte, tentò di proteggerlo tenendolo abbracciato e cercando di scacciare via chiunque si avvicinasse a lui per prenderlo. Alla fine riuscirono a separarli e Shiro fu trascinato a forza da un’altra parte, da cui poteva sentire chiaramente le urla di Keith: non stava piangendo, quello no, ma sembrava che lo stessero ammazzando, e Shiro digrignò i denti come un cane rabbioso.
    “Ascoltami bene, Takashi,” disse la responsabile, “tu sei più grande e queste cose le dovresti capire. Non è bello crescere in un orfanotrofio. Keith adesso ha la possibilità di avere una famiglia che si prenda cura di lui, una cosa, un padre e una madre. Potrà tornare a scuola, forse andare al college, diventare qualcuno. tu non vuoi negargli questo diritto, vero? Se gli vuoi bene, devi lasciarlo andare.”
    Shiro visse l’intera questione come un tradimento alla fiducia di Keith. Ma, dopo averci riflettuto, capì che la responsabile non diceva poi cose sbagliate. Forse per Keith poteva davvero essere il punto di svolta per non rischiare di diventare come Shiro.
    Inoltre, per il poco che Keith gli aveva detto, i genitori adottivi sembravano delle brave persone, anche di un ceto sociale non basso, il che avrebbe permesso a Keith di accedere a cose che a loro erano sempre state negate: scuola, videogiochi, sport, vestiti nuovi.
    Glielo disse, e Keith lo guardò con orrore. “Lo sapevo che mi avresti abbandonato anche tu, alla fine!”
    “No, no, no!” Shiro lo prese e lo strinse a sé. “Io non ti voglio abbandonare, noi due saremo amici per sempre, io continuerò a scriverti, a chiamarti, e ti verrò a cercare quando usciremo da qui, starò sempre con te, io non ti abbandonerò mai, questo devi saperlo, sempre.”
    Ci vollero due giorni prima che Keith si calmasse e finalmente andasse con i suoi genitori. Con loro fu chiaro fin dal principio, “io voglio bene solo a Shiro. Vi odio che mi separate da lui.”
    La responsabile venne in loro soccorso. “Shiro è un altro dei bambini di qui. Lui e Keith sono molto affezionati, Keith lo vede come un fratello maggiore. Non vi sto chiedendo di adottarli entrambi, ma credo che sia positivo per la psiche di Keith se voi gli permetteste di continuare a comunicare con Shiro.”
    Non disse quello che temeva, ma di cui aveva parlato con le sue colleghe, che Keith avrebbe potuto scappare di casa per tornare da Shiro, altrimenti. Ma i genitori adottivi di Keith sembrarono accettare la spiegazione senza troppi problemi, e per i primi tempi Keith chiamava Shiro in orfanotrofio tutte le sere.
    Poi le chiamate divennero più sporadiche, ma perché Keith aveva iniziato la scuola e prendeva pure lezioni di pianoforte e di disegno. Aveva una vita molto impegnata, ma si trovava bene, faceva cose che non aveva mai fatto ed era felice di poterle raccontare a Shiro ogni volta che poteva.
    “Ma io a loro non voglio bene,” gli disse un giorno. “Li ringrazio per quello che fanno, e loro sembrano contenti, ma io voglio bene solo a te.”
    Poi, un giorno, all’incirca un anno dopo, le chiamate smisero improvvisamente. Shiro non aveva il numero di telefono, a cui comunque non rispondeva più nessuno. Poiché la responsabile si rifiutava di verificare (forse era successo qualcosa a Keith, loro dovevano controllare) Shiro rubò i dati da solo. Al numero di telefono non rispondeva più nessuno.
    Era sicuro che la responsabile tacesse qualcosa di fondamentale.
    Una sera le sentì parlare, e capì che cosa era successo: loro pensavano che Keith stesse meglio senza Shiro, che non aveva un futuro. Ora che si era stabilizzato a casa dei suoi genitori, era inutile continuare la farsa con Shiro, era meglio che tagliassero i ponti.
    Non avevano capito nulla di Keith, né di Shiro. Con in tasca l’indirizzo della famiglia di Keith, Shiro scappò dall’orfanotrofio.

    Haxus aveva parcheggiato nella strada sotto il palazzo. Si era guardato intorno, ma non aveva visto nessuno. Allora era sceso, aveva tirato fuori le chiavi e aveva armeggiato con il grande portone di legno dell’appartamento di Sendak.
