Una storia romana

[Voltron Legendary Defender] historicalAU, violenza

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    Capitolo 1

    Il Nilo aveva appena strabordato, lasciando i contadini a dedicarsi ad altre opere che non fossero la coltivazione, quando il padre di Keith decise che avrebbero lasciato Alessandria.
    Fu, come al solito, una decisione improvvisa, a cui Keith era abituato. Da quando era nato, non si ricordava di aver trascorso in uno stesso posto più di un paio d’anni. Suo padre era un fenicio, un punico della vecchia guardia, e gli raccontava spesso di come i suoi antenati avevano colonizzato il mediterraneo con i loro traffici. Per suo padre, viaggiare era una necessità intrinseca, ed era solo per amore del figlio che si sforzava almeno di restare oltre l’anno nella città dove si spostava di volta in volta.
    La strategia era sempre la stessa: arrivavano in un posto e si stabilivano in una bottega, anche mobile, in cui vendevano i prodotti che avevano portato con sé dalla città precedente. Dopodiché, con gli accordi che avevano stabilito, continuavano a commerciare i prodotti che andavano per la maggiore, contemporaneamente stabilendo nuovi accordi che sarebbero loro serviti alla prossima destinazione. Grazie a questo Keith era in grado di parlare fluentemente diverse lingue.
    Così, quando suo padre tornò in bottega la sera, e gli disse, “domani non serve che apri. Partiamo.” Keith non si scompose minimamente.
    La mattina dopo, meticolosamente, iniziò a visitare tutte le botteghe vicine per riuscire a vendere gli ultimi avanzi del loro magazzino, e impacchettò il poco che era rimasto. Suo padre tornò la sera, dopo essersi accordato con altri mercanti sulle merci da portare con loro: birra, melograni, profumi particolari.
    Partirono la mattina dopo, su una nave di un vecchio amico di suo padre, dopo aver caricato le loro ultime cose. Erano per la maggior parte merci, Keith non aveva con sé che una sacca con un paio di vestiti e alcuni oggetti personali.
    “Dove andiamo?” chiese infine a suo padre, una volta che la nave fu salpata e Alessandria iniziò a essere solo un puntino nero in lontananza.
    “Cartagine,” rispose suo padre, con un ampio sorriso.
    Per i fenici, Cartagine era considerata la capitale, anche se non esisteva un vero regno dei fenici. Ma Cartagine era la città più grande e più potente che vantasse un’origine fenicia, e aveva mantenuto la potenza commerciale oltre i greci, oltre Alessandro Magno, e continuava a prosperare nonostante le sconfitte recenti subite contro Roma. Ma suo padre aveva sempre evitato di recarvisi, fino a quel momento, preferendo restare generalmente verso est.
    “Vedi, c’è stata una breve crisi,” continuò suo padre, “le guerre d’Italia hanno portato molta morte all’interno della città. Hanno bisogno di nuova energia, nuovi mercanti, per riprendersi. Possiamo dare una mano, nel nostro piccolo, per loro. Ed è una bella città, più organizzata di Alessandria, io ci sono stati diverse volte da giovane e mi è sempre rimasta nel cuore.”
    “È lì che hai conosciuto la mamma?” domandò Keith. Era un po’ una domanda tabù fra di loro, il padre ne parlava sempre bene, come di una donna straordinaria, ma allo stesso tempo non amava quando Keith faceva domande più precise, come se volesse cancellare il suo ricordo.
    “No, no, non lì,” rispose suo padre. “Da tutt’altra parte l’ho incontrata. E non ero da lei per lavoro, ma per altre ragioni. Le devo molto, di quel periodo, ma è un tempo passato.”
    Keith capì che non avrebbe rivelato molto di più e quindi tacque. Nonostante il vagabondare dei sedici anni di Keith, non erano mai passati nel luogo dove i suoi genitori si erano incontrati. Keith sospettava che non volesse tornarci per alcun motivo, e Keith non gli chiese mai dove fosse quel luogo finché non fu troppo tardi.

