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[Voltron Legendary Defender] cat!AU

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    Era nato come un gatto di razza, un norvegese delle foreste dal bel manto fulvo e lungo, imponente nel fisico e regale nell’aspetto. Il suo allevamento era considerato uno dei migliori sulla piazza, famoso per produrre solo esemplari dal pedigree perfetto, e Shiro, fra tutti, era il migliore.
    Prima dello sfortunato accidente che lo vide coinvolto, aveva partecipato a innumerevoli concorsi e aveva vinto diversi premi sia per la sua bellezza sia per il suo portamento. E a Shiro andava bene così, pensava che l’essere gatto si riassumesse esclusivamente nel mostrarsi agli altri, essere regale, e ricevere gli incoraggiamenti e le carezze dei padroni quando faceva bene il suo dovere.
    Poi l’incidente capitò. Non era stata colpa di Shiro, al contrario, lui pensava come al solito che fosse il comportamento migliore da tenere per rendere fieri i suoi padroni. Ma era uscito quando non doveva, e si era ritrovato in posti sconosciuti, con difficoltà a tornare a casa, finché non era stato investito da un’automobile.
    Gli era andata bene, a differenza dei gatti che spesso morivano, ma quando era stato trovato e portato immediatamente dal veterinario, per la sua zampa anteriore destra era troppo tardi, ed il veterinario gliela amputò.
    Così Shiro, da gatto perfetto esempio della sua razza, si ritrovò tripoide e con una cicatrice sul naso peloso. Per Shiro, dopo il primo attimo di smarrimento, non divenne un problema insormontabile: con la consueta energia imparò presto a camminare con tre zampe soltanto, e riusciva comunque a saltare ad altezze considerevoli grazie all’uso delle zampe posteriori, aveva solo imparato a calibrare meglio l’atterraggio solo sulla zampa sinistra.
    Ma anche se continua a essere un gatto dal talento migliore di molti altri del suo allevamento, per le regole che i padroni stessi si erano dati, Shiro non andava più bene. Non si poteva presentare un gatto tripoide, o un gatto con una cicatrice ai concorsi di bellezza, non importa quanto il pelo di Shiro fosse sempre bellissimo, o quando avesse tutte le caratteristiche della sua razza. Non si poteva portare a nessun altro concorso, perché non esistevano le paraolimpiadi per i gatti.
    Così lo misero “disponibile per adozione”. Anzi, “adozione del cuore”, la chiamavano. Perché se alcuni gatti dallo stesso allevamento venivano fatti adottare alle famiglie dietro lauto compenso, solo perché a loro magari mancava qualche leggero accenno delle caratteristiche precise della razza, Shiro non valeva nemmeno la cifra. Doveva essere adottato da qualcuno che se ne prendesse carico, e nessuno avrebbe di certo pagato per averlo.
    Per qualche tempo Shiro si fece convinto che nessuno sarebbe venuto ad adottarlo. I titoli che aveva vinto, nella sua condizione attuale, non valevano nulla, e se persino i suoi padroni, che l’avevano sempre coccolato e ammirato, adesso erano pronti a darlo via, perché qualcun altro avrebbe dovuto essere interessato a lui?
    Invece, un giorno dopo circa un mese dall’annuncio della sua possibile adozione, si presentò lei.
    Allura Altea, si chiamava, e a sentire i discorsi dei suoi padroni, una bellissima donna. Shiro la incontrò solo una volta al suo allevamento, furono i padroni a introdurla nella stanza singola dove l’avevano momentaneamente rinchiuso.
    “Vieni qui,” disse lei, con una voce soffice, chinandosi a terra ma non avvicinandosi a Shiro, limitandosi ad allungare leggermente la mano.
    Shiro era abituato agli estranei che lo toccavano, e non aveva paura di loro (uno dei problemi che aveva generato la sua rovina, alla fine), ancora meno quando i suoi padroni erano presenti. Quindi si avvicinò zampettando leggermente, annusò la mano che Allura gli porgeva e poi diede un leggero colpetto al palmo con la testa. Allura passò ad accarezzargli la testa, poi la schiena fino alla punta, mentre Shiro si avvicinava di più a lei, sempre zampettando, e le si strusciava addosso. Finché Allura non lo prese in braccio in tutta la sua grandezza e gli grattò un poco la pancia pelosa.