    La aprì quel tanto che bastava per sgusciare all’interno, e fece per richiuderla. Quel movimento veloce non bastò: improvvisamente qualcuno arrivò dietro di lui e lo spinse contro il muro, mentre la porta si chiudeva, nascondendoli a chi passava all’esterno. Haxus ebbe appena il tempo di capire che si trattava della puttana di Shirogane, prima che un coltello affilato gli trapassasse la gola, uccidendolo all’istante.
    Keith attese qualche minuto, per assicurarsi che Haxus fosse davvero morto e che nessuno l’avesse sentito. Gli frugò in tasca per recuperare la chiave dell’auto. Poi se lo caricò sulle spalle, uscì dal portone in fretta e lo gettò nel bagagliaio. Scaricò il corpo nel fiume fuori città, poi tornò indietro e portò l’auto nel quartiere dove stava la casa di Lotor, il figlio di Zarkon, che era in guerra abbastanza aperta con suo padre.
    Non era certo che Zarkon ci avrebbe creduto, ma si diceva che ogni ragione fosse buona per prendersela con il figlio. Ora l’unica cosa di cui aveva bisogno era un alibi.

    C’era un locale aperto ventiquattro ore su ventiquattro, vicino alla city. Era un panificio pasticceria molto frequentato dai giovani soprattutto il sabato sera, ma quando arrivavano le prime ore del mattino, era frequentato saltuariamente da alcuni operai che andavano al lavoro eccezionalmente presto. Il padrone, Hunk, che era quasi sempre in turno, era un vecchio conoscente di Keith e ormai pagava il pizzo a lui e a Shiro per essere difeso dagli attacchi di Zarkon.
    “Pagare mi tocca pagare comunque,” aveva detto una volta a Keith, una delle rare volte in cui Keith si era sentito improvvisamente in colpa per quello che facevano, “almeno voi siete più simpatici, e salutate quando entrate in negozio.”
    Quanto fosse difficile per quelli come Hunk in una città governata da bande criminali, Keith non poteva immaginarlo, ma anche lui aveva avuto la sua bella dose di guai, essendo praticamente un latitante minorenne in fuga, con solo Shiro a proteggerlo che praticamente era considerato il suo rapitore quando in realtà gli aveva salvato la vita.
    “Ciao, Hunk,” disse, entrando nel negozio. La sala era illuminata, ma i tavolini, alcuni dei quali ancora sporchi o con bicchieri vuoti abbandonati, erano completamente vuoti, perfetta situazione per quello che Keith voleva fare.
    “Keith, buonasera. O buongiorno, vista l’ora…” Hunk lo accolse come al solito sorridendo. “Ho appena sfornato dei muffin, fra poco arriveranno dei clienti abituali. Ne vuoi uno?”
    “Sì, grazie, con una tazza di latte caldo,” rispose Keith, con un cenno con la testa. “Posso usare un secondo il bagno?”
    “Certamente.” Hunk gli accennò col capo dalla porta della toilette, anche se Keith sapeva perfettamente dove si trovasse.
    Si chiuse la porta dietro di sé e si tolse in guanti che aveva utilizzato per non lasciare impronte da nessuna parte. Aveva lasciato il coltello dentro il cadavere, ma nel trasporto qualche goccia di sangue poteva essere caduta addosso. Con quei vestiti, era impossibile dirlo. Gettò con orrore i guanti nel cestino della spazzatura e si sciacquò mani e viso.
    Quando tornò, Hunk gli aveva apparecchiato uno dei tavoli più appartati, con il piattino del muffin e il bicchiere di latte caldo. Keith si sedette a mangiare, cercando di prendersi dieci minuti di rilassamento per sé. Mentre mangiava, un gruppo di operai entrò chiacchierando ad alta voce, ma nessuno di loro fece caso a Keith se non con rapide occhiate.
    Una volta che Hunk li ebbe serviti, Keith si avvicinò al bancone e gli passò due banconote da cento dollari, avvolte in modo che non sembrassero così tante.
    “Se te lo chiedono, sono stato qui tutta la notte.”
    Hunk si accorse subito di quanti soldi erano, ma li intascò comunque con velocità, senza nemmeno vattere ciglio, e gli consegnò uno scontrino da due dollari.