    Cartagine si rivelò una città più educata e ordinata di Alessandria, così come suo padre gli aveva detto. Là dove Alessandria subiva il territorio del Nilo, il fango delle strade e il modo accecante in cui i templi erano costruiti, con quei colori che brillavano al sole, Cartagine sopportava meglio il clima caldo, con sistemi che derivavano in maniera ancora maggiore dai greci. Entrambe le città subivano nell’ordinamento delle strade la loro crescita rapida e incontrollata, ma Alessandria sguazzava in quell’ordine come se volesse negarsi allo spettatore, mentre Cartagine ti attirava al suo interno.
    Suo padre sembrava entusiasta della situazione: affittò immediatamente una piccola bottega con un appartamento al piano superiore di due stanze, e si diede da fare per aprire l’attività. Subiva sempre quella trasformazione ogni volta che giungevano in un posto nuovo. Per Keith, un posto valeva l’altro, non c’era mai stato un luogo a cui si sentisse di appartenere, e allo stesso tempo sapeva che affezionarsi a un luogo che avrebbe lasciato in poco tempo era inutile.
    Si gettò, come al solito, nel lavoro e nell’imparare gli usi e i costumi locali. Il commercio andava abbastanza bene, forse meno di quanto era ad Alessandria per via dell’aumento di pirati che attaccavano le navi, ma non così abbastanza da ridurli a una vita di povertà. No, quello per cui Keith era preoccupato non era certo la povertà, che aveva già affrontato in passato, ma la guerra.
    Se ne sentiva parlare in continuazione, per le strade, nei locali, nei negozi. Erano tutti certi che un ulteriore attacco a Roma sarebbe stato necessario per ristabilire la propria antonimia. Questo se Roma non avesse attaccato per prima, il che era altrettanto se non più probabile.
    Non gli era mai capitato di finire in una città preda della guerra, suo padre aveva abbastanza intuito per evitare quelle situazioni, ma forse in questo caso si era sbagliato, accecato dalla bellezza e dalla leggenda di Cartagine.
    Una sera tornò a casa dalle sue commissioni al porto. Aveva con sé una sacca con delle provviste durevoli, molte più di quelle che servivano a loro giornalmente.
    “Vai a prendere l’acqua,” ordinò a Keith, “prendine quanta te ne può bastare per almeno una settimana.”
    Non chiese, obbedì. Quando tornò, suo padre aveva sprangato la porta della bottega e le finestre del piano superiore. Poi aveva preso la sua sacca, quella dove aveva ancora la sua vecchia spada e il suo vecchio scudo, che non usava da anni.
    “Che cosa sta succedendo?” chiese allora Keith, che aveva già intuito la risposta.
    “Hanno iniziato il raduno per l’esercito,” disse suo padre, stancamente. “Credono che un attacco sia imminente, e hanno chiesto a tutta la cittadinanza di radunare gli uomini e i ragazzi oltre una certa età.”
    A quel punto Keith capì che cosa suo padre stava facendo.
    “Voglio venire con te.”
    “Assolutamente no,” rispose lui. “Tu rimarrai qui, non uscirai e non ti farai vedere da nessuno. Verrò a portarti altre provviste se la situazione emergenziale dovesse durare più del tempo previsto. Poi ce ne andremo appena possibile.”
    Non aspettò una risposta di Keith, lo abbracciò un’ultima volta, con forza, e poi uscì dalla porta senza voltarsi indietro.

    Per le successive due settimane, obbedì ai suoi ordini. La solitudine non gli pesava, era abituato a lavorare da solo, ma la mancanza sì. L’unica cosa che lo fece andare avanti in quel momento era che amava suo padre e non voleva deluderlo disobbedendo ai suoi ordini. Così rimase in casa, centellinò l’acqua per evitare di dover sgattaiolare fuori di notte a prenderla, mangiò il poco che aveva a disposizione.
    Poi, una mattina dopo le due settimane di solitudine, in cui suo padre non si era fatto vedere, suonò l’allarme. Si susseguirono numerose notizie non chiare, ma tutte riportavano lo sbarco dell’esercito romano e il fatto che i soldati si stessero muovendo per andare a fermali sulle sponde del mare, nella zona di Zama, guidati da Annibale.