    “Bel gattone,” disse Allura, e Shiro fece le fusa.
    Una settimana dopo, a seguito di controlli umani di cui Shiro non aveva mai compreso nulla, venne adottato ufficialmente da Allura e si trasferì nella sua villetta di campagna, una casa grande a due piani con una stanza totalmente dedicata a lui che aveva le finestre che davano sul giardino.
    Con Allura Shiro riscoprì la bellezza di essere un gatto di casa ma anche un gatto selvatico e indipendente. Quand’era in casa poteva stare a sonnecchiare tutto il giorno, godersi Allura che lo pettinava seduta sulle scale del giardino, al sole, sdraiarsi sul letto quando Allura guardava la televisione la sera e scroccare da mangiare quando lei preparava da mangiare.
    Poteva girare tutta la casa senza problemi, e aveva i suoi giocattoli e i suoi angoli speciali, e nessuno chiedeva a Shiro di imparare delle mosse, o stare seduto in una gabbia tutto il giorno mentre altri lo ammiravano di passaggio. Era libero.
    Ed era ancora più libero perché Allura non aveva problemi a lasciarlo uscire nel giardino, anzi aveva costruito per lui una piccola porticina che poteva usare a piacimento. Shiro andava e veniva quando voleva, ad esplorare liberamente il giardino lussureggiante e a trovarsi dei posticini al sole dove scaldare la sua pelliccia.
    Scoprì quindi le gioie di essere anche un gatto cacciatore, una capacità che nemmeno la mancanza di una zampa riuscì a togliergli, e divenne presto il terrore di tutti gli uccelli del quartiere. Allura non sembrava felice di questa sua ritrovata qualità, ma non scordava mai di dargli un piccolo buffetto sulla testa quando le lasciava in giro qualcuna delle sue prede.
    Man mano, la sua esplorazione si allungò dal giardino di Allura a quello del vicino, e man mano l’intero quartiere. Shiro scoprì presto la bellezza dei diversi odori, dalle persone alle piante agli altri animali, e anche tutte le cose strane che c’erano in giro e che non aveva mai avuto occasione di vedere.
    Per rispetto nei confronti di Allura, Shiro non usciva mai la notte e tendeva a tornare subito quando veniva chiamato, ma amava la libertà che conseguiva nel poter andare in giro liberamente.
    Così passò un paio d’anni di tranquillità. Allura viveva solo con un’altra persona, un eccentrico zio di nome Coran che aveva l’abitudine di parlare con Shiro di tutto quello che gli passava per la mente, proprio come se fosse un essere umano, e lo viziava oltre misura e gli permetteva sempre di dormigli sulle ginocchia.
    Col passare del tempo Allura adottò altri gatti, nessuno di loro nelle stesse condizioni di Shiro, ma Shiro ammise di essere felice di avere altri membri della sua specie attorno, e non gli dispiaceva dividere le attenzioni di Allura.
    Il primo ad arrivare fu Lance, un flessuoso Blu di Russia che si affezionò immediatamente ad Allura e che, a differenza di Shiro, non amava molto uscire di casa. Preferiva sonnecchiare ovunque Allura fosse seduta a studiare, oppure seguirla per tutta la casa. Se lei era fuori, si aggomitolava nella sua cesta e non voleva essere disturbato.
    Poi fu il turno di Hunk, un bel british longhair dal pelo rosso e il muso paffuto. Come Lance, era un tipo tranquillo, ma non aveva la stessa energia di Lance a seguire Allura ovunque, di norma preferiva starsene seduto sulla sedia della cucina, attendendo che qualcuno iniziasse a cucinare per condividere del cibo con lui. Tuttavia, era molto più atletico di quello che si pensava, e aveva scoperto come aprire il frigo in un paio di giorni. Shiro gli aveva intimato di smetterla, ma di tanto in tanto Allura continuava a domandarsi che problemi c’erano con la porta del frigo che rimaneva spesso aperta.