    “Non sei nei guai, vero?” gli sussurrò appena.
    “Non più del solito. Ciao, Hunk, grazie.”

    La casa di Keith era in un quartiere di quelli residenziali della città, con le case tutte monofamiliare e con il giardino davanti. Shiro si chiese se Keith avesse ottenuto finalmente il cane che desiderava da sempre. Trovò la casa quasi subito, di un bel colore rosa, con le siepi alte che nascondevano l’interno. Suonò al cancello, ma non rispose nessuno.
    Allora scavalcò il cancello. Il giardino era vuoto e silenzioso, niente cani, né giocattoli. Shiro fece il giro finché non trovò che la finestra della cucina era semiaperta. La forzò ed entrò: poteva essere che Keith e i suoi genitori fossero fuori di casa, ma lo avrebbe aspettato dentro. Sicuramente a quest’ora i responsabili dell’orfanotrofio lo stavano cercando, e lui aveva bisogno di un posto dove nascondersi.
    Keith gliel’avrebbe fornito.
    Girò il piano terra della casa, non c’era anima viva, non c’era nessuna traccia di Keith come si sarebbe aspettato. Poi salì al piano superiore, c’erano tre camere da letto e due bagni. In una delle camere, arredata, piena di libri e giocattoli, c’era Keith.
    I suoi occhi si allargarono quando lo vide. “Shiro? Che cosa ci fai qui?”
    “Non mi hai più chiamato,” disse Shiro. “Così sono venuto a cercarti.”
    Keith deglutì e aveva gli occhi inumiditi. Lo abbracciò forte. Shiro ricambiò e si accorse che gli era mancato, probabilmente più di quanto lui fosse mancato a Keith.
    “Scusa, scusami,” mormorò Keith. “Io… non sapevo cosa dirti… ma tu non mi hai abbandonato… sono così felice…” Poi il suo sguardo si fece duro. “Ma non puoi restare qui. Lui-”
    Si interruppe quando sentì la porta aprirsi al di sotto. “Nasconditi nell’armadio, presto. Parleremo dopo.”
    Shiro obbedì. Rimase nascosto dentro per ore, mentre sentiva vagamente Keith che parlava con i suoi genitori, che andavano a cena, che guardavano la televisione. La madre fu la prima ad andare a dormire, poi Keith raggiunse la sua camera.
    “Ti ho portato qualcosa,” disse, passandogli un pezzo di pane che aveva rubato a cena. “Ma non puoi restare.”
    “È tardi,” disse Shiro. “Non ti darò fastidio. Posso restare almeno per stanotte? Dormo per terra.”
    Alla fine Keith acconsentì, gli diede un cuscino e una coperta, e Shiro si infilò sotto il letto. Ma non si era ancora addormentato quando sentì qualcuno entrare nella stanza e chiudere la porta.
    “Per favore, non stasera…” mormorò Keith, con voce strozzata.
    “Ma io ho voglia adesso,” rispose l’uomo, forse il padre. “E tu sei un bravo bambino, e non vuoi deludere i tuoi genitori, vero? Vieni qui…”
    Shiro ci mise un attimo a capire, ma percepì in maniera molto nitida il soffocato singhiozzò di Keith, e il fatto che l’uomo fosse seduto sul letto accanto a lui. Uscì dal suo nascondiglio e, sebbene nell’ombra della stanza, vide benissimo che l’uomo aveva abbassato i pantaloni a Keith e lo stava toccando come facevano i grandi nei film porno che i ragazzi grandi si spacciavano segretamente in orfanotrofio.
    Keith pareva disperato. Shiro non guardò nemmeno l’uomo in faccia, gli si avventò contro con tutta la forza che aveva, lo colpì con pugni e calci. Ma l’uomo era più forte e alla fine lo gettò a terra, e gli bloccò la gola con le mani. Shiro poteva sentire le lamentele di Keith mentre l’uomo premeva più a fondo, gli portava via il fiato… ma poi l’uomo si bloccò, emise un rantolo sordo e poi cadde a peso morto su Shiro, liberandolo dalla sua presa.
    Shiro se lo tolse da dosso e solo allora vide il coltello premuto nel collo dell’uomo,da cui usciva un filo di sangue. Era il coltello di Keith, l’unico ricordo di sua madre, che era riuscito a tenere nascosto fino a quel momento.