    A quel punto, Keith decise che non poteva aspettare. Prese il suo sacco, si mise alla cinta il suo coltello, che aveva fin da bambino, e passò nella piazza principale. Le persone stavano continuando la loro vita come sempre, ma l’assenza di uomini, giovani e vecchi, era evidente. Keith usò i pochi soldi che gli erano rimasti per affittare un cavallo e la sua conoscenza della geografia gli permise di raggiungere Zama, un luogo dove un tempo sorgeva una città ma che ora era dedicato totalmente all’accampamento di Annibale.
    Capì subito di essere arrivato tardi, perché l’accampamento era vuoto tranne per qualche animale da soma, persino le donne o i contadini che aiutavano l’esercito erano scappati. Da lontano, poteva sentire i rumori della battaglia in corso. Non aveva con sé nulla, né sapeva alcunché delle strategie, ma si procurò almeno una spada e uno scudo, per quanto vecchi, dall’accampamento e poi seguì i rumori che sentiva.
    La battaglia imperversava, gli uomini non parevano altro che puntini neri o rossi in lontananza; gridavano, superavano a volte i garriti degli elefanti quando uno di loro cadeva, trafitto a morte dai soldati che gli si ammassavano attorno come formiche su una carcassa. Presi dal loro furore, nessuno notò Keith quando si unì alla lotta, d’altronde era un cavaliere solo, senza nemmeno l’armatura.
    Keith non sapeva bene che cosa stava facendo, sapeva solo che in quel mucchio doveva trovare suo padre e proteggerlo. Non aveva nulla, lui, né una casa né un posto dove stare, suo padre era ciò che gli rimaneva, per cui non poteva perderlo.
    Il suo cavallo venne abbattuto quasi subito, ma Keith fu rapido a riprendersi: non aveva mai partecipato a una guerra, ma si era sempre allenato, sapeva come si usava una spada e come si uccideva. I soldati romani – riconoscibili dal colore delle loro armature – lo puntavano, lo vedevano indifeso con solo la tunica di lino addosso, ma Keith era piccolo e agile, sapeva evitare i loro colpi e poi prenderli alla sprovvista, ferire le gambe in modo che cadessero a terra e lui potesse finirli. Intanto, si guardava intorno sperando di vedere il viso familiare di suo padre in mezzo a quelle facce sudate, sporche e insanguinate.
    Notò con la coda dell’occhio una spada che stava per calare su di lui, e si protesse con lo scudo. Lo sentì cedere sotto il peso del colpo, e se ne liberò giusto in tempo per non farsi tagliare il braccio, poi fece due passi indietro e alzò la spada per difendersi.
    L’uomo che gli stava davanti era imponente, alto come suo padre ma più massiccio, e portava una divisa romana scintillante al sole. I capelli bianchi brillavano nello stesso modo, rendendolo simile alle statue greche che Keith aveva visto nel suo peregrinare. Ma la cosa che colpì Keith maggiormente non fu la spada insanguinata, o il simbolo dell’autorità romana, ma il fatto che l’uomo combattesse, e fosse praticamente illeso, non avendo più il braccio destro.
    “Diffida dal romano senza un occhio, e ancora di più da quello senza un braccio,” aveva sentito dire dai cartaginesi, nel periodo in cui aveva vissuto libero nella loro città.
    Di istinto, digrignò i denti e strinse maggiormente la presa sulla sua spada, pronto all’attacco.
    Il romano lo guardò con curiosità. “Perché non hai l’armatura?” gli chiese, in latino, e Keith non seppe cosa rispondere, stupito dalla domanda casuale. “Non puoi capirmi, immagino…” aggiunse il romano, mal interpretando il tentennamento di Keith.
    Poi alzò la spada, e Keith dovette di nuovo proteggersi dai colpi feroci, ma si rese preso conto che il soldato non mirava a ucciderlo ma solo a disarmarlo. Non che questo rendesse meno difficile il combattimento, la spada pesava e proteggersi da quei colpi gli faceva dolere il braccio. Con un ultimo colpo, l’uomo riuscì a spezzargli la spada e Keith cadde all’indietro, nel fango. La punta della spada gli aveva sfiorato la guancia, aprendo un taglio profondo che ora sanguinava e lo pizzicava.