    L’ultima ad arrivare in ordine fu Pidge, un tabby munkin piccolo ma pieno di energia. Era l’unica che spesso e volentieri seguiva Shiro nei suoi viaggi al di fuori della casa, con grande preoccupazione di Shiro perché Pidge aveva una mente curiosa e attenta e finiva sempre per cacciarsi in qualche guaio. In casa, infastidiva spesso sia Lance sia Hunk perché giocassero con lei, e la maggior parte delle volte ci riusciva. Hunk era quello che si divertiva di più, Lance cercava di fare il superiore, spesso senza riuscirci.
    Tutti loro portavano rispetto a Shiro, in quanto gatto più anziano e anche più grosso della casa, e così la vita scorreva lentamente, con Allura che si divertiva a far loro degli scherzi, e a coccolarli, e loro che passavano il tempo a dormire e rilassarsi.

    Fu in una delle passeggiate casuali di Shiro che lo trovò.
    Aveva piovuto il giorno prima, ma al momento la giornata era soleggiata, quindi Shiro aveva lasciato la villetta alle spalle e, di giardino in giardino, aveva raggiunto il parco cittadino che si trovava alla fine della strada. Non era il posto preferito di Shiro perché spesso venivano i padroni con i loro cani, spesso attaccabrighe, ma era ancora mattino presto e in giro si vedevano solamente corridori sparsi che prestavano poca attenzione a Shiro, solo delle occhiate incuriosite, senza fermarsi.
    Avvertì subito che c’era un odore che non riconosceva. Era chiaramente di gatto, ma non solo. Camminando quatto quatto, cercò di seguirne la scia, fino a raggiungere una linea di siepi al limite del parco. Chinò la testa per guardare al di sotto e individuò, proprio di fronte a lui, una macchia completamente nera.
    Solo a un’occhiata successiva capì che si trattava effettivamente di un piccolo gatto nero, e solo dopo si assicurò che fosse ancora vivo dal modo leggero con cui il suo petto si alzava, respirando. Era chiaramente ferito, o comunque in difficoltà, perché non era il chiaro respiro di un gatto che dormiva.
    Shiro cercò di infilarsi, per quanto la sua stazza glielo permetteva, sotto la siepe per leccarlo, provare a svegliarlo e capire cosa non andava il lui, ma il gatto non si muoveva. Era caldo, più caldo della normale temperatura di un gatto.
    Galoppando, Shiro tornò a casa: Allura era alla sua scrivania, stava scrivendo al portatile. Le saltò in bracciò, miagolò, poi saltò di nuovo sul pavimento e si diresse verso la porta.
    “Che cosa c’è?” domandò Allura, che però non accennava ad alzarsi.
    Shiro miagolò ancora, tornò verso Allura, e poi di nuovo verso la porta, aspettandola.
    “Hai fame? Non è orario.”
    Alla fine Allura lo seguì, ma Shiro non andò in cucina, andò verso la porta, miagolò ancora, uscì dalla sua porticina, rientrò quando Allura non sembrò volerlo seguire. Dopo una lunga serie di avanti e indietro da parte di Shiro, Allura prese la giacca e lo seguì finalmente all’esterno. A quel punto Shiro iniziò a zampettare più velocemente verso il parco, con Allura che gli camminava dietro, sperando che non fosse troppo tardi.
    Il gatto nero era ancora lì, nella stessa posizione. Shiro miagolò alto per far capire ad Allura che doveva guardare sotto la siepe. Lei lo fece, ma protestando sottovoce che la stava facendo sporcare e che sperava fosse qualcosa di serio.
    Ma non appena vide il gatto nero, il suo tono cambiò totalmente, divenne più dolce, affettuoso. Anche se si rese subito conto che c’era qualcosa che non andava in quel gatto: si tolse la giacca, la usò a mo’ di guanto per estrarlo da sotto la siepe, cosa davvero non necessaria perché il gatto era chiaramente privo di sensi e si ritrovò a peso morto in braccio ad Allura, avvolto dalla sua giacca. Shiro seguì tutte le operazioni con grande interesse, fino a che non rientrarono a casa e Allura recuperò la sua auto.
    “No, Shiro, tu non puoi venire,” gli disse, impedendogli con una gamba di salire sull’auto con lei. “Non preoccuparti, lo porto dal dottore, vedrai che starà meglio.”