    “Ti stava facendo del male,” disse Keith. “Non l’avrei permesso. Mai.”
    “Grazie per avermi salvato.”
    Keith si tirò solo su i pantaloni, chiaramente imbarazzato. Shiro capì che non poteva fidarsi di nessuno ma di se stesso per proteggere Keith. Lo prese per mano.
    “Vieni.”
    E si lasciarono quella casa alle spalle senza alcun rimpianto.

    Tornò a casa: lui e Shiro abitavano in un appartamento direttamente nella city, ormai, un complesso ipertecnologico ben distante dalle storicità di cui si vantava Zarkon. Salutò appena il portiere, che era abituato ai suoi strani orari e ai suoi strani vestiti, e salì in appartamento.
    Shiro era già a letto, si era tolto il braccio di metallo che ora giaceva abbandonato a terra. Keith lo osservò per un attimo, semicoperto dal lenzuolo leggero; capiva dal ritmo del suo respiro che non stava dormendo profondamente, ma sonnecchiando, come faceva spesso quando Keith era in giro per qualche commissione e voleva provare ad aspettarlo ma il suo fisico non glielo permetteva.
    Si tolse giacca, top e pantaloni, cacciò gli stivali con un calcio, e poi si infilò sotto le coperte, stringendosi al corpo caldo di Shiro e accarezzandogli con dolcezza i capelli.
    “Keith…?” mormorò Shiro, con la voce impastata da sonno, mentre sbatteva leggermente le palpebre per svegliarsi.
    “Shh,” sussurrò Keith, poggiandogli un leggero bacio sulla fronte. “Va tutto bene, sono qua, Haxus è sistemato. Puoi stare tranquillo.”
    Ora Shiro era completamente sveglio, e cinse il fianco di Keith con l’unico braccio a disposizione per tenerlo più vicino e lo baciò a lungo. “Scusami se ti ho messo di nuovo nei guai.”
    “Ho ucciso tante volte per te, Shiro,” disse Keith, “e lo farò ancora, ogni volta che sarà necessario. Lo sai, non è necessario che tu mi chieda scusa.”
    “Vero, ma potevo evitare di avere quella sfuriata con uno come Haxus.”
    “L’hai fatto per difendermi.” Keith si strinse accocolandosi al suo fianco, mettendo il viso nell’incavo del suo collo. “Come sempre.” Poi però gli chiese, serio. “Hai davvero intenzione di prenderti questa città e di far guerra a Zarkon?”
    Shiro esitò per un attimo. “Sì, vorrei farlo. Ho cercato una stabilità tutta la vita, ma non l’avremo mai finché ci sarà qualcuno a metterci i bastoni fra le ruote. Meritavi meglio di così, Keith… e io farò di tutto per darti quello che ti meriti.”
    “Lo sai che l’unica cosa che voglio da te sei tu, vero?”
    “Tu mi hai già.”
    “E che non me ne frega di uccidere se è per te.”
    “Lo so. Per questo voglio darti tutto quello che ti meriti. E che la gente smetta di chiamarti puttana.”
    “È meglio che lo credano, così mi sottovalutano.”
    “Mi fa incazzare lo stesso.” Poi baciò Keith di nuovo. “Domani convocheremo gli altri e inizieremo la strategia contro Zarkon. Poi dedicherò un giorno solamente a te, promesso.”
    Keith non disse nulla, chiuse gli occhi, si abbandonò contro il suo petto. Shiro aveva sempre fatto tutto per lui, era venuto a salvarlo dal padre abusivo e da quel momento si era preso sempre cura di lui, anche accettando lavori criminali che alla fine l’avevano portato a perdere il braccio.
    Non l’avrebbe mai ringraziato abbastanza, e per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa, senza alcun rimorso o ripensamento. Chiedeva solo di non essere abbandonato, di restare sempre al suo fianco, come gli aveva promesso quella prima volta quando si erano incontrati all’orfanotrofio.
    Era un sogno semplice di una vita semplice.
    Ma forse domani sarebbero stati assassinati assieme, chissà. L’unica cosa che Keith chiedeva in quei momenti, è di morire prima di Shiro. Un mondo senza di lui non l’avrebbe sopportato. E avrebbero dovuto ammazzare lui prima di arrivare a Shiro.
     
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