    Senza nemmeno alzarsi, Keith estrasse il pugnale dalla cinta.
    L’uomo alzò un sopracciglio, stupito dal vedere ancora resistenza. Ma era una resistenza fallace, perché mentre Keith tentava di alzarsi su, l’uomo, abbandonata la spada, lo afferrò per il braccio e gli torse il polso, praticamente immobilizzandolo.
    “Dove hai preso questo coltello?” e stavolta parlò in greco.
    “Lasciami,” protestò Keith.
    “L’hai rubato a qualche soldato? L’hai ucciso per prenderlo?”
    Keith gli tirò un calcio e il soldato fu costretto a lasciarlo andare. “Questo è mio, ce l’ho da quando sono bambino.”
    “Oh,” commentò solo il soldato.
    Del combattimento Keith non si ricordò altro, solo il duro del terreno su cui venne sbattuto prima di svenire, il fango che gli entrava nella bocca, quasi soffocandolo.
    Quando si svegliò, si ritrovò nel mucchio di quelli che alla battaglia erano sopravvissuti, ma avevano perso. Una corda gli stringeva i polsi assieme, un’altra il collo, ed entrambe erano collegate ad altre due persone al suo fianco, in una catena umana di prigionieri in cui era completamente bloccato. Il fango si era seccato quasi a comporre sulla sua pelle una seconda tunica rigida, puzzolente di terra e sangue, la ferita si stava rimarginando, bruciandogli la guancia.
    Aveva perso anche il suo coltello.
    Sperò che suo padre, almeno, facesse parte di quella catena.

    “Shiro,” Sendak accolse il collega soldato nella sua tenda. “Scipione non c’è, sta con Annibale a stabilire la tregua.”
    “Non sembri contento.” Shiro si lasciò sedere stancamente: era passata una notte dalla battaglia, ma non si era riposato molto, solo il tempo di cambiarsi di armatura e togliersi il fango e il sangue da addosso. Accettò ben volentieri il pane col garou e il vino che Sendak gli offrì.
    “Non lo sono,” disse infatti Sendak. “I cartaginesi sono una razza infida, non sono schietti e diretti come noi. Dagli un po’ di azione e torneranno più forti di prima. No, se fosse per me avrei già marciato su Cartagine e l’avrei rasa al suolo. Ma Scipione è soddisfatto e vuole chiuderla qui.”
    “L’avremo persa, questa battaglia,” fece notare Shiro. “Siamo stati fortunati.”
    “Siamo stati più forti.”
    “A un nemico valoroso bisogna concederne il merito.”
    Sendak ghignò nella sua direzione. “Sai che ti stimo come combattente, e non vorrei nessun altro sotto di me, ma un giorno questa tua bontà ti farà uccidere.”
    “Può darsi,” acconsentì Shiro, con casualità. “Ma abbiamo vinto, sono stanco e vorrei tornare a Roma. Se Scipione riesce a strappare una pace vantaggiosa, buon per lui.” Poi guardò Sendak negli occhi, “sai già cosa faremo di tutti i prigionieri catturati?”
    “Non credo che Scipione se li farà scappare, pace o non pace,” disse Sendak, dopo un sorso di vino. “Ma se mi stai chiedendo se verranno divisi all’esercito, o almeno ai comandanti, non so dirtelo. La guerra è costata molto, più probabilmente verranno venduti per rimpolpare le tasse dello stato.” Fece uno sbuffo. “Meglio così, forse, considerando la natura dei cartaginesi.”
    “C’è uno schiavo a cui sono interessato,” disse Shiro immediatamente. “Sempre che sia stato catturato e non sia morto dopo la battaglia di ieri. Lo voglio se gli schiavi saranno distribuiti, e lo voglio comprare se saranno venduti.”
    “Che cos’ha di speciale questo schiavo?” domandò Sendak.
    “Combatteva senza armatura, e non aveva nemmeno una ferita, nonostante fosse coperto del sangue dei suoi avversari,” disse Shiro. “Non ho mai visto nessuno combattere così.”