    Poi riuscì a chiudere Shiro fuori dalla portiera e, con grande rammarico, Shiro si rassegnò ad aspettare.
    Quando Allura tornò, il gatto non era con lei. Prese in braccio Shiro e lo coccolò, mormorandogli parole dolci all’orecchio.
    “Sai stato molto bravo, vedrai che quel gattino si riprenderà, adesso dobbiamo solo aspettare.”
    Ma Shiro rimase nervoso per tutto il tempo in cui il gatto nero rimase dal veterinario, fino al momento in cui Allura tornò una sera a casa, con lo stesso gatto nero avvolto completamente in una copertina azzurra a parte per la testa, che ora rivelava due vispi occhi azzurri e due orecchie che si movevano agitate a ogni minimo rumore.
    Non fu solo Shiro ad accoglierlo, perché Lance, Pidge e Hunk sentirono immediatamente un odore nuovo e si precipitarono a vedere che cosa stava succedendo. Furono accolti dal rognare del nuovo arrivato, un suono basso, gutturale, per nulla scherzoso. Di contro, Hunk rizzò il pelo e Lance si mise in posizione d’attacco.
    “Su, su,” Allura rise, “non spaventatemi il nuovo arrivato. Starà con noi per un po’, forse per sempre, quindi fate i bravi.”
    Poi li superò tutti e andò in quella che una volta era la stanza in solitaria di Shiro e che adesso condivideva con tutti gli altri. Chiuse la porta dietro di sé, impedendo a tutti i gatti di entrare. Da fuori, sentirono qualche breve parola detta da Allura, un leggero muoversi di zampe, poi lei fu di nuovo all’esterno della stanza, la copertina in mano ma il gatto nero non era più con lei.
    “Mi spiace, ragazzi,” disse sorridendo a tutti i gatti che ancora la aspettavano fuori, “per il momento la stanza è solo sua, finché non sarà guarito del tutto e non si sarà ambientato. Dai, venite a mangiare.”
    A quelle parole, Hunk si animò e immediatamente fece per seguirla in cucina, ma poi vide che gli altri rimanevano di fronte alla porta della loro stanza, chiusa, e passò lo sguardo tra loro e Allura, alla fine si rassegnò a rimanere con il gruppo.
    “Chi era quello?” domandò Lance. “Puzzava. Bleah.” E si leccò una parte del dorso come a liberarsene.
    “Non puzzava,” replicò Pidge. “Ma aveva un odore strano.” Sniffò da sotto la porta, come se riuscisse a percepirlo da lì. “Sapeva del veterinario, povero lui, e poi di erba e di qualcos’altro.”
    “È chiaramente un gatto preso dalla strada,” fece presente Hunk. “Voi uscite un sacco, possibile che non abbiate mai incontrato dei randagi?”
    “Ma certo che l’abbiamo fatto!” protestò Pidge. “Ma ognuno di loro aveva un odore diverso.”
    “L’ho trovato io, era molto malato, Allura l’ha portato dal veterinario per curarlo,” fece presente Shiro. “È evidente che l’odore strano che ha deriva da tutte le sue disavventure.”
    “Qualsiasi cosa sia, adesso siamo chiusi fuori da camera nostra per colpa sua,” protestò Lance.
    “Ma tanto tu dormi sempre nel letto di Allura, che te ne frega?” gli fece presente Pidge.
    “È il principio. Mi danno fastidio le porte chiuse. Io devo poter essere libero di andare dove voglio, anche se poi non ci vado. È nella mia natura.” Si sistemò un po’ meglio, la coda avvolta attorno alle zampe. “E poi chi è questo? Mi dà fastidio che ci sia uno nuovo.”
    “Anche Pidge e Hunk sono arrivati dopo di te,” disse Shiro.
    “Be’, loro puzzavano di meno. Ed erano più simpatici, non rognavano.”