    “Probabilmente si era tolto l’armatura durante la battaglia,” fece presente Sendak, ma poi sospirò. “Tanto lo so che non riuscirò a farti cambiare idea, quando ti metti in testa qualcosa. Vai da Haxus, fatti portare dai prigionieri e vedi se lo trovi.” Poi rivelò un sorriso malizioso nel suo ghigno. “Spero che ne valga la pena anche in tempo di pace.”
    Shiro ignorò la battuta sui suoi gusti sessuali, prese l’ultima fetta di pane e lasciò la tenda per andare a recuperare Haxus, che era addetto al conteggio e all’inventario. Ovviamente gli schiavi non avevano un vero e proprio inventario, erano stati per lo più divisi all’incirca per età e per ferite, dato che non tutti sarebbero probabilmente sopravvissuti.
    “Magrolino, senza divisa, un taglio sulla guancia, capelli neri, occhi azzurri,” descrisse Shiro, ma Haxus scosse la testa.
    “Con una descrizione così, può essere chiunque. Fatti tu un giro per l’accampamento, e poi vieni qui a indicarmi la fila e il numero.”
    Non poteva essere chiunque, Shiro ne era sicuro. Quegli occhi azzurri, pieni di fuoco, gli erano rimasti impressi per tutta la notte. Così, fece come Haxus gli aveva suggerito. Si recò nel luogo dove avevano radunato i prigionieri, ordinatamente sistemati per file, legati gli uni agli altri. L’odore di sangue e piscio era quasi insostenibile, ma Shiro lo resse, mentre camminava davanti a ogni fila, osservando ogni volto con cura, mentre veniva ricambiato da occhiate a volte d’odio, a volte di paura.
    Finché non lo trovò: ed era, ovviamente, l’unico che sul viso aveva la maschera della rassegnazione, come quello che gli stava capitando non lo riguardasse affatto. Ma quando riconobbe Shiro, gli occhi gli si spalancarono prima in sorpresa e poi in diffidenza. Shiro lo guardò con attenzione, cercando di studiarne bene lo stato: a parte la ferita sulla guancia che lui stesso gli aveva inferto, sembrava stare bene. Tirò un sospiro di sollievo.
    “Sono contento che tu sia sopravvissuto,” gli disse, in greco.
    “Hai preso tu il mio coltello?” ribatté allora l’altro.
    Shiro si ricordava di quel coltello, era qualcosa che aveva già visto a Roma, in mano a dei romani. Era il simbolo che rappresentava la gens Marmora, una delle più vecchie di Roma, che si faceva risalire nientemeno che alla dea Venere.
    “No, dev’essere rimasto nel campo di battaglia.”
    La risposta su una smorfia seccata. Shiro capì che in quelle condizioni c’era poco da fare, non poteva mettersi a parlare con gli altri schiavi attorno, e difficilmente avrebbe avuto qualche informazione da quel ragazzo, nemmeno il nome. Così si alzò e fece per andarsene.
    “Aspetta,” il ragazzo lo chiamò, e Shiro si fermò. Sembrava imbarazzato, nel momento in cui gli chiese, “sai se è stato catturato un uomo alto, di circa quarant’anni, con una cicatrice sul sopracciglio destro?” E poi, alla domanda silenziosa di Shiro, aggiunse, “è mio padre.”
    “Non lo so, ma controllerò.”
    Una volta lasciata l’area dei prigionieri più giovani, fece un controllo rapido in quella dei più anziani, chiedendo di qualcuno che aveva un figlio come Keith, ma non ebbe fortuna. L’uomo non si trovava da nessuna parte.
    Tornò da Haxus, gli comunicò il numero di fila e posto dello schiavo a cui era interessato, e poi gli passò qualche sesterzio perché mandasse un dottore a controllare quella ferita alla guancia, non voleva che si infettasse e peggiorasse, perché non sapeva quanto tempo ancora sarebbe passato per la partenza per Roma, sempre che il trattato di pace andasse a buon fine.
    Dopodiché, visto che l’esercito non aveva bisogno di lui, tornò nel luogo della battaglia. Armi, scudi e parti di armatura giacevano lì abbandonati, in mezzo al fango e al sangue che puzzava al calore del sole, mentre i corpi di uomini ed animali era stato portato via e seppellito per evitare che la decomposizione generasse malattie anche sul resto dell’esercito.