    “In effetti ha fatto un po’ paura anche a me,” aggiunse Hunk. “Non sembrava particolarmente felice di essere qui. Chissà cosa potrebbe fare alla nostra cameretta…”
    “Non credo che farò proprio nulla,” disse Shiro infine, assumendo il ruolo di capo della combriccola. “È un gatto come noi, ha avuto un brutto incidente e adesso è in un posto che gli è estraneo, per di più convalescente. Tutti noi dobbiamo contribuire a rassicurarlo, fargli capire che è al sicuro. Mi sono spiegato?”
    Rivolse il suo commento principalmente a Lance, che rilasciò uno sbadiglio seccato. “Solo perché lo dici tu, ma quel tipo non mi piace.”
    Allura li chiamò dalla cucina. “È pronto, ragazzi!”
    Con un ultimo sguardo alla porta chiusa, dietro la quale non proveniva nessun rumore particolare, come se il gatto nero si fosse rifugiato da qualche parte e fosse scomparso, si rassegnò e seguì gli altri verso la cucina.
    ***
    L’ultima cosa che Keith ricordava era di essersi rifugiato sotto una siepe a riposare, dopo una serataccia di guerre con i cani randagi, mancanza totale di cibo e infine pioggia che cadeva da tutte le parti. Si era risvegliato in quel posto del demonio che era l’ambulatorio del veterinario, un posto che sapeva di dover evitare a tutti i costi, perché era l’anticamera del gattile e della morte.
    Lo sapevano tutti i randagi al mondo, e molti erano scomparsi dalla strade proprio per quella ragione. Keith si era lamentato, aveva tentato di scappare, di mordere e graffiare la mano del dottore che tentava di prenderlo, ma era debole, e poi quel dottore maledetto sembrava avere con sé degli strumenti che rendevano vani i suoi sforzi.
    Quando aveva acquistato di nuovo abbastanza energie, era arrivata lei. Non aveva idea di chi fosse, né del perché di prendesse tante confidenze con lui, ma sapeva che portava guai. E infatti non si era sbagliato, quando il veterinario lo prese, lo avvolse completamente nella stoffa e lo consegnò alla nuova arrivata, che prese e se lo portò via. A nulla servirono gli sforzi di Keith per liberarsi da quella prigione, né servì l’atteggiamento aggressivo che ebbe con la tipa, che si limitò a sorridere e a grattargli appena la testa, consapevole che Keith non potesse tirargli via la mano.
    Poi erano arrivati a casa sua, e lui aveva immediatamente percepito l’odore di altri gatti. In strada era pericoloso avere a che fare col territorio di altri, anche se per Keith spesso non era stato un problema, ma solo quando aveva tutte e quattro le zampe libere. Si era difeso come poteva, cercando di essere intimidatorio quanto poteva.
    La donna lo aveva poi portato in una stanza, lontano dagli altri gatti, e lo aveva finalmente liberato da quella prigione di stoffa. Non c’erano posti dove nascondersi in quella stanza, così Keith corse dalla parte opposta e si mise in posizione di attacco.
    “Va tutto bene,” la donna sorrise. “Sei al sicuro adesso. Devi guarire, riposarsi. Vedrai che starai bene qui.”
    Non era proprio compito suo decidere dove Keith avrebbe voluto stare, o dove sarebbe stato bene. Non si mosse di una virgola, seguì con lo sguardo la donna mentre usciva e poi attese che i suoi passi fossero molto lontani prima di rilassarsi e iniziare a controllare la stanza.
    Era piena dell’odore degli altri gatti, Keith ne contò quattro, da risultare quasi soffocante. Uno di quegli odori gli sembrò quasi familiare, ma non riusciva a capire da dove venisse, o dove l’avesse sentito di preciso. Per fortuna, erano tutti al di là della porta, poteva annusarli da sotto, ma non fecero alcuna mossa per entrare, anzi ad un certo punto se ne andarono.
    La stanza era completamente chiusa, anche se aveva grandi finestre che davano su un cortile che Keith non riconosceva. L’unico punto di uscita era la porta, ma poi non si sarebbe ritrovato libero ma di nuovo in casa. Era comunque un tentativo che doveva provare a fare, non conosceva la casa, magari c’era qualche uscita secondaria.
    Poiché la donna gli aveva lasciato acqua e cibo, Keith mangiò per avere le forze per prepararsi alla sua missione della serata. Si mise poi seduto a fianco della porta, per percepire tutti i rumori della stanza. Sapeva già che qualunque cosa avesse fatto, gli altri gatti l’avrebbero probabilmente notato, ma sperava di poterli tenere a bada quel tanto che bastava. L’importante erano gli umani – era sicuro di aver sentito un’ulteriore voce al di fuori della porta. Loro non dovevano sentirlo.
    Quando fu sicuro che nessuno dei due umani fosse ancora in giro per casa, e non sentiva rumori che indicavano che stavano facendo cose, allora si preparò. Si stiracchiò, si concentrò e saltò, afferrando la maniglia della porta con entrambe le zampe anteriori. Si tenne attaccato quanto bastava perché il suo peso facesse abbassare la maniglia e aprire appena la porta.
    Dopodiché balzò a terra con un balzo aggraziato e sgusciò fuori dalla porta socchiusa. Non aveva più sentito l’odore dei gatti vicino alla porta, ma non appena fu fuori della porta individuò immediatamente uno di loro, gli occhi brillanti al buio che seguivano i suoi movimenti.
    Di riflesso, Keith si mise in posizione di difesa, schiena acquata, cosa bassa. Il gatto non si mosse dalla sua posizione, era accomodato quasi regalmente sullo schienale del divano del soggiorno. Gli occhi spalancati brillanti ne davano quasi un’immagine spettrale nella stanza, ma Keith vedeva al buio come se fosse giorno, e il grande gatto dal pelo lungo appariva spaventoso più per la sua grandezza che per gli occhi spiritati.
    “Non ho intenzione di attaccarti,” disse infine, e aveva una voce bassa ma gentile. “Puoi stare tranquillo.” Ma poiché Keith non sembrava in alcun modo interessato a rilassarsi, sospirò e aggiunse, “dove stai andando? Dovresti riposarti.”
    Keith seguitò a non dire nulla, semplicemente rimase fermo in quella posizione finché fu sicuro che l’altro gatto stesse dicendo la verità, che non l’avrebbe attaccato. Solo allora, sempre curioso, iniziò a indagare per la stanza, camminando piano, annusando ogni singolo centimetro del pavimento che aveva davanti e spaventandosi a ogni cosa strana che incrociava.
    “Che cosa stai cercando?” chiese ancora il gatto grosso. “Dovresti avere il cibo nella stanza.” Non sembrava arrendersi al fatto che Keith lo stesse ignorando, e continuò, “sai, sono stato io a trovarti, sotto quella siepe. Respiravi a fatica, sembravi morto. Ho chiesto ad Allura, di aiutarmi.” Pausa. “Allura è l’umana proprietaria di questa casa. È una persona molto buona, ci tratta molto bene.”
    “Buon per voi,” replicò Keith alla fine.
    “Io sono Shiro.” E alla non risposta di Keith, ridacchiò. “Tu non ce l’hai un nome?”
    “Ce l’ho, ma non vedo perché te lo dovrei dire.”
    “Perché è brutto parlare con un gatto senza saperne il nome.”
    Pur di toglierselo di torno, rispose, “Keith.”
    “Bene, Keith, si può sapere che cosa stai facendo?”
    “Me ne vado.”
    “E perché te ne vai?”
    “Perché non voglio stare qui.”
    “E perché non vuoi stare qui?”
    “Sei irritante, lo sai?”
    “Me l’hanno detto.” E poi, “ma comunque non mi hai risposto.”
    “Io sono un gatto libero, non voglio essere assoggettato da nessuno. Non voglio avere una casa, non voglio avere un padrone. Non l’ho chiesto, non mi servono.”
    “Capisco.”
    Il gatto grosso, Shiro, parve rifletterci per un attimo, poi saltò giù dallo schienale del divano e zompettò verso Keith, che si accorse solo in quel momento che gli mancava una zampa anteriore, ma camminava come se così non fosse. Keith non percepiva alcuna pericolosità da lui, e in fin dei conti non sembrava nemmeno interessato a Keith stesso, infatti lo superò e proseguì nel suo cammino. Con curiosità crescente, Keith lo seguì e lo trovò seduto davanti alla porta d’ingresso della casa.