    Si ricordava il posto dove la sua visione aveva combattuto, anche se a quella luce e dopo la battaglia tutto sembrava differente, e si mise a cercare fra la fanghiglia, finché non vide, scintillante alla luce del sole, il simbolo di Marmora che spiccava tra il fango. Raccolse il coltello e lo portò via con sé.
    Poi si ritirò nella sua tenda personale per riposarsi, e venne disturbato da Sendak la mattina dopo, sul presto.
    “Mi hai combinato un bel disastro,” gli disse, ma rideva soddisfatto, come se il disastro tutto sommato fosse stato più un aneddoto divertente che un effettivo problema. “Con quel tuo schiavo.”
    Immediatamente, Shiro si preoccupò. “Che cos’è successo?”
    “Gli altri prigionieri non hanno apprezzato la tua piccola visita,” gli fece presente Sendak, accomodandosi all’interno della tenda senza essere stato invitato a farlo. “Pensavano vi conosceste, visto quanto gli hai parlato con familiarità, e che fosse un traditore, la causa della sconfitta dell’esercito cartaginese. Hanno tentato di linciarlo, nonostante la situazione in cui erano.”
    “Sta bene?” Shiro impallidì: non aveva pensato a quella possibile conseguenza, non era stata sua intenzione.
    “Gli uomini sono intervenuti in tempo a sedare la rivolta, hanno ammazzato qualcuno giusto per far capire com’è la situazione, ma il tuo schiavetto l’ho fatto spostare per sicurezza,” gli comunico Sendak, sembrava soddisfatto di come aveva gestito il tutto. “Te lo farei già portare nella tenda, se potessi, ma purtroppo dipende tutto da Scipione.”
    “Va bene lo stesso,” disse Shiro. “Mi basta che arrivi vivo a Roma.”
    “Mi devi un favore, Shirogane.”
    “Come sempre.”

    E così, Cartagine aveva stipulato una pace.
    Una pace indegna, secondo il parere dei vicini di schiavitù di Keith, o una pace comprata, considerando che la guerra era stata persa. C’erano state molte discussioni a riguardo, che Keith aveva trovato bizzarre considerando la situazione in cui si trovavano, e considerando il fatto che i soldati romani che li sorvegliavano certo non venivano a comunicare loro tutte le informazioni precise.
    Keith si scoprì a non essere toccato da quelle notizie, vere o false che fossero, che giravano di bocca in bocca. Cartagine non era la sua patria, dopotutto, e ci aveva vissuto anche poco per esservi in qualche modo affezionato. La ricordava con una città che meritava di sopravvivere, e una parte di lui era felice che la pace fosse stata siglata, se significava il sopravvivere di quella città.
    D’altro canto, lui non ci sarebbe mai più tornato, quindi anche se l’avessero distrutta, se la sarebbe ricordata come quando l’aveva lasciata.
    Non che potesse dire i suoi pensieri in giro, i suoi compagni di prigionia avevano già tentato di ucciderlo una volta, quando l’avevano scambiato per una spia romana (come se le spie romane avessero quel, trattamento), il che gli aveva causato numerosi lividi e ferite attorno al collo, dove la corda era stata tirata maggiormente.
    Ma un dottore era passato a controllarlo, e adesso sentiva meno dolore anche alla ferita sulla guancia, solo l’indolenzimento per dover restare fermo e seduto così tanto a lungo.
    Il soldato romano, che tanti problemi gli aveva causato, non si era più fatto vedere. Keith non sapeva dire se avesse mentito sull’andare a cercare suo padre, o se non fosse tornato perché non l’aveva trovato e quindi non aveva niente da dirgli. Una parte di lui riguardava anche a Catagine come all’ultimo posto in cui aveva vissuto con suo padre, e quindi con un poco di dolcezza.
    Forse era sopravvissuto, non era stato catturato, ed era tornato a casa solo per trovarla vuota? Keith temeva quel pensiero, cercava di scacciarlo, ma era comunque meglio dell’idea che suo padre fosse definitivamente morto su quel campo di battaglia, e che il suo cadavere giacesse ormai nelle fosse comuni, senza un nome o una memoria.