    “Se vuoi uscire, puoi farlo da qui,” gli disse, usando l’unica zampa anteriore per far dondolare la piccola porticina a altezza e dimensione gatto.
    “Oh, grazie.”
    “Allura non la chiude mai, sa che noi non usciamo di notte. Alcuni di noi non escono mai in generale. Questo perché stiamo bene qui, ci fidiamo di Allura e lei ci tratta bene. Tratta bene me,” precisò, come se lui fosse, a causa della sua condizione, un caso speciale.
    “Buon per voi,” ripeté Keith, e fece per uscire dalla porticina, ma Shiro vi si parò davanti in tutta la sua stazza. “Spostati,” Keith rognò piano.
    “Non voglio impedirti di uscire, o di rimanere qui se non vuoi,” mormorò Shiro piano. “Ma vorrei che riflettessi sulle possibilità. Non saresti intrappolato qui, avresti sempre la possibilità di uscire, di essere libero, ma allo stesso tempo avresti un tetto sulla testa, del cibo sempre pronto ad aspettarti, un posto comodo dove dormire e ripararti dal freddo e dalle intemperie. A me sembra un buon affare.”
    “Spostati,” disse ancora Keith, “o ti farò spostare io.”
    A quel punto, Shiro divenne arrogante. “Perché pensi di esserne in grado?”
    Keith si appiattì sul pavimento, coda bassa, orecchie basse, occhi intenti: era più piccolo, ma sicuramente più agile e rapido, e soprattutto aveva una zampa in più, vantaggio da non sottovalutare. Eppure, quando tentò di attaccarlo, praticamente non riuscì a spostarlo, anzi, si ritrovò atterrato in men che non si dica. Ci provò una, due, tre volte, ma il risultato non cambiò, anche se Shiro lo lasciò sempre andare abbastanza in fretta.
    “Ti arrendi?”
    Keith rilasciò un borbottio confuso.
    “Visto che ho vinto, rispondi alla mia domanda,” disse Shiro. “Perché non vuoi restare? Cosa c’è che non va qui? Anche solo per avere cibo, un riparo…”
    “Mi sono stancato,” ammise allora Keith. “Tanto è sempre la solita storia, la gente prende i gatti, poi li molla in mezzo alla strada alla prima occasione.”
    “Questo è quello che è successo a te?”
    “Questo è quello che succede a tutti,” rispose Keith.
    “Anche a me,” ammise allora Shiro, “ma non per questo penso che gli esseri umani siano tutti uguali. Ci sono sicuramente dei farabutti, ma Allura ha preso me quando nessuno voleva adottarmi, quando i miei vecchi padroni non pensavano valessi più niente.”
    “Però immagino che prima i tuoi vecchi padroni ti volessero bene, ti coccolassero.”
    “Non come Allura.”
    Keith fece uno sbuffo. “Senti, mia madre mi ha abbandonato quando ero ancora un cucciolino. Una volontaria si è presa cura di me, ma non poteva tenermi, allora sono finito come regalo a una bambina che dopo due mesi si è stancata di me. Per non abbandonarmi in mezzo alla strada, il vicino di casa si è offerto di prenderli, ma è morto dopo altri due mesi, non so bene perché, lavoro. A quel punto volevano portarmi al gattile, e sono scappato.”
    “Mi dispiace.”
    “Non è niente di che,” rispose Keith. “Non è una storia peggiore di altre. Ma il punto è che non posso più correre il rischio. Ho già sofferto tre volte, non intendo provare una quarta. Tanto la gente prima o poi ti abbandona, tanto vale imparare a vivere per conto proprio.”
    “Io non ti abbandonerò mai, lo prometto,” affermò Shiro, ma poi si scostò leggermente dalla porticina. Con uno sguardo un po’ perplesso, Keith camminò verso la porticina poi, per non rischiare che Shiro lo fermasse, vi si buttò dentro. Quasi ruzzolò giù per le scale, poi si ritrovò nel giardino della villetta: scavalcò il cancello e se la lasciò alle spalle.
    Girovagò un po’ nel quartiere finché non raggiunse un luogo più a lui familiare, che era il parco dove aveva il suo ultimo ricordo prima di risvegliarsi dal veterinario. Aveva la pancia piena e nessuna necessità di mettersi a cacciare, per cui decise di indagare se in quel luogo ci fosse un posto sicuro dove dormire, e lo trovò nell’incavo di un vecchio tronco, dove si accomodò per riposarsi quando stava albeggiando.
    Venne risvegliato all’odore di qualcosa di buono, carne, ma non la carne putrefatta dei cassonetti, questa sapeva di fresco e di speciale. Uscì cautamente dal suo nascondiglio e trovò Shiro di fronte a lui, che aveva in bocca qualcosa di non troppo piccolo che emanava quel buon odore.
    “Come mi hai trovato?” gli chiese Keith.
    “Ho seguito il tuo odore,” disse Shiro, dopo che ebbe poggiato a terra il pezzo che aveva in bocca. “Questo è per te.”
    “Sei venuto fin qui solo per portarmi questo?” domandò Keith.
    “Certo,” rispose Shiro, quasi stupito per la domanda. “Avevo detto che non ti avrei abbandonato, e non ho intenzione di farlo. Per ora, almeno, mi posso assicurare che tu non rimanga senza cibo.”
    “Non starò in questo parco in eterno,” gli fece presente Keith.
    “Ti seguirò lo stesso,” ribatté Shiro. “Solo non andare troppo lontano da far marcire il cibo.”
    L’odore era troppo buono, Keith si avvicinò cautamente, lo annusò, lo leccò, infine gli diede un piccolo morso; non aveva mai assaggiato qualcosa di così buono.
    “La tua padrona ti dà robe da mangiare così buone?”
    “No,” rispose Shiro, e per una volta sembrò imbarazzato. “Hunk sa come aprire il frigo e io ho pensato… che fosse più carino portarti quello.”
    “Grazie.” Fece Keith. Lo prese in bocca e se lo portò via, correndo senza nemmeno voltarsi. Shiro non lo seguì, ma in seguito in quella giornata lo vide spesso passeggiare nel parco, come se sapesse della presenza di Keith e lo sorvegliasse a distanza.

    Per diversi mesi le cose continuarono in quella maniera. Keith rimase nella zona, era una zona tranquilla, pochi cani randagi, la maggior parte dei gatti era domestico quindi non entrava nel suo territorio. Ogni giorno, di solito la mattina, Shiro gli portava qualcosa da mangiare.
    Non erano sempre le prelibatezza della prima volta, perché, come Shiro gli aveva spiegato, Allura se ne sarebbe accorta e allora non avrebbe potuto portargliele mai più. Ma era abbastanza per riempirsi la pancia, di modo che Keith non aveva davvero necessità di procacciarsi il cibo da solo. Continuava a cacciare per il gusto di farlo e di rimanere attivo, non perché ne avesse bisogno.
    Shiro veniva anche se pioveva, anzi, soprattutto se pioveva. Keith immaginava che la sua padrona non fosse felice di vederlo tornare a casa tutto bagnato, ma lui scuoteva la testa.
    “Ho fatto una promessa e ho intenzione di mantenerla.”

    Una sera Keith aveva particolarmente freddo. Era ormai arrivato l’inverno, ed era piovuto quando Keith era lontano dal suo nascondiglio, quindi si era inzuppato completamente e l’albero secco non forniva il calore necessario. Shiro sarebbe passato la mattina dopo, a quel punto l’avrebbe trovato morto.
    Così Keith prese una decisione: rifece la strada che si ricordava bene e raggiunse la villetta dove Shiro abitava. La porticina era aperta: entrò. Shiro notò la sua presenza immediatamente e lo raggiunse, con un’occhiata preoccupata alle sue condizioni. Non disse né chiese niente, si spostò e Keith lo seguì senza chiedere.
    Si accomodò su una cesta morbida, vicino a una fonte di calore. Con lentezza, Keith si raggomitolò al suo fianco, sentendo immediatamente il calore invadere il suo corpo intirizzito. Shiro, con delicatezza, gli accarezzò la pelliccia nera per tentare di asciugarlo.
    “Benvenuto a casa,” gli disse Shiro, senza interrompere il lavoro.
    Keith gli credé.
     
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