    In quei momenti, invece, sentiva di odiare Cartagine con tutta la sua forza, per il modo in cui li aveva attirati e poi si era presa il loro sangue, e desiderava che fosse distrutta in modo da non tornarci mai più.
    Lì, bloccato al sole e legato ad altri sconosciuti, fu un periodo duro da sopportare, preda dei suoi stessi fantasmi. E nelle lacrime del pensiero che Cartagine fosse ormai alle spalle, accolse con gioia il momento in cui i prigionieri vennero presi e condotti alle navi, per essere portati a Roma.
    Keith non era mai stato a Roma ma, si disse, non poteva essere peggio di Cartagine.

    Il viaggio non fu com’era abituato a farlo, era finito stipato nella stiva, sempre legato ad altri, come se fosse una merce. Vedeva la gente vomitargli a fianco senza venire pulita – d’altronde, nessuno aveva pulito gli escrementi per giorni, da quando erano saliti a bordo – e si sentiva soffocare. Temeva di non sopravvivere, ma poi si aggrappava con i denti a quella speranza.
    Se Cartagine era sopravvissuta nonostante il disastro che l’aveva colta, l’avrebbe fatto anche lui.
    Poi arrivarono al porto, Ostia qualcuno lo chiamò, e Keith venne invaso dalla lingua latina, che tutti parlavano attorno a lui. Al contrario di molti dei suoi compagni di sventura, cartaginesi d’origine che ancora non avevano avuto il privilegio di viaggiare così lontano, Keith conosceva quella lingua, l’aveva imparata da bambino, ma ritrovarsi in mezzo fu disorientante.
    A Cartagine, in mezzo alla lingua greca e fenicia, si era adattato più facilmente. Stette però ben attento a non farsi notare a comprendere quello che gli uomini dicevano.
    I soldati e i mercanti della zona in iniziarono a suddividersi gli schiavi, vennero slegati, spogliati e caricati ciascuno su diversi carri. A Keith ne capitò uno mezzo vuoto, rispetto ad altri carri, con altri cinque prigionieri uomini, tutti più adulti e più muscolosi di lui. Capì subito che quello non era il carro delle vendite, ma quello di chi era già stato comprato, ed era destinato a qualcuno di specifico.
    Non ci voleva un genio per capire chi potesse essere stato ad acquistare Keith.
    Il carro non si fermò per qualche ora, prima di arrivare a Roma, e lì Keith notò in tutto la differenza che c’era con qualsiasi altra città che aveva incontrato, e soprattutto con Cartagine, l’ultima in cui aveva vissuto e che aveva in mente con maggior forza.
    Roma era rozza, mal costruita, sembrava una città di contadini che fingevano di essere dei gran signori, e pretendevano che la loro fattoria fosse costruita di marmo e arredata, ma nemmeno quello poteva nascondere il fatto che fosse sempre una fattoria. Era una città più viva di Cartagine, questo glielo riconosceva, ma anche più volgare.
    Ne apprezzò i giardini, ma i casermoni alti, uno attaccato all’altro e per la maggior parte in legno gli incutevano terrore, e non erano paragonabili a nessun posto dove aveva vissuto, anche se era stato in località dove le case erano affastellate le une alle altre.
    Il carro si fermò proprio di fronte a uno di quei casermoni, e l’uomo che affiancava il guidatore scese e andò ad informarsi alla porta. Keith era troppo distante per capire che cosa si stessero dicendo, ma poi l’uomo tornò verso il carro, lo afferrò in malo modo e lo tirò giù.
    C’era l’istinto di Keith che gli diceva di combattere, di fuggire, di provare a tornare a Cartagine a cercare suo padre, e poi c’era l’istinto che gli diceva che non aveva importanza, che ormai Cartagine e quello che poteva portare era perso e che non aveva una città che potesse chiamare casa.
    L’uomo lo consegnò a una donna dai capelli castani, che arricciò il naso quando lo vide arrivare, con la stessa tunica marrone e i resti del viaggio ancora addosso, benché di tanto in tanto i soldati gettassero loro addosso dei secchi d’acqua.
    Lei lo prese per un braccio e lo trascinò dentro. “Padron Shiro, è qui,” gridò, in latino, dall’altra parte della stanza.
    La porta si aprì e, senza sorprese, emerse il soldato che Keith aveva affrontato sul campo di battaglia. Appariva meno spaventoso, senza spada e armatura, ma solo con addosso la divisa bianca e rossa dei senatori romani. Al vedere Keith, fece un sorriso rilassato.
    “Posso lavarlo, Padron Shiro?” fece la donna. “Ho appena pulito casa e sta spargendo un cattivo odore.”
    “Non puoi, Veronica, devi,” le fece presente Shiro. “Procuragli anche dei vestiti nuovi, e dagli qualcosa da mangiare, sono sicuro che non gli hanno dato niente per gli ultimi giorni di viaggio.”
    Non aveva torto, Keith pensò. Un bagno e del cibo non gli avrebbero fatto schifo.
    “Poi fallo riposare, io devo uscire un attimo,” aggiunse. “Sei hai bisogno di me, sto andando dal Dottor Ulaz, quello che sta dietro la settima strada.”
    Veronica annuì, ma prima che potesse portare via Keith, Shiro si chinò alla sua altezza e sorrise ancora, un sorriso ampio.
    “Mi dispiace non essere più passato da te, ma ho saputo che la mia prima visita ti ha creato dei grattacapi e volevo evitartene di peggiori,” gli disse, in greco, e sembrava sincero.
    Keith si limitò ad alzare le spalle.
    “Purtroppo non ho trovato tuo padre, mi dispiace,” aggiunse Shiro. “Dobbiamo pensare che sia morto durante la battaglia. Hai altri parenti?”
    Keith scosse la testa.
    “Va bene,” Shiro annuì. “Adesso segui le istruzioni di Veronica, lei ti aiuterà. Quando starai meglio parleremo.” Prima di alzarsi, tirò un’ultima occhiata alla ferita che Keith aveva sulla guancia: ormai si era quasi del tutto rimarginata, ma Keith era sicuro che gli sarebbe rimasto il segno.
    Seguì docilmente Veronica, che non parlava greco e quindi con lui si esprimeva a gesti, e lasciò che lo immergesse in una tinozza e gli scrostasse finalmente tutto il sangue e il fango che aveva addosso. Lo aiutò ad asciugarsi, e gli diede una leggera tunica con cui vestirsi, poi gli offrì da mangiare: un po’ di pane con il garou, della frutta, e quello che sembrava un avanzo di carne stufata.
    Keith non ne mangiava da tempo, era rimasto chiuso in casa a Cartagine nutrendosi di pane rappreso e verdura secca, e non si fece alcuno scrupolo a divorarsela tutta.
    Veronica lo lasciò lì a mangiare, ordinando a quello che evidentemente era il fratello, di fargli compagnia mentre lei si occupava di sistemare il resto. Keith ignorò le occhiate non convinte del ragazzo, che stava dall’altro capo del tavolo e seguitò a mangiare. Ignorò anche che tentasse di comunicare con lui, anche se lo capiva benissimo quando parlava in latino.
    Sul campo di battaglia Shiro gli era sembrato un gran signore, eppure viveva in una casa non molto grande, con come unico lusso un piccolo giardino, e in quei casermoni che sembravano dover venire giù da un momento all’altro. Keith non capiva, e non capiva nemmeno perché si fosse fissato così tanto con lui senza ragione.
    Ma voleva vedere Roma.
    Così, alla prima occasione, sgusciò via dalla sorveglianza del ragazzo, si ritrovò per strada, immediatamente avvolto da odori che non conosceva, dalla parlata latina, da persone differenti a quelle a cui era abituato.
    Eppure, mentre camminava in quelle viuzze, nonostante il marciume e la rozzezza di quei luoghi, si riscoprì felice, come se quei luoghi gli fossero in qualche modo familiari. Tra tutte le città che aveva visitato, tra cui Cartagine, Roma era l’unica che gli aveva fatto quell’effetto.
    Era a casa.
     
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